Cinque domande a...

Cinque domande a...

luca deganiLuca Degani- Titolare dello Studio Legale Degani, specializzato in legislazione sociosanitaria e No Profit, Risk Management e applicazione del D.Lgs. 231/01. Membro del Consiglio Nazionale del Terzo Settore. Presidente di UNEBA Lombardia-  Autore di pubblicazioni in materia

Lei è Presidente UNEBA Lombardia, associazione che, come tutte quelle coinvolte a vario titolo nella gestione di strutture residenziali per anziani, è stata chiamata in causa nel corso della pandemia COVID. Iniziamo dalla presentazione: cosa è l’UNEBA e chi rappresenta e, scendendo nel suo ruolo specifico, qual è la platea di enti che UNEBA Lombardia rappresenta
UNEBA nasce nel 1950 con l’obiettivo di dare un contributo nel campo dell’assistenza privata. Oggi UNEBA è un’organizzazione di categoria del settore sociosanitario, assistenziale ed educativo con quasi 1.000 enti associati in tutta Italia, i quali quotidianamente si dedicano all’assistenza delle fasce più deboli della popolazione: anziani, minori, disabili, persone con problemi di dipendenza e, in generale, persone con situazioni di disagio psichico e/o sociale. Gli enti associati, che svolgono la loro attività essenzialmente senza scopo di lucro, si ispirano ai principi cristiani e perseguono l’obiettivo di mettere al centro la persona, il suo sviluppo, la sua dignità e i suoi bisogni.

Il 2020 è stato un anno drammatico per il Paese, in particolare per gli anziani non autosufficienti. Qualcosa di questa tragedia era evitabile o almeno controllabile/contenibile, quando se ne capì la drammaticità o è stato un uragano imprevisto e incontenibile?
Solo in Lombardia le RSA assistono circa 70 mila persone, nella maggior parte dei casi anziani non autosufficienti affetti da una pluralità di patologie. Si tratta quindi di soggetti fragili, maggiormente esposti al rischio di contagio e di non sopravvivere alla malattia.
Se si fosse immediatamente compresa la delicatezza di questi luoghi, la tragedia sarebbe stata evitabile? Certamente non evitabile in termini assoluti, ma è chiaro che alcune scelte, prese in un momento di emergenza e di estrema difficoltà, non si sono rivelate tutelanti fino in fondo per la popolazione anziana ospitata in RSA. Mi riferisco, ad esempio, ad alcune delibere regionali che hanno disposto il trasferimento in RSA, nella prima fase della pandemia, di pazienti ospedalieri, senza che potesse essere garantita un’efficace validazione del loro stato di negatività, al fine di deflazionare il sistema ospedaliero. Inoltre, soprattutto nei primi mesi del 2020, le RSA sono state poco considerate: non arrivavano gli approvvigionamenti dei dispositivi di protezione, talvolta requisiti e dirottati verso gli ospedali, e risultava difficile far ricoverare gli ospiti presso le terapie intensive e più in generale presso i reparti ospedalieri. Ci sono stati anche altri aspetti problematici: i tamponi, destinati prioritariamente alle strutture ospedaliere, quando concessi arrivavano a mesi di distanza delle richieste.
Non si è compreso, in sintesi, che le RSA non nascono come luogo strutturato per la cura delle acuzie e, quindi, per gestire un focolaio da malattie infettive. In particolare nella fase iniziale il fenomeno pandemico è stato affrontato concentrando l’attenzione sulla gestione ospedaliera e non sulla prevenzione e organizzazione dei servizi territoriali. Non si poteva pensare che le strutture fossero in grado di gestire da sole, senza un adeguato supporto, la situazione emergenziale.

Come per altre “missioni” del PNRR il confronto, almeno quello pubblico, nell’area welfare risulta molto ridotto soprattutto con i soggetti che a vario titolo sono coinvolti. Si formano gruppi di ricerca in particolare tra esperti accademici e appare sui giornali qualche lettera di intenti e suggerimenti.
Emergono però due ipotesi d’intervento molto diverse. C’è quella presentata dal Network non autosufficienza (NNA) a cui hanno aderito le più importanti associazioni e organizzazioni del settore, che ha illustrato, in un corposo documento pubblico, declinato specificatamente per il PNRR, una nuova struttura dell’assistenza agli anziani che riprende e estende le varie tipologie di offerta esistenti rileggendone obiettivi, relazioni, coordinamenti e gestione o “governance” come oggi si usa dire.
Poi c’è la Commissione Paglia. Ne date notizia sul vostro sito  con commenti negativi di lettori sulle vistose assenze. Istituita direttamente dal Ministro della Salute, è composta da persone con un’eterogeneità di esperienze, che forse ha un compito diverso o più ampio rispetto al PNRR ( vedi l’assegnazione all’Arma dei carabinieri di compiti di controllo e vigilanza sulle strutture, su cui lei si è già espresso su Lombardia sociale 
Dalla Commissione Paglia perviene una sola indicazione chiara: l’assistenza agli anziani anche non autosufficienti e/o con problemi di demenza, può essere solo al loro domicilio.
Come UNEBA quali sono le vostre considerazioni su queste due ipotesi e quale più in generale le vostre proposte in merito?
Il tema vero che ritengo debba essere affrontato non è la differenza tra quanto esposto dal Network non autosufficienza, a cui anche la mia organizzazione ha aderito, e quanto potrà esporre la Commissione Paglia – o, forse, in maniera più compiuta e competente, la Commissione istituita dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e guidata dall’ex Ministro Livia Turco –, ma il fatto che il PNRR non può essere il luogo dove prendere atto delle necessità di rivisitare il sistema sanitario nazionale a partire da un’azione di lettura dei bisogni delle persone.
Non è infatti possibile avere atti di programmazione nazionale che ancora oggi, per quanto riguarda la programmazione per la non autosufficienza, risalgono agli anni’90; non è possibile, in particolare, avere due atti di programmazione, quali il Patto per la Salute del 2016 e 2020, che parlano di passaggio da ospedale a territorio e da acuzie a cronicità, ma non riescono ad incidere sulla ridefinizione dell’assetto organizzativo della risposta ai bisogni della popolazione. Popolazione, peraltro, che è molto diversa da quella delle normative istitutive del SSN, che – giova ricordarlo – sono degli anni ’70 e ’90: oggi infatti la popolazione cronica è ben più ampia.
Questo dato deve essere analizzato in modo più approfondito, ossia dal punto di vista della definizione dei servizi presenti ed eventualmente da riconvertire, oltre che da una attenta analisi dei bisogni della popolazione. Ad esempio, gli hub ospedalieri per la risposta al bisogno acuto devono essere pochi e altamente specializzati, mentre deve implementarsi la capacità di risposta sul territorio per i tantissimi soggetti cronici che, a fronte della maggiore capacità della medicina e della farmacologia di cronicizzare malattie acute, oggi hanno un continuo bisogno di verifica dell’appropriatezza del loro percorso di cura.
Le RSA devono essere, non riconvertite, ma ripensate tanto per tutelare la necessità di residenzialità protetta per soggetti non in grado di rimanere al loro domicilio (non c’è nessuna guerra tra residenzialità e domiciliarità: sono due risposte diverse a bisogni differenti), quanto per usare le professionalità presenti in questi luoghi per fornire risposta ai bisogni di cronicità del territorio.
Questo è ciò che ci si aspetta dal Ministero (perché non deve essere solo la società civile a esporre tali esigenze), ma la risposta non può essere data soltanto attraverso il PNRR, che deve essere un atto strumentale e funzionale al rifinanziamento strutturale del sistema. In altri termini, non può pensarsi che con 300 milioni di euro sia possibile la modifica di 270 mila posti di RSA, perché con tale somma possono al massimo riconvertirsi 3 mila posti.
Deve dunque essere un atto di programmazione generale a ridefinire i modelli di risposta al bisogno, ad esempio omogenizzando le scale valutative, così da garantire su tutto il territorio nazionale il percorso di presa in carico più appropriato tanto per il cronico quanto per l’anziano.

La pandemia COVID 19 ha messo in luce la diversificazione del servizio sanitario ma soprattutto socio-assistenziale a livello delle Regioni, come conseguenza primaria della modifica del Titolo V.
Ritiene che alcuni livelli (programmazione, diritti all’accesso dei cittadini etc.) debbano avere una base comune a livello nazionale o che i governi regionali abbiano pieni poteri in materia?
La modifica del Titolo V della Costituzione ha assegnato i servizi sociali alla competenza esclusiva delle Regioni, mentre ha collocato i servizi sanitario e il sociosanitario nelle materie di competenza concorrente.
La questione posta in risalto dalla pandemia non è tanto la diversificazione dei servizi sanitari e sociosanitari, ma piuttosto la mancanza di un atto di programmazione generale e la capacità di garantire alle regioni strumenti da adottare nella loro dimensione territoriale. Se a livello nazionale si prevedono strutture quali gli hub ospedalieri per l’alta specializzazione, ospedali di comunità, presidi sociosanitari territoriali o luoghi in cui possano essere gestiti i codici bianchi, compete poi alle diverse regioni adattare tali strumenti al loro territorio, ma ciò non può prescindere, a monte, da una programmazione strutturata a livello nazionale che identifichi i luoghi e i percorsi della cura.


È sempre più personale. Lei è avvocato, ha un avviato studio a Milano e da diversi anni ricopre cariche all’interno dell’UNEBA a livello regionale e nazionale.
Se fosse nella condizione di dover scegliere un’assistenza per una persona a lei cara, non più in grado di rimanere sola al proprio domicilio, quale soluzione perseguirebbe?
Per rispondere alla domanda ritengo importante evidenziare che, al di là dei rapporti che posso avere con il mondo dell’assistenza, la scelta di una soluzione assistenziale per una persona a me cara partirebbe, come per qualsiasi altra persona, dall’elaborazione della sofferenza emotiva di dover pensare ad una presa in carico in un luogo alternativo al domicilio. Dopodiché, la prima azione che intraprenderei credo sarebbe quella di rivolgermi a specialisti che analizzino lo stato di salute, la risposta neurologica, la capacità di convivenza nell’ambiente familiare e mi consiglino, nonché accompagnino, nel compimento di una scelta dolorosa, ma che a volte non solo è necessaria, ma può portare ad un miglioramento della qualità di vita della persona che si trasferisce in una struttura residenziale. Struttura nella quale, per ricollegarmi ai quesiti precedenti, è giusto che la risposta non sia rivolta ad un bisogno acuto ma alla qualità della vita della persona accolta.
La RSA non deve essere una struttura ospedaliera, ma un luogo che riesce a valorizzare al massimo le attività sociali, relazionali ed emotive residue di chi ci vive. Il sistema dei servizi alla persona deve inoltre prendersi carico dell’accompagnamento dei familiari ad una scelta che può comportare una dimensione emotiva di sofferenza e di abbandono, che deve essere guidata, supportata ed aiutata.

roberto digiulioRoberto Di Giulio- Professore Ordinario presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, dove insegna Progettazione Esecutiva e Progettazione Ambientale. Prorettore delegato all’edilizia dell’Università degli Studi di Ferrara  Coordinatore del Dottorato di Ricerca Internazionale “Architecture and Urban Planning”. Si è occupato, sia in ambito di ricerca che di progettazione, di edilizia sanitaria e di strutture per anziani. Sul tema delle RSA, in particolare, ha condotto ricerche, sia in ambito nazionale che internazionale, e ha partecipato alla progettazione di numerose strutture con l’Ipostudio Architetti di Firenze, del quale è socio fondatore

Riprendiamo una riflessione, che parte dall’entrata in vigore del DPCM del 22/12/1989 che definiva gli atti d’indirizzo e coordinamento nonché i criteri e le caratteristiche degli spazi per le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali.
Trenta anni dopo le strutture residenziali per gli anziani, nelle loro varie denominazioni, sono salite nella cronaca quotidiana con la pandemia di Covid-19.
Nel marzo 2020 si ebbe notizia dei primi decessi dei residenti in questi presidi assistenziali.
Dopo alcune settimane si svelò l’enormità della tragedia e alcune delle motivazioni per cui l’epidemia aveva colpito duramente in quei luoghi.
Tra queste, oltre a quelle organizzative e assistenziali, anche i criteri costruttivi, per l’impossibilità di luoghi di isolamento, per l’affollamento delle stanze, per la presenza di personale dall’esterno per assicurare i servizi essenziali (forniture, pulizie lavanderia etc)
Lei con i suoi colleghi di Ipostudio si è occupato di questi servizi residenziali, progettando e costruendo in tutto il Paese, licenziando pubblicazioni e saggi, organizzando corsi specifici alla Facoltà di Architettura di Ferrara, dove è docente.
Dopo questa lunga premessa le chiedo: rivedendo i progetti da voi realizzati quali dei criteri costruttivi e funzionali da voi adottati nelle diverse progettazioni oggi confermereste?
I principi generali non sono cambiati. I criteri di progettazione continuano a far riferimento all’idea della RSA come “luogo di vita collettiva”, cioè al principio espresso in uno degli undici criteri del DPCM del 22/12/198 (quello riferito alla concezione architettonica degli spazi), secondo il quale le RSA devono ricreare all'interno della struttura condizioni di vita ispirate a quelle godute dagli ospiti al proprio domicilio.
Quel principio è sempre valido e lo sono nella sostanza tutti i criteri di quella norma. Nella progettazione come nella ricerca, l’applicazione degli schemi funzionali messi a punto all’indomani dell’entrata in vigore del DPCM e lo studio dei risultati raggiunti, hanno contribuito ad un processo di maturazione dei modelli di interpretazione dei criteri generali espressi dalla norma.
Tuttavia, l’evoluzione dei modelli come anche i cambiamenti derivanti dall’evoluzione del quadro normativo non hanno modificato i principi fondamentali, come per esempio quello che stabilisce che gli spazi si organizzano sulla base di una successione di “fasce funzionali” nelle quali si realizzano diversi gradi di “domesticità” e di privacy. Uno degli “indicatori” della qualità di un buon progetto resta, a mio avviso, la capacità di interpretare, tradurre in spazi e volumi e quindi trasmettere la percezione di un passaggio graduale e coerente tra le diverse aree funzionali di una RSA: dalle configurazioni “aperte” degli spazi pubblici condivisi con gli utenti esterni, che la frequentano quotidianamente, all’intimità domestica del nucleo e delle stanze degli ospiti.
Ma c’è anche qualcos’altro che nei programmi di intervento pubblico in questo settore non è cambiato: il margine strettissimo tra i minimi dimensionali imposti dalle norme (ai quali corrisponde un livello di qualità altrettanto “minimo”) e le risorse con le quali realizzare gli interventi (la cui stima spesso si basa proprio su quei minimi).
Questa condizione rischia spesso di compromettere sensibilmente la qualità di ciò che viene realizzato essendo difficile, se non impossibile, superare quegli standard, ovvero aggiungere un po’ di qualità in più, senza “sforare” il tetto di spesa ammissibile.
Questo ci riporta alla questione posta nella prima parte della domanda: quanto le caratteristiche degli edifici che ospitano le RSA abbiano pesato negli episodi tragici che si sono verificati durante la pandemia.
La flessibilità degli spazi di un edificio a carattere prevalentemente residenziale, come una RSA, e la possibilità di poter gestire l’organizzazione degli spazi allo scopo di creare condizioni di isolamento e protezione (disponendo per esempio di un numero congruo di stanze singole) si coniugano male con edifici progettati sulla base di standard dimensionali minimi.
Come fa una famiglia di quattro persone che vive in un alloggio di edilizia economica e popolare di 60mq a gestire l’isolamento di uno dei componenti? L’esempio forse semplifica un po’ troppo i termini del problema ma credo renda l’idea.

Le migliaia di decessi nelle strutture residenziali - prima ancora dell’idoneità delle strutture assistenziali, spesso vecchie di secoli, anche se ristrutturate - ha evidenziato la causa di tanti ingressi: l’alto numero di non autosufficienti gravi, la presenza in continuo aumento di anziani con patologie cognitive, la mancanza di servizi intermedi nel territorio a supporto sia della permanenza al domicilio sia dei famigliari coinvolti.
Le strutture residenziali sono l’unica risposta accessibile.
Per rispondere a queste carenze le RSA e i servizi analoghi potrebbero/dovrebbero diventare una delle offerte possibili di fruibilità, con un ruolo intermedio tra territorio e ospedale. Si parla sempre più spesso di “RSA aperta”.
Cosa dovrebbe modificarsi nei criteri progettuali e nell’organizzazione degli spazi?
Credo che “diffuse” sia l’aggettivo più appropriato. Un’evoluzione del modello delle RSA potrebbe portare a strutture disarticolate, configurate come vere e proprie reti di servizi in grado di creare un’offerta flessibile, adattabile al mutare delle esigenze e anche all’eccezionalità delle situazioni nelle quali si deve far fronte ad un’emergenza. Una “RSA diffusa” supportata da un efficiente servizio di Assistenza Domiciliare Integrata dovrebbe essere costituita da strutture di piccole e medie dimensioni diffuse omogeneamente sul territorio e capaci di adeguarsi alle diverse condizioni degli ospiti, in particolare di quelle dalla quali dipende una loro eventuale non autosufficienza.
Si supererebbero quei problemi, che peraltro sono stati da tempo evidenziati, derivanti dalla concentrazione di anziani con esigenze (e patologie) molto diverse in grandi strutture dove difficilmente si riescono a creare quelle “condizioni di vita ispirate a quelle godute dagli ospiti al proprio domicilio”.

Pensando a nuove tipologie residenziali e guardando ai grandi progetti in corso di elaborazione a livello governativo, anche i servizi assistenziali e in particolare quelli residenziali, che chiedono tempi lunghi di realizzazione e ristrutturazione dovranno accogliere e soddisfare una generazione di anziani- comunemente indicata come i baby boomer- con un diverso livello di istruzione, di formazione professionale, di abitudini e stili di vita e conseguentemente con esigenze e aspettative personalizzate in caso di bisogno, una giusta rivendicazione di rispetto dei propri diritti e della propria privacy.
Digitalizzazione e informatizzazione dei servizi, intelligenza artificiale, biotecnologie si dovranno inserire anche nei progetti per le strutture residenziali.
Come conciliare da una parte un’efficienza gestionale in senso lato (controllo, e sorveglianza e sicurezza per i residenti fissi o temporanei etc.) con il rispetto della privacy degli individui, un aumento degli spazi individuali (interni ed esterni) con una accettabilità dei costi di costruzione e manutenzione?
Credo sia necessaria una revisione dei modelli che contempli anche un innalzamento degli standard minimi. Mi riferisco ovviamente alle strutture pubbliche nelle quali, come ho detto, è proprio su quegli standard che si pianificano gli investimenti.
Cominciando naturalmente dagli standard relativi agli spazi residenziali, cioè il Nucleo e le stanze.
La questione non è tanto disporre di un maggior numero di stanze singole, quanto di poter progettare una configurazione e una organizzazione funzionale che consenta ai residenti di ricreare, magari in uno spazio da poter personalizzare, quelle “condizioni di vita ispirate a quelle godute al proprio domicilio”. Torniamo sempre al DPCM di 30 anni fa…
La qualità e flessibilità degli spazi sono direttamente proporzionali alle superfici a disposizione e, come abbiamo detto, nelle situazioni di emergenza come quella che stiamo attraversando – o altre (non solo sanitarie) che purtroppo non possiamo non mettere in conto – una maggiore disponibilità di spazi organizzati secondo modelli flessibili e adattabili è quello che serve.
Naturalmente ciò comporta un aumento dei costi di costruzione e di gestione. Sarà quindi una scelta politica con la quale si dovrà confrontare il sistema sanitario nazionale riflettendo comunque sui costi indiretti che luoghi meno confortevoli producono quando da una bassa qualità delle condizioni di vita deriva l’insorgere o l’aggravarsi di diverse patologie, in particolare quelle legate al disagio psicologico.

Un grande dilemma incombe sulle RSA per l’ambiguità della loro definizione: Residenza sanitaria assistenziale, struttura extra ospedaliera.
Non a caso in epoca di pandemia uno dei primi provvedimenti governativi preso a livello nazionale- con un palese disaccordo dei responsabili della gestione- fu l’assegnazione al Direttore sanitario delle RSA delle decisioni in merito agli ingressi dei famigliari all’interno delle strutture. Solo l'8 maggio scorso il Ministro della Salute ha firmato un'ordinanza che, con il rispetto di misure di sicurezza, le strutture si devono aprire ai famigliari dei residenti. In questi mesi molti anziani sopravvissuti al COVID hanno visto un peggioramaneto sino alla morte delle loro condizioni per solitudine, mancanza di  stimoli affettivi e sensoriali, assenza di relazioni famigliari. Accantonando l’aspetto normativo e organizzativo è possibile definire una funzionalità degli spazi che permetta l’isolamento se necessario, ma anche il mantenimento delle relazioni sociali? In altri termini come differenziare una struttura ospedaliera da quella residenziale?
Avevo fatto accenno alle conseguenze che la bassa qualità degli spazi nei quali si vive determina una bassa qualità della vita, specialmente quando in quegli spazi si passa la maggior parte se non la totalità del tempo.
Come ho detto, una revisione degli standard potrà portare ad una rivisitazione dei modelli funzionali che tengano conto della necessità di “riconfigurare”, in situazioni di emergenza o di eccezionalità, l’organizzazione e la gestione degli spazi delle RSA.
Le ipotesi relative ai modelli di “RSA diffuse”, di cui parlavamo prima, potrebbero essere sviluppate anche tenendo conto di questo obiettivo.

La domanda finale ha sempre un carattere personale. Sono trent’anni che con i suoi colleghi e ora con gli studenti lei progetta e realizza servizi residenziali per anziani. Cosa avrebbe voluto realizzare, fuori da vincoli legislativi dettati da Governo e Regioni, nei servizi per gli anziani, anche sulla base di esperienze internazionali?
Un esperimento particolarmente interessante, già praticato in forme diverse in alcuni paesi europei, consiste nello sviluppo di “strutture ibride”, ovvero edifici nei quali le unità residenziali e i servizi dedicati agli ospiti di una RSA si integrano con servizi di altra natura.
Condividendo alcuni spazi e servizi le due strutture favoriscono l’interazione, diretta o anche solo basata sul contatto visivo, tra gli utenti delle due strutture. Le fasce di età degli utenti, le attività svolte nelle rispettive aree funzionali possono essere assai diverse come nel caso, per esempio, di strutture che ospitano una RSA e una scuola per l’infanzia, mettendo in relazione anziani e bambini in età prescolare.
Si possono però ricreare, o evocare, in alcuni momenti, in alcuni luoghi, condizioni di interazione che ripropongono quelle che si creano in nuclei familiari o in gruppi che vedono la compresenza di generazioni diverse.
Si possono ricreare, a vantaggio di entrambe la “categorie” di utenti che entrano in relazione, ma in particolare per gli anziani, quelle ... “condizioni di vita ispirate a quelle godute dagli ospiti al proprio domicilio

giorgio banchieriGiorgio Banchieri- Segretario Nazionale del CDN ASIQUAS, Associazione Italiana per la Qualità dell'Assistenza Sanitaria e Sociale; Docente presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche, Progettista e Coordinatore Didattico dei Master MIAS, MEU e MaRSS, Università “Sapienza” Roma; Docente ai master e Direttore di progetti di ricerca e di consulenza organizzativa e gestionale in aziende sanitarie (Asl e AO) presso la LUISS Business School di Roma, presso L’Università Politecnico della Marche, presso Università del Salento; Direttore di www.osservatoriosanita.it 

Facciamo prima le presentazioni. Lei è segretario dell’Associazione Italiana per la Qualità dell’assistenza Sanitaria e Sociale (ASIQuAS) di cui è presidente il professor Francesco di Stanislao e in questa sua veste è coordinatore e maggior conoscitore delle diverse iniziative programmate.
Tra le attività in corso, certamente molto impegnativa è la pubblicazione di una Covid Review Weekly (settimanale), realizzata in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università “Sapienza” di Roma, che ha raggiunto con l’ultima uscita il significativo numero di 124 pubblicazioni messe in rete, dall’esordio della pandemia.
Perché una Società come ASIQUAS ha assunto questo impegno e come s’intreccia con le altre attività programmate?
ASIQUAS2021 04 09 alle 16.18.10Come ASIQUAS siamo interessati a confrontarci con la realtà attuale del sistema sanitario nazionale e con le sue articolazioni regionali in permanenza della pandemia Covid19. L’impatto sui modelli organizzativi delle aziende sanitarie e sulle reti regionali territoriali e di cure primarie è stato stravolgente. Abbiamo già organizzato e realizzato due webinar come segue:
-1° Webinar ASIQUAS, 12 Febbraio 2021 “Covid 19 working in progress-. Esperienze a confronto per riflettere insieme” in cui abbiamo messo a confronto esperienze di aziende sanitarie diverse del Veneto, della Toscana, del Lazio e dell’Emilia Romagna
-2° Webinar ASIQUAS, 19 marzo 2021, “Le risposte organizzative al Covid e i sistemi di monitoraggio dei modelli regionali di risposta in Italia”, in cui abbiamo messo a confronto attività di survey svolte oltre che da noi ASIQUAS con la partnership delle Università “Sapienza”, Politecnico delle Marche e “Cattolica” di Roma con le attività di osservazione di ALTEMS, sempre dell’Università “Cattolica”, il CREA dell’Università di “Tor Vergata” con Federsanità ANCI, la FIASO con la SDA dell’Università “Bocconi” di Milano e una survey di un gruppo di allievi del Master MIAS, Management e Innovazione nelle Aziende Sanitarie” del DiSSE, (Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università “Sapienza”) di Roma, da cui sono emersi molti spunti di criticità e di soluzioni sperimentate a livello dei SSR e delle singole aziende sanitarie molti stimolanti e significative.
Inoltre abbiamo prodotto una Position Paper ASIQUAS su “Per una Sanità Pubblica in Italia… anche dopo il Covid 19.”, in cui siamo partiti dalla considerazione che “la pandemia/sindemia Covid19 ha messo in evidenza i “nodi” strutturali e organizzativi dei Servizi Sanitari Regionali e del SSN nel suo insieme. Da qui occorre ripartire per dare una risposta di sistema che riveda il SSN profondamente rinnovato e sostenibile. Serve un coordinamento nazionale e UE delle Policy di contrasto alle pandemie.”

ASIQUAS è in continuità con le attività scientifiche di SIQUAS-VRQ effettuate dal 1984 sino al 2016. Oltre ai nuovi soci, che si sono aggiunti ai “veterani” della SIQUAS, dalla sua postazione quanto c’è di continuità e quali sono i cambiamenti apportati, le attività introdotte, le nuove relazioni instaurate?
Come ASIQUAS siamo la continuazione della vecchia SIQUAS VRQ in una nuova veste formale dovuta anche alle nuove indicazioni della FISM per le società scientifiche. La prima cosa che abbiamo fatto è stato l’aggiornamento del nostro Framework scientifico, tenendo conto non solo degli sviluppi della letteratura scientifica e di quanto fatto di normativa e di strumenti dalle istituzioni in materia di qualità, sicurezza, appropriatezza, efficacia, efficienza e equità, ma anche di cosa, dopo 30 anni di attività su questi temi a livello nazionale e internazionale va considerato obsoleto e superato dalle pratiche correnti. Non è forse noto che SIQUAS VRQ è nata nel 1984 e successivamente sempre in Italia e sempre a Udine è stata fondata la ISQUA, Società Internazionale sulla Qualità.
A 30 anni dalla costituzione SIQUAS ha riunito nel 2016 sempre a Udine i fondatori ISQUA e ha fatto un bilancio anche critico su metodologie e strumenti della qualità. Tutto questo è confluito nella ridefinizione del nostro frame work e nella stesura di un nuovo libro, titolato “Qualità nell’integrazione tra sanità sociale”, in cui abbiamo riaggiornato modelli, metodologie e strumenti per governare le 14 “dimensioni” della Qualità poste a base del nostro frame work.

In epoca di lockdown, di webinar e di iniziative in streaming qual è il programma di lavoro dell’Associazione per i prossimi mesi?
Come ASIQUAS intendiamo svolgere, pandemia permettendo, il nostro Congresso nazionale in autunno 2021 su piattaforma web. Per arrivare al Congresso abbiamo:
- Pubblicato una Position Paper come già descritto;
- Organizzato una serie di webinar tematici sull’impatto del Covid19 sulle aziende sanitarie, sulla salute della popolazione, sull’economia e il sociale (la pandemia come sindemia) che abbiamo in parte realizzato e che dobbiamo ancora svolgere e con una frequenza ogni venti giorni circa;
- Aggiornato il nostro Framework scientifico e messo in stampa il libro: “Qualità nell’integrazione tra sanità sociale”,
- Rieditato la nostra Rivista storica “QA”, con spazio di pubblicazione di studi, ricerche e articoli su esperienze dei servizi sanitari e delle aziende sanitarie, validati dai “referi” del nostro Comitato Editoriale della rivista;
- Progettato e avviato a realizzazione corsi di formazione con crediti ECM per i soci e i non soci ASIQUAS.

Una delle ultime attività della SIQuAS fu la pubblicazione di una raccomandazione nazionale sul “I requisiti di qualità nell’integrazione tra sanità e sociale” (FrancoAngeli editore).
Però anche la nuova sigla mantiene una sola “S” quella dell’assistenza sanitaria, tralasciando l’assistenza sociale, quando proprio la pandemia COVID ha dimostrato, purtroppo in negativo, quante vite si sarebbero potute salvare se l’assistenza sanitaria si fosse interfacciata con quella sociale, che significa in primo luogo territorio e casa.
Quali gli ostacoli o comunque le sottovalutazioni del problema?
Francamente come ASIQUAS abbiamo posto alcuni temi a base dello sviluppo delle attività che ho brevemente tratteggiato di già nell’articolo, ovvero: l’integrazione come dimensione interdisciplinare, inter professionale, inter setting, inter livello e tra ospedalità e territori. Altri temi centrali per noi in questa fase di policy sanitarie: le reti di cura, i PDTA sia ospedalieri che “integrati” ospedali-territori, il prendersi cura e il curare. Il sociale è una risorsa fondamentale nelle filiere assistenziali e deve essere riconosciuto come portatore di interessi e partner di gestione dei processi di cura e assistenziali. C’è ancora molto da lavorare, ma anche la pandemia impone una accelerazione che va colta anche come opportunità di cambiamento.
Libro Integrazione 2021 04 20 alle 15.21.45

Ha sempre una connotazione più personale. Nel suo cv, dalla formazione universitaria sino alle più recenti esperienze professionali ha intrecciato studi statistici e demografici, economia e sociologia, poi però si è sempre confrontato con i temi dei servizi per la salute, sanitari e sociali.
Cosa vorrebbe che uscisse da questa tragica e inaspettata esperienza della pandemia per poter parlare di “cura” e “prendersi cura”, termini con cui si vuole distinguere tra una prestazione sanitaria e un impegno per la salute?
La pandemia è anche una sindemia, ovvero, una crisi economica e sociale di prima grandezza e globale. Il tema della salute si collega a quello della sanità, del benessere sociale, dei diritti e della dignità del lavoro. Come laico non posso non riconoscere la “modernità” del pensiero sociale ed economico di Papa Francesco e la sua attenzione ambientale. La pandemi/sindemia ha posto all’attenzione nostra il tema della finitezza delle risorse del pianeta, della loro distruzione o riproducibilità, il tema dell’economia circolare e quello della fratellanza e della solidarietà.
Fragilità, cronicità, demenze, povertà, lavoro, diritti sono tutte emergenze nella emergenza pandemica. Vanno affrontati affermando un nuova “visione” del Paese e di dove portarlo. Nel suo ambito va ridefinito il ruolo dalla sanità e di quella pubblica come maggiore sistema di servizi del Paese, come driver di ricerca e innovazione, come presidio sociale e di equità e universalismo. Le caratteristiche dei bisogni di salute della popolazione (crescita degli anziani, delle fragilità e delle cronicità e dipendenze) in devenire e l’impatto della pandemia danno centralità al tema della “cura” e del “prendersi cura” in una accezione non solo economico finanziario di pareggi dei bilanci delle aziende sanitarie, ma anche di obiettivi di salute e di benessere della popolazione. Su questi temi ci posizioniamo come ASIQUAS e cerchiamo di dare un contributo di iniziative e di dibattito.

andrea fabboAndrea Fabbo- Medico geriatra, direttore della UOC di Geriatria- Disturbi Cognitivi e Demenze della AUSL di Modena; dal 2013 al 2017 è stato responsabile del Programma Aziendale Demenze. Dal 2010 al 2018 ha collaborato come esperto (nell’area demenza e della fragilità) con l’ Agenzia Socio-Sanitaria della Regione Emilia-Romagna e dal 2016 con il Servizio Assistenza Territoriale – Direzione Generale Cura della Persona, Salute e Welfare della Regione Emilia-Romagna.
Dal giugno 2019 è referente per il Progetto Demenze della RER nell’ambito del Servizio Assistenza Territoriale.

Riprendiamo dal nostro colloquio del marzo 2020 in cui si parlava di “comunità amiche”. In un anno si è stravolto tutto il mondo che ci circonda per la pandemia COVID19. Si era iniziato allora il primo lockdown, ma tutti pensavamo fosse anche l’ultimo.
Invece la situazione è peggiorata, in particolare per gli anziani, e per chi soffriva di patologie varie tra cui forme di demenza e ancor più per chi era all’interno di strutture residenziali.
Il tutto il mondo ci si è scontrati, con la realtà dei vecchi soli nelle residenze socio-assistenziali, soli al proprio domicilio, quando andava bene con una badante, senza voce e senza identità.
Ora anche le migliaia di anziani morti stanno scivolando nell’oblio, le varie voci che si erano alzate per denunciare e chiedere mutamenti oscillando tra chiedere la chiusura delle RSA o auspicare un aumento della ricettività per garantire una organizzazione ospedaliera sono forse in attesa degli indirizzi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e di resilienza).
Se lei dovesse indicare i principi da adottare, le modalità con cui costruire un nuovo welfare per gli anziani, i criteri con cui agire cosa proporrebbe?
Gli anziani sono stati la categoria più vulnerabile che con la pandemia ha pagato e continua a pagare un prezzo altissimo ed in modo particolare le persone più fragili come quelle con demenza. L’isolamento sia a domicilio sia nelle strutture residenziali ha determinato un peggioramento delle condizioni di salute e soprattutto ha determinato un aumento di tutte le problematiche attinenti alla salute mentale (in primis la depressione), un aumento dei casi di demenza ed un peggioramento di tutte le patologie croniche per riduzione delle attività di controllo e monitoraggio legate alle stesse da parte del sistema sanitario. La pandemia ha portato alla luce i problemi della RSA già presenti prima del Covid-19 ed ha messo in luce tutta la fragilità di un sistema (diciamo così) non adeguatamente presidiato e “trascurato” dalle istituzioni socio-sanitarie. Il nuovo welfare per gli anziani dovrà innanzitutto prevedere una area specifica ad essi dedicata; negli ultimi anni avevamo visto sempre di più “scomparire” la sezione anziani nei piani socio-sanitari in nome di una presunta trasversalità in cui le azioni e gli investimenti dedicati a questa fascia di popolazione sono stati sempre più generici e poco aderenti agli effettivi bisogni.
Il modello dell’assistenza socio-sanitaria agli anziani andrà ripensato: forse meno posti in residenza (che sono comunque necessari per la gestione di situazioni ad elevata complessità), più assistenza domiciliare, più monitoraggio delle situazioni di fragilità.
Il nostro modello assistenziale si è concentrato per anni sulla assistenza e sulla gestione della non autosufficienza; occorrerebbe ribaltare questo concetto : investire di più sulla prevenzione, sull’invecchiamento attivo, ritardare tutte le condizioni che portano alla perdita di autonomia e tenere sotto controllo tutto ciò che potrebbe portare a disabilità (per gli anziani la solitudine e l’isolamento sociale, la depressione, la demenza, le cadute, la malnutrizione, la sedentarietà, la gestione delle patologie croniche ecc.) È questa secondo me la grande sfida del futuro e per fare questo occorrerà un grande impegno da parte della comunità e mettendo in rete tutto ciò che è presente in quel determinato ambito territoriale (dalle associazioni di categoria al volontariato, dal profit al non profit, dalla sanità al sociale; ognuno fa una “parte” ma in una visione d’insieme e non parcellizzata).

Mi riallaccio ancora al termine “comunità” estendendo il concetto oltre le persone con demenza. Questo progetto sulle “comunità amiche” parte da un’assunzione essenziale: le persone con demenza devono essere partecipi, nei modi consentiti dalla loro patologia, nel definire il loro futuro.
Dal particolare al generale: tutti gli anziani, compreso quelli con problemi cognitivi, devono poter decidere sul proprio futuro. Perché questo avvenga necessita fruire di una possibilità di scelta tra opzioni diverse, in cui si bilanciano le condizioni personali, (sociali, sanitarie, relazionali economiche etc.) le offerte del territorio, la presenza certa e qualificata del sistema dei servizi, il monitoraggio costante della qualità degli interventi erogati. È un futuro possibile? Quale potrebbe essere l’assunto iniziale e le basi di partenza?
Il concetto di “comunità amica” parte da un concetto chiave che è quello della “partecipazione” e collegato al tema della “salute sociale”: anche e soprattutto le persone con una qualche forma di disabilità (sia fisica che psichica e la demenza è una “disabilità che non si vede”) devono poter essere messe nelle condizioni di “partecipare” alla vita della comunità. Come? Abbattendo qualsiasi forma di barriera (fisica/architettonica ma anche culturale), combattendo lo stigma ed i pregiudizi che portano all’isolamento delle persone con demenza e delle loro famiglie, aiutando la comunità civile a prendere coscienza che “una vita normale” può essere garantita a “tutti” ma solo attraverso la partecipazione di “tutti”.
Partire da questo modello può essere la base per costruire comunità più a misura delle persone anziane. L’obiettivo maggiore è legato alla possibilità dell’anziano di restare nella propria casa e coltivare interessi e relazioni ma per ottenere questo è necessario che si superino l’ageismo ed i pregiudizi che vedono ancora oggi l’anziano “improduttivo” e “custodito” in ambiente protetto.
La protezione dovrebbe darla l’intera comunità e non “la casa di riposo”. Ho sempre combattuto questo termine: “riposare da chi e da cosa”? Partiamo dal linguaggio per iniziare a costruire comunità inclusive e partiamo dal capire cosa possiamo fare per aiutare i nostri anziani a restare nella propria casa e ad essere attivi. Le nuove residenze per anziani dovrebbero essere concepite inoltre come “centri di servizi”, inseriti nel tessuto urbano di una città, di un quartiere o di un paese, in cui si possa favorire anche lo scambio fra generazioni, fra chi lavora e chi no, fra chi “produce” e chi con il suo tempo e la sua esperienza (e questo è il caso della persona anziana), può ancora dare molto ed offrire sostegno agli altri in un rapporto di reciproco scambio fra sostegno e protezione. Il nuovo welfare per gli anziani passa, secondo me, da questa considerazione. Sostegno agli anziani ma anche possibilità si sviluppo e di lavoro per i giovani e di investimenti in questo settore. Credo fortemente che questa area, con le sue richieste, con le sue esigenze e le necessità di “consumo” degli “anziani attivi”, possa rappresentare anche un “motore” per l’economia del nostro paese più di quanto comunemente si crede e si percepisce.

All’interno dello “scarso” dibattito attivo ora sulle fondamenta per un nuovo welfare non è ancora possibile cogliere le innovazioni. Cito alcuni nodi cruciali: la prevenzione e la partecipazione degli anziani e dei loro famigliari alla realizzazione di piccoli servizi personalizzati, il ruolo di “tutoraggio “delle RSA sul territorio, il rapporto tra il sistema sociale e quello sanitario, e tra questi e il sistema privato o non profit, i ruoli professionali e la loro formazione. Quale potrebbe essere il filo conduttore che può tenere assieme tutti questi aspetti, anche e soprattutto dopo le tragedie provocate dal COVID 19?
È vero gli anziani e le tematiche legate al “nuovo welfare” non sembrano essere al centro del dibattito e dell’interesse. In realtà un ruolo importante può essere svolto dagli anziani stessi e dalle loro associazioni che devono pretendere, oggi più che mai, ascolto ed attenzione da parte delle istituzioni e della comunità di cui fanno parte, devono poter “controllare” e monitorare cosa e come vengono garantiti alcuni servizi e partecipare alla realizzazione, anche con proprie proposte, degli stessi. La realizzazione di piccoli servizi personalizzati (co-housing, alloggi protetti, condomini solidali ecc.) con il sostegno delle istituzioni permetterebbe di alleggerire il carico sui “servizi più pesanti” e limitare la richiesta (che non può essere infinita in rapporto all’invecchiamento della popolazione) di posti residenziali che ripeto non considero come la soluzione migliore, ma come una possibilità; sicuramente non quella principale.
Le RSA già funzionanti dovrebbero uscire dal proprio “isolamento” e proporsi come erogatrici di servizi, prevalentemente a domicilio, in sinergia con i servizi sociali e sanitari.
Il tema del controllo è cruciale: questo è un compito delle istituzioni che devono esigere il rispetto delle condizioni di accreditamento dei servizi, la appropriatezza degli interventi, la formazione e la competenza degli operatori che ci lavorano. Molto resta a livello di “superfice “e si entra poco nel merito. Dovremmo avere più coraggio. Si parla tanto di scarsità di risorse di personale nelle strutture. Perché si è arrivati a questo? Quali sono le condizioni offerte ai lavoratori? Perché c’è la “fuga” degli operatori dalle RSA? Ne vogliamo parlare? È solo un problema di scarsità di risorse e finanziamenti?
Le badanti: sono sempre la soluzione? Chi controlla e chi verifica come assistono i nostri anziani? L’innovazione passa anche da questo cambio di passo ed il tema potrebbe essere un buon punto di partenza del nuovo welfare.

Della sua esperienza di questi anni sul territorio, sia come responsabile dell’UOC di Geriatria territoriale, con riferimento specifico ai disturbi cognitivi e alle demenze ma pure partecipe del Piano Nazionale Demenze (PND) che sembra essere stato recuperato a distanza di qualche anno dalla sua approvazione, quali gli interventi più innovativi o che hanno colto maggior interesse tra la popolazione per gli anziani in generale e per le demenze in particolare?
Il piano nazionale demenze è innovativo per la realtà italiana ma si scontra con le differenziazioni regionali che “pesano” tantissimo nella costruzione di un nuovo welfare nazionale.
Alcune regioni, come la nostra (Emilia-Romagna N.d.R.), lo hanno attuato e si stanno sforzando di renderlo operativo, altre parzialmente, altre ancora non hanno fatto ancora nulla e altre non sembrano avere “percezione” del fenomeno demenze.
Gli interventi più innovativi riguardano il coinvolgimento dei medici di medicina generale nel riconoscimento e nella gestione dei casi, la realizzazione del percorsi integrati con gli specialisti e la rete ospedale-territorio, la collaborazione con le associazioni dei familiari su progetti condivisi, la realizzazione degli interventi psicosociali come la terapia occupazionale a domicilio, la stimolazione cognitiva, i “centri d’ incontro “ (“Meeting Center”) ed i “Caffè Alzheimer”, la possibilità (come accade nella rete modenese) di poter sostenere le famiglie nella gestione dei disturbi comportamentali anche in emergenza per evitare il ricorso all’ospedale e spesso il ricovero “prematuro” in struttura.
Il Covid ha un po’ “rallentato” tutti questi progetti, alcuni sono stati effettuati in remoto (con grandi difficoltà) ma le famiglie sanno che “non sono isolate” e che possono avere il sostegno della rete socio-sanitaria modenese (con questo termine mi riferisco all’intera provincia) al momento del bisogno. Il problema a volte è legato a mancanza delle informazioni necessarie e alla comunicazione di quello che facciamo e spesso alla “fatica a condividere le informazioni”: superare le barriere burocratiche, i sistemi informativi che sono ancora poco condivisi fra i servizi, la necessità di progettare campagne informative adeguate ed interventi di sensibilizzazione su quello che si può fare e che potrebbe essere fatto; questo è un elemento su cui occorrerà lavorare intensamente e su cui dobbiamo assolutamente migliorare.

Ha sempre un’impronta più personale Si è occupato negli ultimi vent’anni del tema delle demenze a livello locale, prima a Mirandola, vivendo lì anche la terribile esperienza del terremoto poi a Modena quindi a livello regionale, nazionale ed europeo. Compare sempre però tra le sue responsabilità professionali e i suoi ambiti d’intervento la dizione “assistenza territoriale”. Che significato ha per lei e come vorrebbe vederla tradotta?
L’ unità operativa di geriatria che ho l’onore e l’onere di dirigere si occupa della rete socio-sanitaria delle demenze e degli anziani ed opera in stretta sinergia sia con i servizi sanitari (compreso l’ospedale) sia con i servizi sociali. Essa è una struttura “territoriale” e quindi non ospedaliera. Tradizionalmente le strutture di geriatria sono identificate con reparti ospedalieri in una visione “ospedalo-centrica”; questa unità operativa è invece una articolazione del dipartimento cure primarie della AUSL in cui sono inseriti tutti i professionisti (medici di medicina generale, medici specialisti, infermieri, operatori, operatori della riabilitazione, psicologi ecc.) che operano in contesti extra-ospedalieri con l’obiettivo di gestire tutti i percorsi legati non solo alle patologie croniche (come la demenza) ma anche e soprattutto alla prevenzione della disabilità e della non autosufficienza. Il principale obiettivo è soprattutto quello di evitare, con interventi mirati e di continuità assistenziale, il ricorso alla ospedalizzazione. La struttura ha come target di intervento l’anziano fragile e complesso, con o senza demenza (che spesso è associata) e soprattutto la continuità di cura. I geriatri afferenti ad essa che operano su tutto il territorio della provincia di Modena lavorano in vari setting: ambulatoriale, domiciliare, residenziale, nel sistema delle cure intermedie (passaggio fra ospedale e territorio) come gli ospedali di Comunità (Osco) e soprattutto nelle Case della Salute. È una struttura “diffusa” che opera dove sono le persone che hanno bisogno del suo intervento. La base è il lavoro di equipe: non solo medici specialisti in geriatria, ma anche infermieri (che svolgono attività di “case management” nella presa in carico delle persone e delle loro famiglie), psicologi e recentemente, in recente acquisizione, i terapisti occupazionali che dovranno lavorare a domicilio. La mission della UO non è solo legata alla “diagnosi e cura” secondo il modello medico tradizionale ma va oltre: l’obiettivo è di lavorare sul mantenimento e sul recupero delle autonomie delle persone anziane e quindi con un approccio di tipo riabilitativo e proattivo secondo il modello di assistenza “centrato sulla persona” e non sulle singole malattie.
Una delle peculiarità che ci caratterizza è, oltre al lavoro di equipe, la forte integrazione con la rete sociale. La collaborazione costante con gli assistenti sociali del territorio è una nostra caratteristica ed un “punto di forza” perché ci permette di condividere progetti che sarebbero irrealizzabili senza questa componente. Facciamo una specie di “geriatria sociale” che è fortemente integrata con le componenti cliniche e riabilitative della geriatria stessa. Una realtà che guarda al futuro e che è aperta all’innovazione e a nuovi modelli di assistenza, cura e prevenzione.

giampaolo collecchiaGiampaolo Collecchia -Medico di Medicina Generale, specialista in Medicina Interna, Massa (MS); Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale (CSeRMEG); Membro del Comitato di Etica Clinica Toscana Nordovest; Docente e tutor di Medicina Generale;
Autore/coautore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali e di 8 libri riguardanti la Medicina Generale, la Cardiologia clinica e la Medicina digitale;
Editorial Reviewer del British Medical Journal.


La prima domanda è propedeutica. Cosa intendiamo per Intelligenza Artificiale (in seguito IA) e per Medicina Digitale? Quali sono i protagonisti in questo nuovo scenario? Per collegarci ai temi di questo spazio, la longevità intesa come prolungamento dell’età di vita, anche sino a 120 anni potrebbe o è già tra gli obiettivi?
Il termine Intelligenza artificiale (IA) è stato utilizzato per la prima volta nel 1956 ad un convegno estivo al Dartmouth College di Hanover (New Hampshire, USA), da John McCarthy, giovane informatico, pioniere e inventore americano, che la definì come “la scienza e l’ingegneria di fare macchine intelligenti”. Il termine intelligenza tende peraltro a confondere e a suscitare eccessive aspettative e anche timori. In effetti è già molto difficile definire la stessa intelligenza umana. Tutti ne abbiamo l’intuizione, con cui giudichiamo una persona attribuendole una maggiore o minore intelligenza, ma se cerchiamo di approfondire le giustificazioni del nostro giudizio non andiamo oltre una sensazione di indeterminatezza.
Le macchine non sono intelligenti nel senso comune del termine. Non è vero che “pensano come gli umani, solo più velocemente ed efficientemente”. È invece possibile una grandissima capacità di analizzare e risolvere problemi complessi specifici, perseguendo obiettivi in genere stabiliti da esseri umani.
Una possibile definizione della IA è quella di Francesca Rossi, professore di informatica: “L’intelligenza artificiale è una disciplina scientifica che mira a definire e sviluppare programmi o macchine (software e/o hardware) che mostrano un comportamento che verrebbe definito intelligente se fosse esibito da un essere umano”.
Obiettivo della IA è la creazione di algoritmi, robot e tecnologie che usano matematica e statistica per riuscire a esprimere in formule la complessità della realtà, utilizzando apparentemente il ragionamento, la capacità di fornire un’opinione, forme di comportamento sociale e un supporto agli umani per superare i loro limiti ed estenderne le capacità.
Le applicazioni della IA sono a 360 gradi, riguardando il mondo del lavoro, la salute, la sanità, il gioco, l’arte… la vita. I protagonisti siamo tutti noi, da quando la IA ha subito un’evoluzione radicale nel significato e nelle applicazioni, diventando lo strumento contemporaneo che ci supporta quotidianamente in numerose attività: assistenti telefonici, motori di ricerca sul Web, social network, condivisione di foto, ascolto di musica, filtri anti-spam, profilazioni commerciali. L’IA è anche il motore della medicina digitale, intesa come l’insieme di tutti quei servizi sanitari digitalizzati, sia tecnologie che dispositivi, a rigida validazione clinica, che hanno un impatto diretto su prevenzione, diagnosi, monitoraggio, trattamento di malattie o condizioni di rischio.
La longevità non è un obiettivo specifico della medicina digitale, ma la rivoluzione tecnologica sarà in grado di modificare sia il significato della vita che la sua durata, con modalità che al momento non riusciamo ad immaginare.
AI
Il rapporto tra IA e Salute diviene sempre più stretto e inevitabile, anche se il benessere perseguito può avere tante interpretazioni e declinazioni. Una di queste è la medicina di precisione.
L’impressione è però che la distanza si allarghi tra la soddisfazione del paziente e la crescita dei dati digitali disponibili, di cui non sempre appare chiaro l’utilità e l’applicazione. Una sorta di bulimia del dato e anoressia del paziente. Questo appare sempre più evidente nel momento decisionale, quando si deve formulare una diagnosi e insormontabile quando il paziente è un vecchio. È un percorso senza ritorno o sono possibili sbarramenti o protocolli di ricerca che tengono legati i due aspetti, entrambi ineludibili e inarrestabili?
I nuovi sviluppi tecnologici stanno orientando la cultura medica sempre più verso la misurazione della salute e del benessere. Le parole chiave sono sempre più spesso calcolabilità, quantificazione, controllabilità. La vita stessa rischia di diventare di pertinenza della medicina, in quanto oggettivabile in termini medici. Si sta realizzando un mondo basato sui dati. Assistiamo ad un riduzionismo perverso: il medico rischia di essere sostituito dal “procedimento”; il cittadino dai “dati” su benefici e costi. I pazienti diventano sovente entità classificate secondo codici diagnostici più o meno rimborsabili, titolari di interventi più o meno scientificamente dimostrati, ma non di reale presa in carico.
E’ pertanto auspicabile (indispensabile?) una collaborazione tra i clinici e gli sviluppatori informatici per integrare le possibilità della tecnologia con l’esperienza della pratica e rispondere ai veri bisogni delle persone e alle loro reali necessità di cura.
Non dimentichiamo che la nostra identità, soprattutto tra i soggetti anziani, è ancora fondamentalmente analogica, pur in un mondo sempre più digitale. A questo proposito, è interessante segnalare che il termine digitale deriva dall’inglese digit (che significa “cifra”, riferita in questo caso al codice binario), che a sua volta deriva dal latino digitus, “dito” (con le dita infatti si contano i numeri). Nonostante l’etimologia, il concetto di medicina digitale è diventato nell’uso pratico un ossimoro: il tocco umano contro la sua antitesi, il contatto contro il monitoraggio, con un rischio sempre maggiore di perdita della relazione medico-paziente. I medici devono pertanto svolgere un ruolo di guida, supervisione e monitoraggio, utilizzando la propria intelligenza (“il coraggio di servirci della nostra intelligenza”, per riprendere la famosa frase di Kant) e le capacità che li rendono superiori alle macchine, in particolare l’astrazione, l’intuizione, la flessibilità e soprattutto l’empatia, aspetti della professione che un algoritmo non saprà mai riprodurre.
Sono indispensabili studi rigorosi, su esiti clinici importanti (morbilità/mortalità, qualità di vita, ma anche livello di soddisfazione, sia dei medici che dei pazienti, nel nuovo contesto relazionale). Studi che valutino i risultati nel mondo reale, con un monitoraggio continuo dei sistemi approvati dagli enti regolatori, simile a quello comunemente utilizzato per i farmaci.

Oggi sono disponibili sensori che segnalano la condizione di “normalità” di tutte le nostre funzioni e dei nostri organi. L’esempio tipico è “l’orologio sentinella” diventato quasi uno status symbol che spesso esclude l’interazione tra medico e paziente.
Lei pone due interrogativi tra gli altri: qual è la “normalità” di ciascuna persona e quali sono tutte le variabili (culturali, psicologiche, emotive) che interferiscono con la “normalità” nel lungo periodo, ma anche in quel momento specifico di rilevamento del dato?
I dispositivi indossabili (DI) sono costituiti da uno o più biosensori, dotati o meno di IA, inseriti su capi di abbigliamento quali orologi (smartwatch), magliette, scarpe, pantaloni, cinture, fasce (smart clothing), braccialetti (fitness band), occhiali (smartglasses. Essi consentono il rilevamento e la misurazione di diversi parametri biologici (frequenza cardiaca, variazioni spirometriche, saturazione di ossigeno, temperatura corporea, pressione arteriosa, glucosio, sudore, respiro, onde cerebrali) e fornire informazioni sullo stile di vita (attività fisica, sonno, alimentazione, calorie consumate).
Esistono peraltro diverse criticità. I vari dispositivi di monitoraggio elettronico fanno ad esempio costantemente riferimento a propri parametri di normalità, non sempre tra loro omogenei. Lo stesso concetto di normalità, frequentemente usato nel linguaggio comune, assume di volta in volta diversi significati: “sano”, “ideale”, “frequente”, “comune”, “ottimale”, ecc. Nel mondo dei sensori e dei monitor dovrebbe pertanto essere sempre precisato quali parametri vengano monitorati e come questi parametri siano correlati a uno stato di salute o di malattia. C’è infatti la possibilità che gli assistiti possano confidare eccessivamente nell’auto-monitoraggio e nelle diagnosi “fai da te”, in realtà poco attendibili e comunque non desumibili semplicemente dall’analisi dei dati. La loro semplice lettura, senza alcuna riflessione critica, può infatti soddisfare le esigenze di soggetti “normali”, talora ansiosi o perfezionisti, ma può aumentare il fenomeno negativo della sovra diagnosi, che si determina quando ad un individuo viene diagnosticata, e di conseguenza trattata, una condizione clinica per la quale non avrebbe mai sviluppato sintomi e non avrebbe mai rischiato di morire.
Ad esempio l’Apple Watch in grado di effettuare un elettrocardiogramma , il cosiddetto orologio sentinella, può mettere in evidenza casi di fibrillazione atriale (FA), aritmia cardiaca che, se non diagnosticata, può portare a gravi complicanze quali l’ictus. La tecnologia digitale potrebbe determinare una conoscenza molto più profonda della malattia descrivendo fenotipi clinici distinti e individualizzati, ad esempio in soggetti asintomatici, giovani, a basso rischio, spesso non diagnosticabili facilmente con i metodi tradizionali. Ciò potrebbe permettere di realizzare un approccio terapeutico veramente centrato sulla persona, pragmatico, di vasta portata epistemologica e clinica.
Esistono peraltro ancora molte incertezze, relative ad esempio all’accuratezza dei dati ottenibili, ai criteri di trattamento e all’effettivo valore in termini di miglioramento dei risultati clinici rispetto alla terapia tradizionale. Al momento non esistono infatti prove certe che i pazienti risultati fibrillanti agli screening abbiano lo stesso rischio dei sintomatici e che il trattamento apporti lo stesso beneficio.
Collecchia IA
Le standardizzazioni delle specificità individuali rischiano a suo giudizio di produrre un grosso danno. Non solo sono le condizioni del singolo individuo ad essere eluse, ma pure tutte le conoscenze, i principi etici, i comportamenti individuali, anche i più banali, le reazioni spontanee che si hanno a fronte di possibili pericoli, maturate da quando comparvero sulla terra le prime tracce umane. È il patrimonio che distingue l’uomo da altri esseri viventi ed è il sapere con cui il medico si confronta. Come salvaguardare il patrimonio dell’uomo e promuovere lo sviluppo della scienza?
L’introduzione in ambito sanitario di sistemi intelligenti, in grado di apprendere e di decidere, dischiude nuove entusiasmanti frontiere ma nel contempo muta radicalmente la relazione tra l’uomo e la tecnologia, che sta divenendo sempre più una sorta di specie aliena, anche se non (ancora) ostile. Il futuro peraltro non è completamente determinato.
È possibile intervenire sullo sviluppo della scienza, per cercare di reintrodurre nella cultura della medicina una dialettica esplicita, un confronto di pensieri, metodi, obiettivi, necessario per entrare nel merito dei percorsi, della gestione della progettualità, della difesa dei cittadini/pazienti, evitando una sorta di logica del power point, caratterizzata da comunicazioni “date”, presentazioni affascinanti di realtà considerate in maniera ottimistica definitive.
Gli umani devono esercitare un approccio conservativo e costruttivamente critico nei confronti delle macchine, evidenziando le loro enormi potenzialità, spesso enfatizzate acriticamente per motivi commerciali, ma anche i limiti e le possibili minacce, come quella un po’ fantascientifica delle macchine al potere. Per esercitare questo controllo la supervisione umana deve essere di alta qualità e pertanto richiede percorsi formativi di alto livello, adeguatamente finanziati. Sicuramente è necessaria una sensibilizzazione di tutto il personale sanitario per acquisire competenze di informatica, sistemi digitali e biostatistica.
In un mondo ideale i medici dovrebbero conoscere le basi della progettazione di un algoritmo, come ottenere i dataset per gli output e avere le competenze per comprendere i limiti degli algoritmi. I risultati migliori sono attesi quando l’IA lavora di supporto al personale sanitario, “secondo set di occhi”, modalità di integrazione culturale tra umani e macchine smart, evitando di enfatizzare dispute, in fondo abbastanza irrilevanti, su quale sistema cognitivo, umano o artificiale, sia più “intelligente”.
Per citare Abraham Verghese, “i clinici dovrebbero ricercare un’alleanza in cui le macchine predicono (con una accuratezza significativamente maggiore) e gli esseri umani spiegano, decidono e agiscono”.

È sempre più personale. Lei è Medico di Medicina Generale, quindi sempre a contatto diretto con il paziente, componente del Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale (CSeRMEG), esperto conoscitore degli sviluppi delle tecnologie in medicina.
Però è anche Membro del Comitato di Etica Clinica Toscana Nordovest. Da questo suo osservatorio allargato, sintetizzando anche ciò che scrive nel suo ultimo libro su singoli temi, quali dovrebbero essere i binari per lo sviluppo del processo tecnologico per tutelare il corpo sociale, la persona, il paziente?
L’utilizzo delle tecnologie digitali non è soltanto un problema di efficacia/efficienza ma di cambiamento di paradigma culturale. Ad esempio, a proposito dei dispositivi indossabili, il rischio è che si stia realizzando una sorta di nuovo apparato sensoriale, una strumentazione pervasiva, in grado di registrare con occhi nuovi e ridefinire lo stesso concetto di identità corporea e di persona.
Questi processi possono venire considerati come un vero e proprio ambiente, una realtà decisamente nuova rispetto al passato, dove la conoscenza stessa circola in rete, quella che Luciano Floridi definisce “infosfera”, nella quale viviamo e interagiamo costantemente, in analogia con la biosfera come ambito nel quale operano tutti gli esseri viventi.
Come afferma Eric Sadin: “La sfida è quella di riuscire, alla lunga, ad abbracciare la totalità dei fenomeni, facendo emettere loro dei segnali in modo da averne una perfetta intelligenza, una “vasta intelligenza” per dirla con il matematico Laplace, formata dalla conoscenza della globalità degli stati del mondo in un dato momento”.
In tale paradigma culturale, il medico potrebbe in futuro relazionarsi con un cittadino considerato un insieme di dati, un “datoma”, un essere privo di diritti, digitalizzato e gestito da algoritmi, un prodotto della massa di informazioni strutturate, in un contesto relazionale disincarnato, centrato sui dati anziché sulle molteplici narrazioni della vita, che finirebbero dissolte in regolarità inflessibili e “appropriate”. La medicina, nata per rispondere alla sofferenza, finirebbe trasformata in un gestore di dati ma non di presa in carico dei bisogni, delle disabilità, dell’equità, della solidarietà. Si tratta pertanto di sviluppare strategie e strumenti per una “vera” partecipazione dei cittadini alla cultura della salute/malattia, che non significa sfruttamento delle persone trasformate in profilazioni di dati o gestione diretta da parte dei cittadini, ma esercizio concreto
di ascolto reciproco e condivisione.
Chi scrive ritiene fondamentale un diverso approccio culturale, in grado di comporre il rapporto tra le tecnologie e le esigenze di cura. Una modalità che si potrebbe definire “vettoriale”, anziché puntuale come spesso accade: un cambiamento di direzione, di prospettive, di obiettivi di salute e delle conseguenti variabili di riferimento, soprattutto per le tipologie di pazienti a maggiore grado di fragilità: uguaglianza, bisogni di presa in carico, accessibilità a informazione e cure/servizi, progettualità di salute, continuità di cura.
Complessivamente, una ridefinizione delle priorità, della qualità ed equità delle cure, un dare spazio alle richieste delle persone per fornire risposte basate su di un approccio globale, incentrato sulla identificazione e condivisione di valori, senso, obiettivi.
In generale, l’auspicio è che non tanto la tecnologia cambi la medicina ma che questa possa “modulare” la tecnologia attraverso la salvaguardia dei valori umani.

Letture consigliate
Rossi F. Il confine del futuro. Milano: Feltrinelli, 2019.
Floridi L. La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo. Milano: Raffaello Cortina, 2014.
Gallina P. La mente liquida. Come le macchine condizionano, modificano o potenziano il cervello. Bari: Dedalo, 2019.
Henin S. AI Intelligenza artificiale tra incubo e sogno. Milano: Microscopi Hoepli, 2019
Sadin E. Critica della ragione artificiale – Una difesa dell’umanità. Roma: LUISS, 2019
Topol E. Deep medicine: how Artificial Intelligence can make healthcare human again. New York: Basic Books, 2019.
Za S. Internet of Things. Persone, organizzazioni e società 4.0. Roma: LUISS University Press, 2018.
Zuboff S. Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Roma: LUISS, 2019.

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SITOGRAFIA E RIFERIMENTI SU PERLUNGAVITA.IT

Medicina digitale, intelligenza artificiale, etica e filosofia della cura

Giampaolo Collecchia  La medicina digitale i dispositivi indossabili

Giampaolo Collecchia  Sistemi predittivi di fine vita basati sulla intelligenza artificiale luci e soprattutto ombre

Lidia Goldoni                Quale filosofia per i professionisti della cura del terzo millennio  (libro)

Lidia Goldoni                Longevita geroscienza biotecnologie intelligenza artificiale finanza saranno gli artefici di una vita immortale  (libro)

 

 

nicola martinelliNicola Martinelli - Assistente sociale e formatore, laureato in programmazione e gestione dei servizi sociali e scienze del servizio sociale,   perfezionato in Bioetica presso l’Università degli studi di Padova con un corso di Alta formazione post laurea ed una ricerca sul ruolo dell’assistente sociale nella pianificazione delle cure di fine vita. Gli ambiti di ricerca sono il servizio sociale, la bioetica, il fine vita, la religione. Insegna nei percorsi formativi rivolti al personale di cura e nei corsi di formazione per operatori socio sanitari. Membro della rete nazionale assistenti sociali in cure palliative.

Iniziamo questo colloquio con una premessa e un’osservazione. Quando si parla di cure palliative, di educazione alla morte, di testamento biologico o suicidio assistito, quasi inevitabilmente, il pensiero di tutti va alle equipe mediche, che appaiono avere la parola finale sulle decisioni. Nella realtà gli attori sono tanti: la persona coinvolta ovviamente, la sua rete famigliare e amicale e anche pubblica (il tutore e l’Amministratore di sostegno), gli operatori sanitari in generale e l’assistente sociale. Parliamo di questo operatore, forse un po’ in ombra, del cui ruolo parla nel libro da lei scritto con il suo collega Ugo Albano. (1)
Perché un/un’assistente sociale è o dovrebbe essere sempre presente? Qual è il suo apporto professionale e anche umano, quale la sua funzione? È solo un “buon samaritano” o offre una visione e una conoscenza “altra” della persona coinvolta?

Le condizioni sociali in cui le persone versano influenzano in modo significativo la salute e la malattia. La centratura è sugli aspetti medici, prevalentemente, anche se come dirò più avanti non per tutti i sanitari è così. Le cose stanno cambiando anche all’interno delle stessa scienza medica, la quale si rende sempre più conto che deve integrarsi con i saperi delle altre scienze. La valutazione sociale garantisce l’attribuzione di significato a questa tappa critica della vita, consente di cogliere le fragilità familiari, di non dissociare la persona dal suo contesto familiare, di supportare persona, famiglia e caregiver stimolando resilienza ed empowerment e favorendo l’accesso alla rete dei servizi e alle misure di protezione e tutela. E’ bene ribadire con forza che se si trascurano gli aspetti sociali della malattia tutto il percorso di cura risulta inficiato.
Spesso questa dimensione è completamente sottovalutata dagli stessi assistenti sociali che sovente si sentono degli estranei a queste valutazioni. La stessa legge 38/10 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” all’art. 5 individua le figure professionali necessarie a supportare le persone in questa fase critica della loro vita. Così recita: “….... sono individuate le figure professionali con specifiche competenze ed esperienza nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore, anche per l’età pediatrica, con particolare riferimento ai medici di medicina generale e ai medici specialisti in anestesia e rianimazione, geriatria, medicina di comunità e delle cure primarie, neurologia, oncologia, radioterapia, pediatria, ai medici con esperienza almeno triennale nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore, agli infermieri, agli psicologi e agli ASSISTENTI SOCIALI nonché alle altre figure professionali ritenute essenziali.
La stessa legge 38/10 ritiene che la valutazione debba essere multidimensionale prevedendo quindi all’interno delle equipe gli assistenti sociali. La legge riporta all'interno dell'équipe di cura la dimensione sociale della malattia e della morte, riporta nella medicina la componente sociale all'origine della scienza medica. Il termine medicina contiene al suo interno la radice di derivazione indeuropea MED. Essa rimanda alla capacità di trovare la giusta misura, la via di mezzo tra il curing, attenzione alla malattia e caring, attenzione al malato.
Il dolore, la morte, la perdita, il lutto sono fattori sociali specifici, legati quindi a quella determinata persona, famiglia che sono unici ed inseriti in un determinato contesto di vita e di relazioni. Il morire diventa quindi una questione relazionale e l'accompagnamento nel fine vita una competenza trasversale a più professionalità che devono integrarsi convergendo su obiettivi condivisi e accordando i propri punti di vista professionali. Il contributo del servizio sociale professionale diventa cruciale, la valutazione sociale contribuisce così a garantire continuità assistenziale evitando ospedalizzazioni improprie. Consente di valutare la tenuta del nucleo sul piano organizzativo, economico, emotivo nel decorso della malattia del familiare, monitorando i fattori connessi all’insorgere e cronicizzarsi del dolore nella sua dimensione sociale.

La valutazione e la metodologia che adotta l’assistente sociale- uno dei professionisti dell’aiuto- si traduce nella “diagnosi sociale”. Come si costruisce in queste occasioni questa relazione, con quale approccio e con quali finalità?

La valutazione sociale, detta anche diagnosi sociale, è considerata nel percorso di cura e nel procedimento metodologico dell’assistente sociale una fase determinante. Ogni valutazione professionale come ho già detto è sempre multidimensionale e complessa. La diagnosi sociale è la comprensione e valutazione relativa ad una situazione sociale o una domanda d’aiuto rivolta ad un professionista o ad un servizio da parte di persone, famiglie, gruppi sociali.
Ogni diagnosi sociale è costituita di ricerca ed esplorazione, di ascolto ed attenzione ed è è finalizzata alla costruzione di un progetto di cura. La cura ha a che vedere con la capacità di ascoltare la storia dell’altro, di riconoscere la sua unicità, le priorità della sua vita, di rendere il consenso informato non una mera procedura ma uno spazio di autentico incontro tra persona, operatori della salute, familiari.
In questa prospettiva le professioni d’aiuto sono chiamate a integrare curing, attenzione alla malattia e caring, attenzione al malato. La diagnosi sociale diventa di conseguenza:
- un processo di conoscenza, un percorso dinamico che mette al centro la persona nella sua globalità e con una sua storia personale e familiare da valorizzare;
- compagna di viaggio del professionista dell’aiuto, per conoscere e valutare risorse e vincoli personali e familiari, organizzativi e istituzionali.
Una diagnosi sociale alle frontiere della vita diviene cruciale per 7 motivi:

1) Verificare il livello di assistenza che la rete familiare è in grado di garantire e identificare le fragilità sociali, la presenza nella famiglia di altre persone fragili: familiari con disabilità, disturbi psichici, dipendenza da sostanze, minorenni. È necessario verificare la presenza dei caregiver e il loro livello di stress;
2) Valutare la persona nella sua globalità offrendo, una chiave di lettura socio relazionale delle implicazioni legate al dolore nella sua dimensione sociale;
3) Permettere l’ottenimento dei diritti e delle tutele previste dal sistema di welfare. La Legge 6/2004 sull’ Amministratore di Sostegno è stata definita abito su misura. Il decreto di nomina dell’amministratore va calibrato sul caso concreto al vaglio del Giudice Tutelare, tenendo conto dei desideri e bisogni del beneficiario;
4) Concorrere a garantire la qualità di vita del malato e della sua famiglia favorendo resilienza ed empowerment;
5) Facilitare l'accesso alla Rete dei Servizi Socio Sanitari ed evitare ricoveri ospedalieri impropri e accessi inopportuni al pronto soccorso.
6) Identificare le eventuali aree di bisogni insoddisfatti come sovente quelli di natura economica;
7) Accompagnare la persona verso la propria autodeterminazione.

Quando si parla del “fine vita” non si può non citare il medico indo-canadese Atul Gawande e i suoi libr- già presentati su questo sito da “Essere mortale”  a “Con cura"- che più di tanti documenti ha dato concretezza alla filosofia del suo agire: salvaguardare sino alla fine l’autodeterminazione e la scelta della persona e saper distinguere tra curare e prendersi cura. Quanto, nel nostro paese, questa cultura del “to care” è diffusa? Quanto il rispetto della volontà della persona è entrato nell’etica e nel comportamento degli operatori pubblici, in primis, e nell’agire quotidiano?

Credo che il diritto di decidere della propria vita faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali: il diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto alla salute, il diritto a una giustizia equa, il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla procreazione responsabile, il diritto all’esercizio del voto, il diritto di scegliere il proprio domicilio. Il lavoro dei professionisti dell’aiuto, è per definizione un lavoro che si svolge nella complessità, non può ridursi quindi a un unico punto di vista professionale o di intervento pratico.
La tesi più interessante del testo Being Mortal di Atul Gawande, chirurgo statunitense di origine indiana, che le cita è che la comunità medica è più concentrata sulla malattia che sulla vita delle persone. Che senso ha, per esempio, dice Gawande, impedire ad un malato terminale di mangiare quello che gli piace, come fanno molte cliniche e ospedali? O perché vietargli di portarsi in clinica il proprio cane o gatto?
Agli immensi progressi raggiunti dalla medicina nella cura delle malattie o nella gestione della nascita non corrispondono, secondo Gawande, progressi paragonabili nel modo di affrontare la vecchiaia e la morte. Siamo arrivati a medicalizzare l’invecchiamento, la fragilità e la morte, trattandoli come se fossero solo un problema clinico in più da sconfiggere. Invece non si ha bisogno solo della medicina negli anni del declino, ma della vita: una vita con un significato, una vita ricca e piena, per quanto sia possibile in quelle circostanze. La cultura del “to care” è ancora poco diffusa nel nostro paese. Certamente la medicina non può sempre salvare vite, ma può sempre provare ad accompagnare a vivere meglio il fine vita; se non sempre può guarire, sempre può curare. Accompagnare una persona non è solo un atto medico; invecchiamento, fragilità, morte, non sono solo un problema clinico. L’intervento sociale alla fine della vita, l’incontro con il paziente e con la sua famiglia non richiede minori capacità di un’operazione chirurgica perché la malattia non colpisce solo il corpo, ma la storia di vita di una persona, la sua biografia.

Nel libro, si esplicita come le scelte della persona sul suo fine vita, siano determinate da fattori diversi: religiosi, culturali, antropologici, oltre a considerazioni bioetiche. In questi tempi queste scelte subiscono anche le influenze che le piattaforme social e le nuove tecnologie hanno apportato nelle azioni individuali e comunitarie che circondano la morte. Nello stesso tempo però viene offerto una sorta di manuale pratico su quali sono le diverse situazioni in cui i due poli-autodeterminazione e condizione di salute- s’incontrano: dall’eutanasia al suicidio assistito, dalle cure/ sedazioni palliative, sino alle DAT (Disposizioni Anticipate di trattamento) e al biotestamento, illustrandone, oltre alle indicazioni operative, le finalità e i presupposti. Come lei scrive, informarsi e conoscere come esprimere una dichiarazione di volontà, non è solo un atto verso l’esterno ma un percorso di “Death Education”, soprattutto per i più giovani. Perché questa sottolineatura e con quale intento?

Le DAT sono l’affermazione di un principio: il principio di autodeterminazione della persona alle frontiere della vita. Il codice deontologico dell’assistente sociale all’art. 26 afferma: “L’assistente sociale riconosce la persona come soggetto capace di autodeterminarsi e di agire attivamente”. Il codice deontologico infermieristico del 2009 all’articolo 37 recita: “L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita”. Le persone non perdono il diritto all’autodeterminazione quando non sono più in grado di esprimersi. Un testamento biologico, come qualsiasi altra disposizione testamentaria, va rispettato. In quest’orizzonte le DAT assumono un valore profondamente educativo, costituiscono un percorso di Death Education perché sollecitano ciascuno di noi: adulto, giovane, adolescente, anziano ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli e a interrogare sé stessi su come ciascuno vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso ci trovassimo nell’impossibilità di decidere autonomamente. Stiamo assistendo, di conseguenza, ad un mutamento di paradigma nella visione della vita umana. Ci si sta rendendo sempre più conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all'infinito.
Si va delineando sempre più una nuova visione dell’inizio e della fine dell’esistenza all’insegna dell’autonomia. Ne consegue quindi un diritto alla cura, non un obbligo di terapia. Dalla dignità dell’uomo scaturisce il diritto all’autodeterminazione per la vita nella sua interezza, e quindi anche per l’ultima tappa dell’esistenza, ossia la morte. Il diritto alla vita non sottintende in nessun caso il dovere di vivere e di continuare a vivere a tutti i costi. Indubbiamente l’autodeterminazione non va assolutizzata, deve connettersi alla responsabilità verso gli altri. Non deve d’altro canto prendere il sopravvento l’eteronomia. Proprio perché la persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta, e questo sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell’epoca della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di protrarre la morte in misura considerevole.
Elementi chiarificatori di questo concetto li troviamo nel film del 2004, “Mare dentro” diretto dal regista Alejandro Amenabar, incentrato sul tema dell’eutanasia. Il protagonista del film Javier Bardem, interpretando Ramon Sampedro, un uomo diventato tetraplegico a causa di un grave incidente, sostiene una discussione con un ecclesiastico, un gesuita, anch’egli tetraplegico venuto a casa sua per convincerlo a desistere dai suoi propositi eutanasici. Fra i dialoghi scambiati fra i due, vi è il botta e risposta per cui l’uno sostiene che “una libertà che elimina la vita non è una libertà”, e a cui Ramon risponde che “una vita che elimina la libertà non è vita”.
La vita umana non è solo biologia, è soprattutto biografia, ossia connessione e relazione con le persone e con il mondo animale; la vita è costituita dalle esperienze che facciamo e che la rendono umana, dai successi e dagli insuccessi, dalle gioie e dai dolori. La vita è resistenza, resilienza ed empowerment.

È sempre di carattere più personale. Da anni lei s’interessa di questi temi che, sintetizzando, chiamiamo di “fine vita”. Già l’interpellai nel 2009 (2), quando nel vuoto normativo del paese, era diventata tema di confronto/scontro nazionale la battaglia di Beppino Englaro perché alla figlia Eluana fosse “concesso” il diritto di morire dopo 17 anni di vita vegetativa. Se lei dovesse riassumere ciò che è successo in questi dodici anni quali sono gli aspetti positivi e quali quelli negativi da registrare?

I momenti cruciali dal 2009 ad oggi, dal mio punto di vista, ritengo siano stati:
a) L’approvazione della L. 219/17 di cui ho esposto. Nel libro il tema è approfondito soprattutto nel cap. 2. In Italia dopo quasi 20 anni di acceso dibattito parlamentare si è finalmente giunti all’approvazione della legge sul bio- testamento e sulle DAT, una legge di civiltà che restituisce ad ognuno il governo sulla propria esistenza.
Abbiamo predisposto due video di presentazione dei punti salienti:


b) Il pronunciamento della Corte Costituzionale del 25 settembre 2019 sul caso Cappato.
Voglio soffermarmi brevemente su questo pronunciamento della Corte. Il suicidio assistito è considerato un reato ai sensi dell’articolo 580 del codice penale. Il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito a quest’articolo nella parte riguardante la punibilità dell’aiuto al suicidio assistito. Con questa sentenza non viene riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito, ma viene individuata un’area di non punibilità per chi decide di accogliere la richiesta di solidarietà da parte di una persona che soffre, ma tuttavia è in grado di autodeterminarsi (autodeterminazione intesa come espressione della libertà positiva dell’uomo). La Corte ha determinato che non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. “Si tratta, quindi, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare” - dice la Corte, che così prosegue: in questi casi “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.
La Corte subordina “la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle Cure Palliative e sulla sedazione profonda continua – articoli 1 e 2 della legge 219/2017-”; contestualizzando e rafforzando il consenso informato, art. 1 della Legge 219/2017 e il diritto di accesso alle cure palliative (Legge 38/2010) ribadito nell’art.2 della Legge 219/2017. Qualora ci fosse un ottima rete di cure Palliative e di terapia del dolore, possono comunque esserci persone che non ritengono degna di se quella vita e che richiedono di anticipare la morte. Tale richiesta va presa in seria considerazione. Adesso tocca al Parlamento prendere una posizione con una legge dello Stato. Speriamo i tempi siano più brevi di quelli richiesti dalla legge sulle DAT.

Oltre al libro di cui, scritto con il collega Ugo Albano "Accompagnare alle frontiere della vita. Lavoro di cura, cure palliative, death Education" (Maggioli, 2020) e ai libri di Atul Gawande sopra citati, vorrei proporre una bibliografia minima su questo tema:

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Bibliografia

BANKS S., Etica e valori nel servizio sociale, Ed. Erickson, 1999.
BUBER M., Il Cammino dell'Uomo, Qiqajon, 1990.
FRANKL VE. Alla ricerca di un significato della vita. Ed Mursia, 2012.
LAMB D., L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino, 1998.
LISI P., FLORIDIA R., MARTINELLI N., ALBANO U., La dignità nel morire. Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita, (a cura di), La Meridiana, 2010.
PIGLIUCCI M., Come essere stoici. Riscoprire la spiritualità dei classici per vivere una vita moderna. Garzanti, 2017.
KUNG H., Morire felici? Lasciare la vita senza paura, Rizzoli, Milano, 2015.
TESTONI I. L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, 2015.
VERONESI U - DE TILLA M., “Nessuno deve scegliere per noi” - La Proposta del Testamento Biologico, a cura di Lucio Militerni, Sperling & Kupfer Editori, Roma, 2007.

 

 

vittorio martinelliVittorio Martinelli- Laureato in sociologia, ricercatore e analista sociale. Lavora nel campo della ricerca sociale, in particolare nell'indagine di opinione, sia con metodologia qualitativa che quantitativa. Ha collaborato con il Comune di Modena per la progettazione, il coordinamento e l’analisi delle ricerche sociali rivolte alla cittadinanza e delle ricerche di soddisfazione dell’utenza dei servizi comunali.

Dopo aver letto la pubblicazione “ Non ho l’età- Riflessioni, opinioni, suggestioni sui nuovi anziani” che raccoglie i risultati della ricerca da lei condotta a Modena su incarico del Sindacato Pensionati Italiani- la Federazione più forte all’interno della CGIL, con (anno 2017) oltre 2.745.846 iscritti a livello nazionale- sorge una domanda: cosa ha indotto un Sindacato, con numeri importanti di adesione, ad interrogarsi sui propri iscritti, a chiedersi se le sue attività e le sue battaglie coglievano aspettative e opinioni, progetti e desideri. In altri termini perché hanno sostituito o affiancato il consuntivo annuale con una ricerca sul futuro? A lei quali motivazioni e interrogativi hanno posto?
Il Sindacato pensionati italiani di Modena ha colto in questi anni il cambiamento di comportamenti, bisogni ed aspettative della popolazione genericamente definita anziana. Ha percepito una differenziazione fra diverse fasce d’età e l’insufficienza di considerare gli anziani un unico corpo sociale. Nel momento in cui ha avvertito questo si è immediatamente posto il tema della capacità di rappresentanza per un soggetto così rilevante della mediazione sociale come il Sindacato pensionati italiani. Il rapporto annuale tradizionale rimane uno strumento statistico importante per cogliere le variazioni quantitative nel tempo di alcuni indicatori. Ma oggi occorreva anche un’analisi sul piano qualitativo e che prendesse in considerazione nuovi indicatori. Quando decidi di aprire una nuova riflessione su atteggiamenti ed esigenze della tua base sociale e dunque di verificare la tua capacità di rappresentanza occorre mettere in campo una buona dose di coraggio e anche di lungimiranza. Molti istituti della mediazione sociale, pur avvertendo una crisi della propria capacità di rappresentanza, tendono a continuare nelle forme organizzative e nei contenuti tradizionali nella speranza che quella difficoltà si dissolva e si possa tornare alle condizioni prima della crisi. È un errore perché ogni crisi cambia la realtà.
La ricerca ha avuto un percorso ed una metodologia aperti, nel senso che non ci sono state ipotesi da confermare o meno ma piuttosto aree da esplorare e dunque raccogliere le novità dell’essere anziani direttamente nel percorso di ricerca, nel momento in cui emergevano.

METODOLOGIA DI RICERCA
La ricerca si è svolta tra il dicembre 2019 e giugno 2020.
Gli strumenti di ricerca sono stati i seguenti:

  • Sette interviste destrutturate a testimoni privilegiati
  • Due focus group che hanno visto la partecipazione di 20 persone con caratteristiche sociali e anagrafiche differenziate
  • 705 interviste telefoniche e on line ad un campione di cittadini modenesi maggiorenni rappresentativo dell’universo di riferimento per genere, fasce d’età, circoscrizione di residenza e ponderato per titolo di studio, professione e numero dei componenti il nucleo familiare.


Proprio per gli stimoli raccolti in sede di ricerca l’attenzione si è concentrata su quella parte di anzianità che presenta le novità più rilevanti, in particolare tra le persone che non hanno particolari problemi di salute e di autonomia e dunque sono passate in secondo piano in questa sede le problematiche assistenziali, sanitarie e dei servizi relativi agli anziani con gravi problemi. (1)

La prima considerazione lei la sintetizza con la frase (titolo di un capitolo) “Una nuova energia che ha bisogno di parole” perché la semplificazione “anziano” o ancor peggio “vecchio” non restituiscono la realtà. Gli intervistati assumono concetti della sociologia, dell’antropologia, della geriatria ed altro ancora per offrire un quadro realistico. Quali, secondo gli intervistati, le parole che mancano per descrivere una realtà individuale, sociale, antropologica, culturale e anche di salute?
La parola anziano riassumeva nel secolo scorso la condizione di chi era fuori dal processo produttivo, un secolo caratterizzato dalla divisione tayloristica della vita, tutta funzionale alla produzione e dunque: studio, lavoro, riposo. Era la produzione il metronomo della vita di tutti e dunque eri dentro o fuori da essa e fuori lo potevi essere perché ti stavi preparando ad entrare (studio) o perché non avevi più energie utili. Tutta la società si è conformata a quella tempistica, anche il sindacato che infatti assume la condizione giuridica di “pensionato” per definire la propria funzione di rappresentanza e il proprio nome: Sindacato pensionati italiani. Insomma pensionato perché fuori dal lavoro e anziano diventa parola sufficiente per descrivere un arco di tempo ampio ma che ha come denominatore comune il non lavorare.
Poi le cose cambiano. La centralità del cittadino produttore lascia il posto a quella del cittadino consumatore, si fa strada l’idea e la pratica che studio, lavoro e riposo non si devono concentrare in un’età specifica ma possono alternarsi fra loro nel corso di tutta la vita. Si allunga la vita media anche in modo rilevante, le tappe della vita slittano di diversi anni: si terminano gli studi più avanti, si costituisce una famiglia e si fanno figli più avanti, si entra nel mondo del lavoro e se ne esce diversi anni più tardi rispetto al secolo scorso. Quando si esce dalla produzione si hanno ancora energie, curiosità, progetti e cose da fare, si possiedono competenze (a partire da quelle informatiche) prima impensabili.
Allora proviamo a spacchettarla la parola e l’età dell’anzianità. Si possono indicare tre fasi: l’adolescenza dell’anzianità, l’anzianità, il ritiro. Quelle che mostrano comportamenti e bisogni nuovi sono soprattutto la prima e la terza perché la seconda ha più il carattere dell’assestamento e della transizione.

Molti nuovi anziani

C’è Antonio che è uscito a 62 anni dal lavoro con un mare di esperienza e vorrebbe continuare a dare un contributo, magari con forme, tempi e regole nuovi. Dice che ce ne sono tanti come lui.
Ci sono Pina e Claudio (63 e 65 anni) che hanno molta curiosità e relazioni e quando la figlia chiede «sabato sera mi tenete il bimbo?» rispondono No, sabato no perché andiamo al cinema con gli amici, magari un altro giorno.
C’è Anna (75 anni) che da qualche mese ha iniziato a riordinare le cose che ha in casa, seleziona ciò che butta e ciò che tiene. Dice «decido io cosa lasciare di me e cosa no» e con le cose riordina i pensieri.
C’è Franca (66 anni) che non ha un’ora libera. Eppure gode di una libertà che non ha mai avuto, anche di dire cose a cui non ha pensato bene ma che le passano dalla testa.
C’è Paolo (86 anni) che dice a figli e nipoti «ma perché mi spingete a fare, parlare, incontrare, partecipare. Voglio ritirarmi piano piano dalla vita, con tutta la mia dignità e, se riesco, serenità.
C’è Francesca che su internet ha creato un gruppo dove ognuno restituisce un po’ della propria esperienza e molti leggono e chiedono e vogliono sapere di più. Oggi sono in tanti e qualcuno chiede «ma dov’erano prima?».
Ci sono Riccardo e Laura (entrambi 58 anni) che hanno visto negli ultimi anni il loro corpo cambiare, hanno nuove paure e nuove curiosità, devono ancora prendere le misure alla loro nuova età.

Antonio, Pina, Claudio, Anna, Franca, Paolo, Francesca, Riccardo e Laura, tutti insieme bussano alla porta della società, istituzioni, servizi, associazioni, sindacati e stanno dicendo: «se ci ascoltate abbiamo tante cose nuove da dirvi».

 


L’adolescenza dell’anzianità è una definizione molto lontana dall’idea tradizionale di anzianità, sembra quasi un ossimoro. Eppure è un’età dove il corpo si modifica, sorprende, a partire dall’aspetto fisico. L’atteggiamento verso la vita è un insieme di opposti, di paura e curiosità, voglia di fare e introspezione, energia e malinconia. Si affacciano anche atteggiamenti e comportamenti che descrivono uno scontro con altre generazioni. Insomma cambiano il corpo, l’atteggiamento verso la vita, la relazione con gli altri, cosa che avviene anche nell’adolescenza. In questo caso la parola anziano è davvero insufficiente ed emergono con convinzione l’indicazione di parole quali adulto maggiore e senior, valutate come più puntuali e precise nel descrivere le caratteristiche di quell’età.
L’anzianità vede l’ingresso del limite, nella vita quotidiana come nella capacità progettuale; la vita è ancora piena ed attiva ma sono più forti gli impedimenti fisici e psicologici. È un’età di assestamento e di passaggio, dove la carica progettuale lascia il posto alla gestione del presente.
Infine il ritiro, con due profili. Accanto a quello conosciuto e in parte gestito da famiglia e servizi della perdita di autonomia se ne sta delineando un altro, nuovo e che apre uno sguardo inedito su bisogni e possibili risposte: è il ritiro come scelta, la necessità di raccoglimento, di dotarsi degli strumenti che consentono di riordinare la vita e affrontare la morte. In questo secondo profilo siamo fuori dai temi dell’invecchiamento attivo ma si apre un terreno nuovo di bisogni, di servizi, di figure professionali. Si può affacciare l’esigenza del riordino e della selezione delle cose da tenere e da buttare, dunque del cosa lasciare di sé, insomma in realtà è un riordino della propria vita; ma insieme a questo l’esigenza di riordinare i propri pensieri in una opportunità di rileggere la propria vita che prima non si era affacciata. Ma tutto questo (e altro ancora) è necessario anche per dotarsi di strumenti utili ad affrontare la morte, non per evitarla o negarla che spesso è l’atteggiamento prevalente. Sta cambiando in questi anni il modo di vedere la fine della vita e la morte, sia negli strumenti legislativi e regolamentari che i Paesi si stanno dando, sia nella capacità di narrarla, si pensi a come arte, letteratura, cinema stanno affrontando il tema.

 Non si conosce in Italia il profilo dei nuovi anziani né le loro condizioni di vita se non sul lato economico e anagrafico, né le loro aspettative perché sono pochissime le ricerche condotte, e quasi sempre a livello locale o categoriale, anche dagli Istituti preposti come l’ISTAT. Le dimensioni adottate e le priorità indicate- progettualità, libertà, condivisione, riflessione e solo alla fine lavoro- per spiegare le proprie aspirazioni, i propri bisogni si proiettano nel futuro e si affiancano alle riflessioni in corso nei paesi più sensibili al tema e sono molto in sintonia con gli obiettivi che accompagnano la lotta contro l’ageismo: valorizzare- a tutti i livelli- la presenza e il coinvolgimento degli anziani. Quali contenuti e motivazioni hanno dato a sostegno di queste dimensioni?
C’è un’energia nuova da spendere, ci sono competenze e conoscenza della vita che è assurdo sprecare, c’è il rifiuto di chiudere la propria esperienza a nuove conoscenze, ci sono strumenti e tecnologie che possono consentire nuova attività, ci sono possibilità di cura che consentono di non ridurre l’anzianità all’ascolto degli scricchiolii del corpo.
Per questo insieme di ragioni, e per altre ancora, si apre un capitolo nuovo che è quello della restituzione. L’anzianità, in tutte le sue articolazioni, non è mai stata così lunga, riguarda un tempo molto lungo della vita, consente possibilità inedite. Perché buttare competenza, conoscenza, cose fatte, esperienze vissute: in altri termini perché sprecare vita? Questa potenzialità del restituire ha suscitato un grande interesse, superiore a quello che ci aspettavamo. Perché? Perché restituire è valutato come un modo positivo di invecchiare, perché si invecchia quando non si scambia più con gli altri. Ma nello stesso tempo abbiamo colto anche una forte disponibilità ed interesse da parte degli adulti a raccogliere la restituzione degli anziani, perché lo scambio è una dimensione sociale utile per uscire dalla solitudine dell’individualismo, perché c’è ancora una disponibilità alla relazione fra le persone. Dunque restituzione e scambio non sono una necessità degli anziani, ma una necessità urgente di questa società.
Aggiungo una considerazione sull’ageismo. La svalorizzazione ed il pregiudizio verso le persone anziane può assumere oggi anche forme di scontro generazionale, tema che abbiamo incontrato ed in parte descritto nella ricerca. Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia, per molti aspetti inedita, che è emersa quando abbiamo indagato gli aspetti positivi dell’anzianità. Vengono riconosciuti all’anzianità caratteristiche positive precedentemente poco abbinate a quell’età: la bellezza dell’intelligenza, il fascino della libertà (libertà da qualcosa e libertà di fare qualcosa), la tranquillità della saggezza, l’impegno sociale e culturale, la seduzione di un amore incondizionato (come quello dei nonni). Intelligenza, libertà, saggezza, impegno e amore sono componenti che si inseguono per tutta la vita ma che vengono ritrovate in un’anzianità ideale, ovviamente non quella reale che può contenere alcuni di quegli aspetti oltre ai limiti fisici e psicologici dell’anzianità. Tuttavia il fatto che a quell’età siano attribuite peculiarità difficilmente ritrovabili in altre età è segno di qualcosa di nuovo, almeno di un’attenzione diversa.

Il quadro che emerge da questa ricerca denuncia un divario profondo tra l’immagine che hanno di sé gli anziani, i loro bisogni e i servizi che hanno a disposizione, siano essi culturali e ricreativi, sociali e relazionali, individuali e collettivi, pubblici e privati. Quali sono i servizi, i bisogni, le opportunità in cui vorrebbero trovare risposte per tradurre le dimensioni dei propri valori e aspirazioni in condivisione, scambio, riordino?
Il rapporto di ricerca lo abbiamo titolato “Non ho l’età” ovvero è come se io anziano dichiarassi che c’è uno scarto tra ciò che mi sento di fare e ciò che la società si aspetta da me, uno scarto tra il ruolo che mi è attribuito e ciò che ho dentro. E questo sia quando mi è chiesto di fare il nonno ed invece ho voglia di viaggiare e stare con gli amici, quando mi è chiesto di smettere di lavorare e invece ho ancora voglia di fare e competenze da trasferire, quando mi si propone un orto per gli anziani mentre ho ancora tanto da scoprire e da imparare, ma anche quando mi stimolano a partecipare, fare, uscire ed invece ho voglia di ritirarmi e riordinare le mie cose e i miei pensieri, quando mi propongono un circolo per anziani o un centro diurno ma io voglio ritirarmi con dignità e serenità perché il ritiro non è necessariamente rinuncia ma può essere un ultimo investimento.
Abbiamo visto come il restituire può essere un elemento utile sia per l’individuo che invecchia sia per una società che ha bisogno di uscire da un individualismo narcisistico.
Se dunque il restituire viene acquisito come uno degli elementi ispiratori delle politiche sociali allora occorre introdurre questo obiettivo nei servizi, acquisire progetti e figure professionali che sostengono questo obiettivo e quindi aggiornare i servizi esistenti, crearne di nuovi, dotarsi di professionalità coerenti.
Altrettanto vale per il riordinare, esso può essere una nuova frontiera di servizi. L’idea di invecchiamento attivo può svilupparsi in quella di scambio, restituzione e riordino, l’obiettivo di garantire dignità agli anziani può cominciare a lasciare il posto all’idea di anziani come risorsa, infine la figura professionale dell’assistente sociale può crescere e diventare facilitatore di scambio, psicologo.

In queste interviste l’ultima domanda è in genere a livello personale. In questo caso chiedo al ricercatore che ha ascoltato gli anziani e i cittadini, cosa l’ha colpito positivamente e cosa ha invece registrato di negativo e da ultimo: ci sarà in futuro anche una ricerca sulle donne anziane?
Gli anziani di cui abbiamo parlato sono uomini e donne, con delle differenze che peraltro sono emerse soprattutto nella parte quantitativa laddove le risposte al sondaggio sono state lette per sottocampioni di genere. Faccio alcuni esempi: le donne indicano più degli uomini l’aggiornamento e la capacità di apprendere come condizione per una buona anzianità, le donne preferiscono la definizione adulto maggiore mentre gli uomini preferiscono senior, tra uomini e donne non vi sono differenze nell’interesse verso attività quali viaggi, visite organizzate e attività culturali, ma le donne sono più decise nella disponibilità a frequentare Università della terza o della libera età. Insomma diverse differenze sono già emerse ed altre si potranno rilevare.
Una cosa mi ha colpito positivamente, non tanto in sede di ricerca ma piuttosto durante le diverse occasioni di presentazione: i contenuti della ricerca, le parole, le descrizioni delle diversità, i sentimenti e le aspettative emersi sono risultati molto coinvolgenti sia emotivamente che razionalmente. Le persone si sono ritrovate negli atteggiamenti rilevati, si sono autocollocate nelle tipologie di anziani descritte.  Hanno iniziato subito ad utilizzare alcune parole nuove (adulto maggiore, senior) o concetti (adolescenza dell’anzianità, riordino) nei quali si sono ritrovati. Insomma la ricerca è risultata davvero molto coinvolgente, probabilmente perché ha toccato corde profonde, un sentire individuale e sociale diffusi, un tema maturo, un’idea più aggiornata di anziano. Il punto negativo è che questo ha riguardato anche me e chi ha lavorato con me a questa ricerca. Non so se sia bene o male che un ricercatore si lasci coinvolgere, ci si può perdere in oggettività, ma ci si può guadagnare in precisione descrittiva.

(1)Il testo della ricerca è disponibile  sul sito della CGIL Modena al link http://www.cgilmodena.it/wp-content/uploads/2020/09/20200902_ricerca_non_ho_eta-1.pdf

 Sara NardiniSara Nardini-Psicologa clinica e di comunità, specializzata in Psicoterapia Ipnotica presso A.M.I.S.I. (Associazione Medica Italiana per lo Studio dell'Ipnosi), svolge attività libero professionale.
È esperta di Aromaterapia ed oli essenziali, Terapie Egizio-Essene e Terapie Energetiche, Reiki, insegna Raja Yoga e Meditazione Trascendentale da oltre dieci anni. Ha coordinato il team vincitore del Premio Innovazione 2018 indetto dall'Ordine degli Psicologi del Veneto con il progetto "Breathe the Forest! Mindfulness in Forestoterapia con soggetti asmatici". Collabora con la Stazione di Terapia Forestale delle Valli del Natisone (Friuli).

Dalla psicologia dell’anima alla terapia forestale, dalla pratica quotidiana per dare gioia ai suoi pazienti alla costruzione di percorsi “certificati” nelle foreste e nei boschi italiani. Ci può presentare questo suo universo e il filo conduttore, se c’è, tra anima – una struttura di coscienza come lei la chiama- e spiritualità, tra gli esercizi energetici della sua pratica professionale e le passeggiate nei boschi richiamando alcune azioni vitali della nostra esistenza: il respiro, il radicamento, la consapevolezza, l’ascolto?
Parlando di spiritualità si dà spesso una connotazione prettamente religiosa a questo termine che, oltre ad essere trasversale a tutte le tradizioni, non può essere costretto all'interno di un sistema di dogmi, qualsiasi essi siano, bensì può e deve, a mio avviso, essere considerato in un'accezione più ampia: è spirituale tutto ciò che risuona in noi, nella parte più autentica e profonda della nostra coscienza e, in virtù di questo, ne promuove processi di crescita, trasformazione ed evoluzione.
In molte tradizioni l'Anima è considerata come “soffio vitale”, principio divino e impulso di creazione e unione. È certamente la parte più armonica, luminosa e coerente della nostra coscienza, quella parte in cui risuona ciò che si “accorda” con il nostro “progetto di vita”, ciò che in qualche modo, anche soggettivamente, percepiamo e sperimentiamo come spirituale. Può quindi essere anche una guida, un Maestro, dal momento in cui ne prendiamo contatto, fino al momento in cui riusciremo a far sì che si manifesti liberamente, svelando, prima di tutto a noi stessi, chi noi siamo veramente. L'Anima è la nostra vera identità, è ciò che noi siamo in essenza, che per manifestarsi necessita di un enorme lavoro di pulizia, di ascolto e di riconoscimento, direi di “discriminazione”: come i cercatori d'oro possiamo imparare a setacciare la sabbia (disarmonia della Personalità -insieme di corpo fisico, emozioni e mente-) per conservare e valorizzare le pepite che brillano davvero, quelle qualità che ci contraddistinguono profondamente e che possiamo imparare a fare emergere. Saranno queste pepite a illuminare il nostro percorso di realizzazione e di gioia.
Tutto questo è molto concreto: perché l'Anima si manifesti è necessario che si “incarni” e questo avviene quando siamo veramente presenti e consapevoli, in ogni momento della nostra vita. Per tale motivo l'ascolto del respiro e la ri-costituzione delle radici, che insieme rappresentano il nostro “essere nel mondo” sono il nostro punto di partenza, perché solo ponendo saldamente i nostri piedi a terra, autorizzandoci ad esistere, potremo alzare lo sguardo verso la gioia dei sensi, il piacere, che alimentano la volontà autentica (non del “dovere”, ma dell'essere) e poi l'Amore, vero ed unico obiettivo dell'esistenza.
Il protocollo che propongo insieme alla collega, dott.ssa Marta Regina, per la Terapia Forestale tiene conto di questi capisaldi della Psicologia dell'Anima e offre loro una forma anche nella dimensione scientifica.

In questo spazio parliamo di anziani, persone che giunte ad un certo periodo della loro vita, anche se in buone condizioni fisiche e cognitive si ritrovano in una società che troppo spesso li guarda con un occhio distratto: sono fantasmi, figure evanescenti con cui ci si rapporta poco, senza un’identità, che sembra svanire con il pensionamento.
La loro solitudine non è solo fisica, ma è sociale, relazionale, da esclusione alla vita attiva del paese. Può trovare sbocchi diversi: un progressivo ripiegamento su stessi, con una decadenza psico-fisica accelerata ma altre volte innesta una riflessione più intima in cerca di valori e sensazioni più recondite.
Quanto il suo percorso “verso l’anima” (1) con -come lei sottolinea- esercizi pratici, concreti, può essere un aiuto a vivere la vecchiaia con serenità, sicuramente la miglior medicina?
Se la vecchiaia è anche un tempo di resoconti, in cui siamo costretti ad abbandonare certi ruoli, che spesso gravitavano intorno all'attività lavorativa, “Verso l'Anima” è un percorso che ci conduce a svelare l'illusione di quel senso di vuoto che a volte il cambiamento crea. Smantellare le sovrastrutture che ci hanno accompagnato per anni può essere spaventoso e disorientante, oppure una splendida e inattesa avventura, in cui il “vuoto” diventa “spazio” da esplorare in modo nuovo, allenando una diversa percezione di sé e del mondo, da riempire con straordinarie, nutrienti esperienze. Gli esercizi pratici hanno lo scopo di assaporare ciò che è presente, in modo semplice e concreto, perché la concretezza delle nostre percezioni e, di conseguenza delle nostre azioni è ciò che realmente cambia la qualità della nostra vita. La nostra realtà è condizionata dal modo in cui la percepiamo, ecco perché il lavoro sui sensi, sul riconoscimento di ciò che sperimentiamo e sulla trasformazione di ciò che riteniamo non essere buono per noi è così importante. Abbiamo sempre la possibilità di creare nuovi scenari, a volte anche solo spostando un pochino la nostra visuale: sarà sempre un'esperienza e ciò che è concreto è incontrovertibile, perfino per la mente più scettica. Assaporare, anche ciò che non ci piace, ci consente di muoverci verso il cambiamento e renderci conto che questo è possibile, pur nel piccolo della nostra quotidianità, è sempre fonte di gioia.

Tra questi “esercizi” è entrata, solo in questi ultimi tempi, la “Terapia forestale”. Non è una nuova moda green, ma una pratica nata in Giappone con il nome “Shinrin-yoku – Immergersi nei boschi” letteralmente “bagno nel bosco” riconosciuta da quello Stato come “Terapia”. (2) “Lo Shinrin-yoku- dice Qing Li l’immunologo che ha scritto il manuale- è l’arte di comunicare con la natura attraverso i cinque sensi”. La “terapia forestale” ha avuto un riconoscimento scientifico anche in Italia dai risultati di una ricerca condotta da un gruppo di scienziati, ricercatori, professionisti sanitari che ha rilevato i dati dei “Composti organici volatili forestali e loro effetti sulla salute umana…” (3) Lei parla nel suo libro dello scarso utilizzo dei cinque sensi da parte delle persone, che procedono per automatismi. Questa esperienza di contatto con la natura con i cinque sensi quale benessere può offrirci sia sul piano fisico che psicologico?
Gli studi da lei citati dimostrano come il bosco sia già di per sé terapeutico, abbassando in generale i livelli di stress e promuovendo, proprio grazie a composti volatili emessi dagli alberi e dal suolo, una maggiore attivazione del sistema immunitario (grazie all'azione delle cellule Natural Killer) e la salute di sistemi e apparati, come per esempio il sistema cardio-circolatorio. Dal punto di vista psicologico si sono osservati risultati importanti sull'abbassamento dei livelli di ansia e depressione, per esempio, oltre che sul miglioramento delle prestazioni cognitive (attenzione e concentrazione). È stato inoltre dimostrato che l'uso dei sensi nell'esperienza del bagno di foresta amplifica questi effetti.
In un documento di prossima pubblicazione, frutto delle ricerche che fino ad ora abbiamo condotto, dimostreremo come, applicando il nostro protocollo e misurandone gli effetti attraverso la somministrazione del questionario POMS (Profile of Mood States, o “Profilo dell'Umore”) già adottato dal dott. Qing Li in Giappone, i livelli di ansia, depressione, rabbia, vigore, stanchezza e confusione migliorino come mai prima d'ora attestato in letteratura. Questo documento mette in rilievo l'importanza dell'accompagnamento, ossia del modo in cui le persone sono invitate alla consapevolezza di sé, dell'ambiente boschivo circostante, così ricco di stimoli e suggestioni. Le strategie che proponiamo, attraverso esercizi di esplorazione mediante i sensi e di meditazione, alternati a brevi interventi di profilo scientifico, guidano le persone in un sentiero fisico e metaforico insieme, in cui la relazione con l'ambiente e con gli elementi che lo costituiscono (acqua, pietra, albero, animale, ecc.) rappresenta un'occasione di incontro, principalmente con se stessi e di equilibrio tra le proprie componenti creativa e razionale. L'identificazione con la natura favorisce un riconoscimento della propria natura essenziale, l'Anima, che nel silenzio e nell'ascolto profondo di sé si accorda e risuona, in modo armonico, con tutto ciò che nel bosco ci circonda.

Lei ha sperimentato e “certificato” con i suoi codici di lettura professionale unitamente a un ricercatore del CNR Francesco Meneguzzo, attivo nel CAI (Club Alpino italiano) percorsi di “terapia forestale” producendo anche materiale audiovisivo che è stato ripreso dalla trasmissione RAI "Buongiorno benessere", dalla rivista dei Medici di medicina generale (5) e da altre pubblicazioni. Il primo certificato è il “Parco del Respiro Fai della Paganella” in Trentino, ma altri sono ora sotto esame. Questa pratica itinerante, da psicologa dell’anima, con quali parole la consiglierebbe alle persone anziane?
Quando ero bambina mia madre amava filosofare con me di spiritualità: mi raccontava le sue letture e condivideva con me il suo entusiasmo per ogni nuova scoperta che mi diceva in realtà non essere mai veramente “nuova”, poiché era piuttosto un “dare forma” a ciò che aveva sempre, in qualche modo, sentito.
Con mio padre condividevo invece, già in tenera età, l'amore per il bosco, scoperto per la prima volta nelle Valli del Natisone, in provincia di Udine in cui ,fatalità, molti anni dopo ho iniziato a praticare la Terapia Forestale, in modo “serio”. Mio padre ha vissuto nel periodo della guerra, oggi ha 81 anni, e mi racconta sempre di quanto la terra a quell'epoca sia stata risorsa fondamentale per la sopravvivenza della sua famiglia. Attraverso le sue narrazioni credo di aver individuato e forse a mio modo stimolato in lui la consapevolezza dell'evoluzione del suo rapporto con la natura: da fonte di sostentamento a fonte di apprendimento, ispirazione e meraviglia. Ho vissuto con lui scoperte grandiose, ricavate da minuziose osservazioni del microcosmo del suo bosco/giardino/orto, attraverso le stagioni, i cicli, le condizioni avverse e le giornate soleggiate. Un microcosmo ricco di così tante varietà vegetali ed animali che non saprei elencarle, ma che lui conosce in modo così approfondito che, descrivendolo scherzosamente, lo definisco “l'uomo che chiama ogni filo d'erba per nome”.
Condividiamo da tanti anni il suo magnifico microcosmo: lui per i suoi esperimenti ed io per innumerevoli terapie accolte con gioia dai miei pazienti, il cui setting si è agghindato di colori e profumi, a contatto con la terra, i fiori, gli alberi ed i loro abitanti. Solo ultimamente però mio padre mi ha “confessato”, quasi con stupore, che il suo amore e l'enorme rispetto per la natura hanno assunto un ruolo così rilevante nella sua vita, da essere “quasi religione”. Un giorno gli ho chiesto quale fosse il suo albero preferito: mi ha risposto “il ciliegio, perché è un albero allegro, curioso e soddisfa i desideri!”. Nessuna esitazione in questa risposta, offerta con l'immediatezza e la semplicità dei bambini che giocano. Ho trovato tanto di mio padre in quel ciliegio!
Ho imparato che la spiritualità raccontata nei libri o per sentito dire non mi sarebbe mai bastata. Ho avuto bisogno di dare forma a mio modo, come prima di me hanno fatto i miei genitori a questo aspetto della vita che ne profuma ogni istante ed è forse grazie al loro esempio che ho scelto di approfondire l'arte dei discorsi metaforici, simbolici, all'interno del bosco, di per sé tanto suggestivo, sintetizzandoli in un percorso terapeutico.
Il bosco è un'entità vivente estremamente complessa, i cui elementi sono in equilibrio dinamico fra loro. Ciascuno di questi elementi può risuonare in noi, in un processo di identificazione, apprendimento e trasformazione che non hanno mai fine, perché anche il nostro equilibrio è dinamico, in costante evoluzione. Riconoscersi in un albero che è sopravvissuto alle intemperie della vita, o in una cascata, che sceglie di far fluire tutto ciò che non serve con vivacità e allegria, o in una pietra, stabile e solenne, ci aiuta a raccontare a noi e agli altri la nostra storia. Le persone anziane hanno tante storie da raccontare a se stesse e agli altri: a se stesse, perché spesso i sacrifici, il dolore e la fatica, così come lo sguardo fanciullesco e meravigliato che si posa sulla vita sono dati per scontati e non valorizzati come strumenti di realizzazione personale e di crescita; agli altri perché in loro ci rispecchiamo, nel racconto ci sentiamo coinvolti e la condivisione unisce. Nel bosco è facile, perché ricco di immagini archetipiche che, in modo più o meno inconscio, ci richiama all'introspezione e al riconoscimento di noi stessi. E se questo ci portasse, piano piano, a cogliere aspetti diversi, oppure ad avere una considerazione più complessa, colorata e profumata della vita che abbiamo vissuto?

Nel format di PLV l’ultima è sempre una domanda personale. Il suo percorso verso l’anima s’inoltra nella foresta.
I benefici di salute che i dati scientifici della ricerca sopramenzionata hanno confermato sono arricchiti dai giovamenti psicologici e di salute mentale rilevati dalle vostre escursioni per selezionare le Stazioni di terapia forestale per il CAI. Su quali tracce intende muoversi nei prossimi mesi (COVID 19 permettendo) e ci saranno nuove ricerche e nuovi traguardi ?
Certamente gli approfondimenti e le ricerche non mancheranno. Siamo in costante riflessione per migliorare ciò che proponiamo e cercheremo di procedere con questo atteggiamento.
Cercheremo nuovi boschi e in ciascuno di essi, come sempre, il nostro protocollo si adatterà, per valorizzare sia ciò che incontreremo che la sensibilità di chi con noi parteciperà a questo incontro. Tuttavia, in modo coerente con quanto detto fino ad ora, il nostro primo obiettivo è la condivisione: desideriamo divulgare gli esiti delle nostre ricerche ed esperienze, sostenere la formazione dei professionisti che vogliono addentrarsi in questo nostro sentiero, al punto da perdersi, rispetto ai “soliti” riferimenti, per accompagnare con sicurezza altri viaggiatori in questa avventura. Ho sempre sostenuto che il miglior modo per ritrovare se stessi è perdersi nel bosco.
L'aspetto della formazione è davvero molto importante se si decide di praticare la Terapia Forestale, che è una terapia a tutti gli effetti e che non ha nulla a che fare con una semplice passeggiata tra gli alberi. Credo sia molto importante, richiamare le persone ad un senso di responsabilità nei confronti di chi si affida alla nostra guida e anche nei confronti del bosco, che non è un business, ma un luogo sacro.
Riteniamo sia giunto il tempo, come già avviene in Giappone, di considerare la Terapia Forestale, una pratica sanitaria, che possa essere riconosciuta dal Sistema Sanitario Nazionale e prescritta dai medici di base e dagli psicoterapeuti.
Mi consenta una provocazione sul COVID 19, che lei ha citato, che sta conducendo molti di noi all'isolamento, in preda all'ansia e alla disperazione. Queste emozioni riducono l'attività del nostro sistema immunitario. La Terapia Forestale ha l'effetto opposto, consente il distanziamento di sicurezza ed è a disposizione di tutti.

Bibliografia
1. C. G. Jung. La realtà dell'anima. Bollati Boringhieri 1963
2. Kabat-Zinn. Vivere momento per momento. Corbaccio 1990
3. M. H. Erickson. La mia voce ti accompagnerà. Astrolabio Ubaldini 1983C. G. Jung. Psicologia e alchimia. Bollati Boringhieri 2006
4. A. Bandura, A.C. Huston. Identification as a process of incidental learning. Journal of Abnormal and Social Psychology. 1961N
5. isbet, E.K.; Zelenski, J.M.; Murphy, S.A. Happiness is in our nature: Exploring nature relatedness as a contributor to subjective well-being. J. Happiness Stud. 2011, 12, 303–322.
6. Lara S. Franco et Al. 2017. A Review of the Benefits of Nature Experiences: More Than Meets the Eye. International Journal of Environmental Research and Public Health.
7. T. Firrone. Dall'albero cosmico all'albero casa. Viaggio nel mondo di una straordinaria creatura. Aracne Editrice 2011.
8. M. A. Gorzelak, A. K. Asay, B. J. Pickles, S. W. Simard. Inter-plant communication through mycorrhizal networks mediates complex adaptive behaviour in plant communities. 2015.

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Note 

1)Sara Nardini
   VERSO L'ANIMA
   MANUALE DI EQUIPAGGIAMENTO PER VIAGGIATORI SPIRITUALI
   Anima Edizioni

Verso lanima

 

 

 

 

 

 

 

(2)Qing Li
SHINRIN -YOKU
IMMERGERSI NEI BOSCHI

Il metodo giapponese per coltivare
la felicità e vivere più a lungo
Editore Rizzoli

SHINRIN YOKU