Se non me lo avessero regalato forse non avrei letto questo libro. Conosco l’autrice, l’ho apprezzata in alcuni suoi romanzi e in un saggio sulla scuola, talvolta seguo i suoi commenti alla contemporaneità sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore. Ma questo romanzo su un bambino che prega mi sembrava lontano dai miei interessi, temevo un racconto religioso, poi mi è arrivato in dono. All’inizio ci viene presentata una situazione piuttosto frequente al giorno d’oggi: lei, Katia, giovane mamma, separata dopo solo un anno di matrimonio, con un figlio da crescere, sballottato ora qua ora là. Cassiera di un supermercato, pochi soldi, pochi aiuti, un marito latitante, una vita sempre di corsa e in affanno, poche parole e tanta stanchezza.
Lui, il figlio, sei anni, mingherlino, solitario, timido, con un nome spropositato e inadatto: Leone, appunto (chiamato Nano- quasi una beffa- dal padre), che cerca di non fare rumore, di non dare disturbo anche là dove non si spiega. “La cosa che proprio non capisce è perché, se sua madre ha tutta quella fretta, si fermi di continuo davanti alle vetrine. Volano come aerei e poi di colpo, d’improvviso, fermi. Fermi come i pali della luce.” Una situazione comune e quasi irritante per il dispendio di energie e lo scarso risultato conseguente. Poi, la scoperta di una stranezza che inquieta e risulta incomprensibile ai più: Leone si ferma -ovunque sia: per la strada, al cinema, a casa- si genuflette, si raccoglie e prega. La madre se ne vergogna, si agita, non capisce, ne parla con tutti fuorché con lui. Ed è a questo punto che il romanzo si fa coinvolgente perché ci introduce nelle domande, nei desideri, nei bisogni di questa giovane anima, forse nell’attesa di ricever risposte. Ne scaturisce l’elemento più delicato del libro: la dimensione dell’attesa che la preghiera, laica o religiosa che sia, introduce: quello spazio aperto e dolce, quel tempo dilatato, quella sospensione fiduciosa che qualcosa di magico o di normale possa accadere. Si tocca con mano, attraverso le osservazioni di questo bambino quella dimensione di ascolto, di concentrazione che rende acuti i nostri sensi, contrariamente alla fretta che, invece, li anestetizza. Per il piccolo Leone pregare significa “aver voglia di andarmene via”, in quel “grande prato gigantesco” dove su una panchina lo attende, sempre, senza alcuna fretta, l’amico Gesù, proprio uguale a quello che gli aveva fatto conoscere Nonna, quello della statuetta. Una Nonna che non ha neanche bisogno di esser chiamata per nome, quasi fosse l’incarnazione della nonnità: amorevole, disponibile, premurosa, attenta, complice ma anche educatrice: “non devi pregare per le cose sciocchine (…) a Gesù non piacciono le cose sciocchine”, lo indirizza. Un ritratto di nonna intenso, commovente, che insegna al nipote a dar significato ai gesti: “gli riempiva i giorni delle attese con i riti”, a dar valore alle cose, ai pensieri. Una nonna che guida, che sa vivificare la tradizione traghettandola nella contemporaneità. La Nonna di cui Leone sente una grande nostalgia, dopo che è andata in cielo, quasi all’improvviso, senza che nessuno si sia preoccupato di fargliela salutare. E forse proprio per evocarla, per renderla presente comincia a mettersi a pregare creando scompiglio, scandalo, risatine e derisioni sia da parte dei compagni che degli adulti, a parte qualche rara eccezione, come quel compagno, emarginato, che per cultura pratica la preghiera, con normalità.
Attraverso la figura di Leone, la Mastrocola ci racconta di come, in questo mondo veloce ed efficiente, abbiamo perso il contatto con le forze cosmiche (la dimensione ultraterrena), con l’invisibile, con ciò che non si può toccare, manipolare, dominare e come a farne le spese sono i più fragili, i bambini per primi che, se privati di questa dimensione ‘narrativa’ , essenziale, dell’esistenza diventeranno degli automi che corrono a vuoto come i loro genitori o si rovineranno, con scelte sbagliate, come sempre più spesso si legge nella cronaca. Proprio i bambini che, più di tutti, dovrebbero abbeverarsi e nutrirsi del mistero, della meraviglia, dello stupore per diventare degli adulti capaci e responsabili. L’ultima parte del libro diventa poi quasi allegorica con una pioggia incessante che annulla le comodità, annichilisce la tecnologia e induce tutti a riprendersi uno spazio di ascolto, di attesa, di concentrazione per pregare coralmente, insieme, ognuno con le sue parole, “come quelli che sul mare, nella notte, guidano le navi perché non si perdano”. Ma più che una preghiera che salva, questo pregare è un modo di sentirsi parte del mondo accettandolo con le sue incertezze, i suoi misteri, le cose che non si comprendono: “nessuno pensò che erano state le preghiere a far smettere di piovere. Ma nessuno pensò nemmeno che non fossero state le preghiere. Rimasero tutti sospesi, come l’aria di quel giorno. (…) Forse aveva smesso di piovere semplicemente perché a un certo punto smette di piovere. Non l’avrebbero mai saputo con certezza. Comunque, non se lo chiesero mai.” Un gesto di umiltà, di accettazione della precarietà dell’esistenza umana che restituisce serenità, “un’allegria quasi fanciullesca”. Dopo questo diluvio, tutti sono cambiati, vogliono rivedersi e anche Katia si scopre grata a suo figlio per avergli offerto questa opportunità di accorgersi di un modo semplice e intenso di osservare il mondo e farne parte.
E’ con lo sguardo dei bambini che si colgono le cose migliori, ma bisogna lasciarlo spaziare!