Voci dalla rete

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Lisa
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Voci dalla rete

Perlungavita.it diventa grande, si fa nuovi amici, li accoglie in casa propria, li ringrazia per aver accettato l’ invito a costruire una preziosa rete di persone che guardano alla vecchiaia in modo positivo. Tutte le persone che fanno parte di queste “Voci” hanno già scritto per PLV dalla loro finestra aperta.

  • Ivano Baldini, presidente dell’Associazione AlzheimER Emilia Romagna, ha già raccontato, oltre alla sua vita, cosa è, cosa fa questa organizzazione. Su PLV ci farà conoscere esperienze nuove promosse dai familiari.
  • Diana Catellani ha accettato di aprire un altro suo blog, oltre a quello personale “nonnaonline” per raccontare il suo percorso con gli strumenti digitali, tra ostacoli e soddisfazioni.
  • Rita Rambelli è stata l’apripista, per testimoniare che gli anni sono una convenzione anagrafica, ma che si può andare “ Oltre l’età” per continuare ad essere curiosi del mondo.
  • Rosanna Vagge, anche lei già collaboratrice, medico e amante della scrittura , racconta le sue esperienze e la sua vita accanto ai vecchi delle residenze protette, ma non solo. In questa piacevole compagnia continuo le mie riflessioni sulla qualità della cura nei servizi, parlando di assistenza domiciliare.
  • Lisa Orlando, architetto, con una tesi sulla casa  idonea per gli anziani con l'Alzheimer, amante della lettura della montagna, ma anche della gioia dello scrivere: poesie, articoli, libri.Nel frattempo ha ottenuto un master in Comunicazione.
  • Ida Accorsi, insegnante di asilo nido in pensione, appassionata di Gianni Rodari e di confronti intergenerazionali coltiva i suoi interessi con l'aiuto del web.

 La situazione generata dal covid-19 ci costringe a un profondo ripensamento anche sul gioco e sulla sicurezza sanitaria per i bambini e per chi, come i nonni, sostituisce spesso i genitori nel periodo estivo in cui le scuole sono normalmente chiuse.
Il progetto di comunità “Oasi 31” del Comune di Ravenna, intende sostenere il percorso di riapertura dei servizi e dei contesti ludico-ricreativi estivi per bambini/e e ragazzi/e dai 3 a 13 anni su tutto il territorio del Comune di Ravenna.
Nella consapevolezza del valore intrinseco di questo impegno, particolarmente in questo fragile momento storico, economico e sociale, tali servizi sono considerati come misure volte alla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro per le famiglie, ma anche e soprattutto come occasione per ribadire i diritti che tutti i bambini/e e i ragazzi/e hanno di giocare, sperimentarsi, muoversi e vivere esperienze di comunicazione e di socialità in spazi adeguatamente pensati.
L’articolo 31 della Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza riconosce e promuove tali diritti; questo progetto, che richiama l’Oasi come ambiente resiliente che si oppone alle intemperie e alle condizioni sfavorevoli di ciò che lo circonda, vuole rimettere questi diritti al centro degli impegni dell’intera comunità educante.
In quest’ambito molte organizzazioni del territorio ravennate si sono attivate per realizzare iniziative di gioco e di spettacolo dedicate ai bambini fino ai 10-12 anni
Utilizzando al meglio gli spazi verdi della città.
Tra questi c’è l’Associazione di promozione sociale Amata Brancaleone, di cui sono al momento la Presidente, che ha organizzato nel parco pubblico della Rocca Brancaleone un calendario di giochi ed eventi che si svolgeranno tutti i venerdì pomeriggio da metà luglio a metà settembre. (vedi calendario allegato )
Per garantire il distanziamento tra i bambini durante gli spettacoli, saranno utilizzati come segnaposto sul prato degli Hula Hoop e in caso di tempo umido saranno distribuiti anche dei teli plastificati usa e getta per evitare il contatto con il terreno.
Per le iniziative di gioco saranno utilizzati tavoli sanificati con un numero limitato di bambini, da 2 a 4 a seconda del tipo di attività e della dimensione del tavolo, opportunamente distanziati e con le mascherine per i più grandi.
Tra le iniziative di gioco si svolgeranno anche dei Tornei con il Gioco di Sir Brancaleone, che per rispettare le regole legate alla sicurezza sanitaria, avranno un Regolamento particolare:
1) Il gioco di SIR BRANCALEONE si rifà al classico gioco dell'Oca formato da un percorso da completare affidandosi unicamente alla propria fortuna per raggiungere la casella di Arrivo.
2) Il tabellone su cui è stampato il gioco che misura cm 70x50, sarà sempre nuovo di stampa, e per garantire il distanziamento potranno giocare solamente due bambini alla volta per ogni tabellone.
3) Al posto dei classici dadi, il numero per avanzare sul percorso, sarà la somma delle dita di 1 mano dei 2 giocatori.
4) Ogni giocatore deve utilizzare come propria pedina un piccolo oggetto trovato direttamente nel parco: un fiore, una foglia, un sassolino, ecc.
5) Inizia il gioco il giocatore più giovane di età.

Le caselle del Gioco, realizzato ad hoc per garantire la produzione in esclusiva, sono rappresentate da immagini tratte dalla Festa Medievale che si organizza ogni anno alla Rocca Brancaleone e da scorci della Rocca Brancaleone stessa.
Il gioco, realizzato su cartoncino, sarà regalato ai singoli giocatori che potranno giocare a casa anche con altri amici. (si allega immagine del Gioco di Sir Brancaleone)
20200713 Gioco di Sir Brancaleone WEB

 

 

 

 

Amata Brancaleone Aps DIRITTO AL GIOCO web Rocca Brancakeone 2020

lamico ritrovato copertinaÈ un libro pubblicato nel 1971, negli Stati Uniti, per poi approdare in Inghilterra, Francia, Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Spagna, Israele, Portogallo, ovunque con lo stesso entusiasmo della critica: “un’opera letteraria rara” lo definisce il New Yorcher, “un capolavoro” ha scritto Arhtur Koestler nell’introduzione all’edizione inglese del 1976. Hanno fatto eco anche The Sunday Express, The Financial Times di Londra e infine Le monde di Parigi: “Uno dei testi più densi e più puri su gli anni del nazismo in Germania…
Definito, tra i romanzi più belli che si possano raccomandare ai lettori, dai dodici anni in su: due ragazzi sedicenni frequentano la stessa scuola. L’uno è figlio di un medico ebreo, l’altro di una ricca famiglia aristocratica. Tra loro nasce una forte amicizia, un’intesa perfetta. Un anno dopo, il loro legame si spezza, accade in Germania nel 1933.
Il racconto è ambientato durante la dittatura nazista in Germania (1933-1945) ed è ispirato alla vita dell’autore: l’amicizia tra Hans e Konradin messa a dura prova dalle leggi razziali, tanto che Hans dovrà fuggire all’estero e scoprirà la verità sul destino dell’amico solo dopo la Seconda guerra mondiale.

La Trama
Siamo nel 1932 a Stoccarda e la narrazione si apre con Hans Schwarz, un ragazzino ebreo appartenente a una famiglia borghese e colta. Il padre di Hans è un medico e un ex soldato insignito durante la Prima guerra mondiale con la Croce di Ferro (1) e nutre un forte sentimento nei confronti della patria.
Un giorno nella sua classe arriva un ragazzino di famiglia nobile, Konradin von Hohenfels, che mantiene un atteggiamento sostenuto e non lega con nessuno dei compagni; la famiglia gli ha infatti trasmesso un sentimento di superiorità rispetto agli altri, che deriva dall’onore di appartenere ad una delle famiglie più importanti del Paese. Tuttavia, Hans si sente attratto da Konradin e un giorno riesce a vincerne la timidezza mostrando in classe la sua collezione di monete. Grazie a questa, i due ragazzi diventano amici, e Konradin si reca spesso a casa di Hans, di cui conosce i genitori e che frequenta quotidianamente.
I due stringono un legame particolarmente forte, che li porta a conversare sia di argomenti leggeri e spensierati sia di temi impegnativi, come l’esistenza di Dio o il significato della morte.
L’unico punto oscuro nel loro rapporto è relativo all’atteggiamento di Konradin nei confronti dei propri genitori: egli infatti invita Hans a casa propria solo quando questi sono assenti. Una sera, in occasione di una rappresentazione teatrale, Konradin, in compagnia della madre, ignora addirittura l’amico, fingendo di non conoscerlo.
Quando Hans chiede il perché di questo atteggiamento a Konradin, egli spiega che i genitori - e la madre in particolare - hanno idee antisemite e non vogliono che il figlio frequenti ragazzini ebrei. La situazione peggiora con l’avvento di Adolf Hitler al potere, nel 1933: a scuola si diffondono pregiudizi ostili agli ebrei (anche da parte degli stessi professori) e tesi a sostegno della superiorità della razza ariana. In un’occasione, Hans viene anche alle mani con dei compagni di classe che l’hanno insultato in quanto ebreo. Hans e Konradin vedono così allentarsi i loro rapporti. Intuendo il pericolo per il figlio, i genitori di Hans lo mandano da dei parenti in America; Hans abbandona così la scuola poco prima di Natale. Appena prima della partenza di Hans, Konradin scrive all’amico, e sebbene nella sua lettera attesti la stima nei suoi confronti, egli ammette la fascinazione per Hitler, arrivando persino a sostenere che sia stato inviato da Dio per risollevare le sorti della Germania. I genitori di Hans, poco dopo la sua partenza, si suicidano.
Negli Stati Uniti Hans studia legge in prestigiose università e si ricostruisce una vita, rifiutando di tornare in Germania e di sapere qualsiasi cosa sul destino di Konradin, in un misto di paura e di dolore per ciò che è successo. Molti anni dopo riceve un opuscolo del suo vecchio liceo di Stoccarda con la richiesta di un contributo per la costruzione di un memoriale agli studenti caduti in guerra. Hans non ha subito il coraggio di scoprire cosa è successo a Konradin ma, poco prima di stracciare l’elenco, trova la forza e lo apre alla lettera “H”. Qui legge che Konradin von Hohenfels è stato giustiziato perché implicato nel piano per uccidere Hitler (2).
Il romanzo breve di Uhlman affronta molti temi importanti, come l’amicizia adolescenziale (che resiste al di là del tempo o degli errori che tutti noi commettiamo), il peso delle differenze sociali, l’insensatezza delle discriminazioni razziali, il coraggio di compiere scelte scomode, l’orrore della guerra e del regime nazista. Queste tematiche sono strettamente correlate e si ripropongono e intrecciano nel corso della descrizione.
La narrazione è in prima persona, è Hans che ci racconta ciò che è stata la sua vita, concentrandosi sugli eventi drammatici che lo hanno allontanato dalla Germania e dal suo amico Konradin. Questa scelta favorisce l’immedesimazione del lettore negli eventi e nella psicologia dei personaggi, permettendo di seguire dall’intervento l’evolversi della vicenda e di venire sorpresi dal “colpo di scena” finale, che ricongiunge, a distanza di anni, Hans e Konradin.
Tema centrale dell’opera è quindi l’amicizia che nasce, si consolida, si spezza e si ricompone tra i due protagonisti principali; questo sentimento si dimostra più forte e duraturo sia degli eventi storici che separano Hans e Konradin che dell’odio strisciante verso gli ebrei (e, più in generale, i “diversi”) alimentato dal regime nazista. Ciò non toglie che i due amici sono assai diversi tra loro: Hans, di estrazione sociale borghese, è un ragazzo semplice e timido, è subito colpito dalla differenza di Konradin rispetto agli altri compagni di classe e ne desidera l’amicizia e la confidenza. Egli è quindi assai ferito dalla scelta di Konradin di evitarlo in quanto ebreo e di aderire poi al movimento nazista. Konradin invece è una figura certamente più complessa: egli è altero e solitario, consapevole della sua diversità sociale rispetto agli altri ma al tempo stesso avido di affetti genuini. Dalle parole della sua lettera si può ipotizzare che egli sia sinceramente convinto che Hitler possa davvero essere portatore di cambiamento e che, nella sua infantile ingenuità, pensi che gli “ebrei buoni” non subiranno nessun sopruso.
La scoperta finale di Hans indica allora che, nonostante la delusione di Hans, il legame tra i due era davvero profondo ad autentico: Konradin, resosi conto dell’errore commesso, non esiterà a sacrificare la propria vita nel tentativo eroico di far cessare l’incubo nazista.
Da questo romanzo è stato anche tratto un film per la regia di Jerry Schatzberg (1989) che ha ottenuto la nomination Palma d’oro al Festival di Cannes e nomination come miglior film straniero nel 1990 – David di Donatello. Nel film vi sono molte differenze rispetto al libro. Ad esempio nel romanzo originale non compare Geltrude, la cugina di Konradin, aggiunta nel film come personaggio secondario. Inoltre nel libro Hans non scopre la fine e l'atto eroico dell'amico andando in Germania, ma ricevendo per posta una richiesta di fondi agli ex studenti per l'erezione di un monumento alla memoria degli allievi caduti in guerra. Alla richiesta segue un elenco dei nomi e sotto quello del suo amico c'è scritto "Implicato nel complotto per uccidere Hitler. Giustiziato".
Fred Uhlman – nato a Stoccarda nel 1901 e morto a Londra, ottantaquattrenne. Autore anche di un’autobiografia “Storia di un uomo” edita da Feltrinelli nel 1987 e di altri testi brevi, ha ispirato il racconto di “L’amico ritrovato” ai luoghi e all’ambiente della sua adolescenza. Sapeva che questo sarebbe rimasto il “suo” libro: “Si può sopravvivere con un solo libro” ha dichiarato poco prima di Morire.

Incipit
Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più. Da allora è passato più di un quarto di secolo, più di novemila giorni tediosi e senza scopo, che l’assenza della speranza ha reso tutti ugualmente vuoti – giorni e anni, molti dei quali morti come le foglie secche su un albero inaridito.


NOTE
(1 )La Croce di Ferro è una decorazione militare del Regno di Prussia e della Germania.

(2 )Si tratta della “Operazione Valchiria” del 20 luglio 1944, un fallito piano per eliminare il Fuhrer che portò, come rappresaglia, all’arresto di 5000 persone e all’esecuzione di circa 200.

L’amico ritrovato di Fred Uhlman
Traduttore: Mariagiulia Castagnone
Editore: Feltrinelli
Collana: Universale economica
Anno edizione: 2013
Pagine: 92 .
Immagine di copertina Egon Schiele Deux garcons 1910 (particolare)

Ippocrate di Kos era indubbiamente un medico d’urgenza per il semplice motivo che allora il medico si prendeva cura delle persone che si ammalavano gravemente o che avevano avuto dei traumi.
Certo le teorie scientifiche su cui si basava Ippocrate non erano paragonabili a quelle odierne, ma il pensiero fondamentale che lo ha portato ad essere considerato il padre della medicina è che la malattia e la salute di una persona non dipendono da agenti esterni o da superiori interventi divini, ma piuttosto da circostanze insite nella persona stessa.
“La natura è il medico delle malattie … il medico deve solo seguirne gli insegnamenti”, un concetto che calza a pennello con le situazioni acute di grave criticità, traumatiche e non, di ogni tempo in cui la cura è finalizzata a potenziare quello che l’organismo mette già in atto per sopravvivere. Ovviamente ci vuole tempestività, oltre che essenzialità.
Un altro concetto ippocratico che condivido in pieno è l’attenzione allo stile di vita del paziente e a tutti quegli elementi, dietetici, atmosferici, psicologici, sociali che contribuiscono a sconfiggere la malattia da cui la persona è affetta, una visione globale che oggi è ben poco se non per nulla praticata e tanto meno pensata. La frase a lui attribuita “Non mi interessa che tipo di malattia ha quell’uomo, ma che tipo di uomo ha quella malattia” esprime in modo inconfutabile il suo pensiero e sottolinea l’importanza della relazione medico- paziente nel processo di cura.
Il dovere del medico è fare il bene del paziente e il dovere del malato è di accettarlo, un rapporto di tipo paternalistico, in cui la responsabilità morale del medico sta nella certezza che egli operi per il bene assoluto del malato. Un rapporto che oggi si è indubbiamente incrinato, ma che resta insito nell’animo umano perché basato sulla fiducia e sul rispetto reciproco.
Ce lo spiega bene Amelia che aveva 102 anni compiuti quando, in occasione della presentazione di una relazione dal titolo “La cura Slow” nell’ottobre 2012 le chiesi un suo parere su come doveva essere un medico. La diapositiva sottostante riporta la sua testimonianza. AMELIA
Amelia ora non c’è più, il tempo passa e le cose cambiano sotto i nostri occhi, senza quasi che ce ne accorgiamo.
Indubbiamente, a partire dal XVI secolo, l’emancipazione della persona, frutto delle grandi rivoluzioni politico-religiose e dei grandi pensatori da Locke a Kant, nonché l’evoluzione tecnologica del XX secolo hanno trasformato a poco a poco il principio di beneficialità alla base del rapporto medico-paziente e influenzato grandemente l’epistemologia della medicina.
Nel contempo la costruzione dell’Europa comunitaria con la miriade di regole settoriali, la nascita della Bioetica, tesa all’umanizzazione della medicina, l’affermazione dei principi di dignità umana e dei diritti fondamentali sanciti nella Convenzione di Oviedo (1997) e in tante altre dichiarazioni, sono tutti fattori che hanno contribuito al cambiamento culturale.
Il medico gradualmente abbandona i panni autorevoli e impunibili del sacerdote della salute, per indossare quelli del tecnico che stipula un contratto con il proprio cliente.
Si passa così dal “paternalismo medico” al principio di “autonomia” del paziente, fondato sul concetto di libertà e quindi di autodeterminazione nei confronti della propria salute e persino della propria vita. Il procedimento decisionale si sposta dal curante all’assistito, previa acquisizione delle informazioni necessarie e cambia il modo di giudicare sia civilmente che penalmente il vizio di informazione e il vizio di consenso.
Il Codice deontologico del medico basato sull’antichissimo giuramento di Ippocrate è mantenuto ancora oggi come espressione di una autonomia normativa interna per i comportamenti virtuosi della categoria, ma l’evoluzione della medicina nei rapporti con la società, ha creato sempre più stretti rapporti tra il “bene sociale” e il “ruolo professionale” dei quali si è fatto carico il diritto, espropriando al Codice alcune regole o travasandole nel diritto civile o nel diritto penale, a causa della loro rilevanza per l’interesse comune o nei regolamenti amministrativi sempre più pervasivi della professione.
La diapositiva sottostante, tratta da una relazione dal titolo “Sguardo antropologico” presentata a Chiavari nel 2011 riassume la complessità del sistema in cui siamo immersi, tale da renderlo simile ad una matassa aggrovigliata.

MATASSA
Il medico oggi ha a disposizione tecniche e strumenti che gli consentono di inseguire risultati un tempo impensabili, ma si trova a dover combattere con le forze di mercato, le esigenze amministrative e le pressioni sociali. Ecologia ed economia sono le due nuove discipline di cui la medicina attuale deve, spesso suo malgrado, tenere conto.
Già nel 1910, il Dr. Abraham Flexner constatava che nelle 155 Scuole di Medicina allora esistenti negli Stati Uniti, la priorità della ricerca scientifico-tecnica stava per diventare l’unico metro di giudizio dei traguardi già raggiunti o da raggiungere, mentre stavano perdendo importanza la clinica, l’attenzione al rapporto medico-paziente e la considerazione dei problemi di salute pubblica.
Ma non è tutto, infatti è accaduto che, come anticipato da Ivan Illich nel suo libro “Nemesi medica” del 1976, il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi prognosticati e la medicalizzazione della vita è diventata sempre più pregnante nella società.
Così i medici, che per millenni hanno curato singoli individui gravemente malati, sono ora chiamati a curare individui sani che hanno una maggiore probabilità di contrarre una malattia negli anni o nei decenni a venire.
Ma siamo proprio sicuri che prevenire sia sempre meglio che curare? Già nel 2008 autorevoli riviste come “The Lancet” si ponevano questa domanda e invitavano i clinici ad essere molto attenti ad eventuali conflitti di interessi.
Oggi si discute sulla sovradiagnosi con le conseguenze che comporta ed è stata evidenziata la tendenza a incrementare le malattie inserendo nella classificazione nosografica alterazioni o anomalie subcliniche, se non addirittura fattori di rischio al solo scopo di trarne un profitto, fenomeno identificato con l’espressione inglese “disease mongering”.
Nasce inoltre la prevenzione quaternaria che altro non è che la prevenzione della medicina non necessaria o della ipermedicalizzazione, ma di questa se ne parla ancora troppo poco.
In un contesto così complesso è difficile per i medici intraprendere decisioni su uno o l’altro trattamento, imbrigliati come sono nel concetto dilagante che la cura migliore sia quella basata sui dati scientifici (da “Il malato immaginato. I rischi di una medicina senza limiti” Marco Bobbio, edizione 2010).
La riflessione del collega cardiologo verte anche sul pericolo maggiore al quale può condurre il vortice della realtà di oggi, caratterizzato dalla sopravvalutazione della tecnologia, dal fervore dei “media”, dalla corsa sfrenata alla performance, dalla logica terrorizzante del rischio: perdere di vista il paziente, cioè l’essere umano che chiede aiuto, talvolta per problemi minimi, irrilevanti agli occhi del medico o pretende la pillola per poter realizzare i suoi sogni o confessa l’incapacità di rinunciare a ciò che ritiene la ragione della sua vita.
Anche l’antropologo Andrea Drusini (Antrocom vol. 1 n° 2-2005) sottolinea che mai, come in questo periodo, la medicina ha esibito la sua potenza tecnologica e mai come ora ha attraversato una così profonda crisi di credibilità da parte dell’opinione pubblica. Poi si chiede: “Cosa ne è del rapporto medico paziente oggi, dove il laboratorio e la diagnostica strumentale sono diventati spesso i luoghi di un dialogo frammentario e frustante?"
David Loxterkamp, medico di famiglia, in un bel articolo pubblicato su BMJ nel 2008, in cui utilizzando il fiume come metafora, definisce la relazione terapeutica l’incantesimo della speranza, sostiene che se tutto questo potesse essere ottenuto con una intervista computerizzata, con una checklist per il mantenimento del benessere e con le linee guida basate sulle prove di efficacia, i medici non sarebbero necessari.
La diapositiva sottostante riporta alcuni passaggi del testo.
IL FIUME
L’arte del curare è indubbiamente mutevole ed espressione della cultura e della società, ma la profonda interazione tra psiche e soma è centrale in tutte le forme di terapia e in tutti i tempi e la relazione terapeuta – paziente rimane un elemento fondamentale per l’auspicato benessere di entrambi.
Peccato che oggi la cura è stata assorbita dalla terapia scientifica fino a diventarne sinonimo: curare nel linguaggio attuale significa più o meno trattare la malattia con farmaci o comunque con strumenti tecnici. Stretto tra due opposti, l’oggettività generalizzante della malattia e la singolarità soggettiva del malato, il medico moderno ha scelto di considerare prioritaria la prima rispetto alla relazione, e su di essa infatti poggia quasi per intero il curriculum formativo del professionista.
Sono parole di Giorgio Bert pronunciate nel 2011, quando è nata Slow Medicine, parole che avevo riportato pari pari in una relazione dal titolo “La cura slow” presentata nell’ottobre 2012 a Sestri Levante.
L’emergenza Coronavirus ha esacerbato questa deriva riducendo ai minimi estremi la relazione con i pazienti e con i familiari e generando danni incalcolabili in quanto non misurabili che indubbiamente hanno influito sulla sopravvivenza. E i vecchi hanno avuto la peggio.
La scienza e la tecnologia hanno dimostrato tutti i loro limiti.
Giorgio Bert, in un recentissimo post su Facebook sottolinea che” i medici che hanno studiato e praticato la medicina nel secolo scorso sono stati convinti che è scientifico tutto ciò che può essere studiato mediante esperimenti e che quindi è continuamente sottoposto a verifiche e falsificazioni. Hanno altresì appreso che ci sono cose non sperimentabili, cioè “non scientifiche”, che tuttavia esistono. Covid ha seriamente messo in dubbio questa convinzione: ogni scienziato sembra poter dire qualsiasi cosa e il contrario di essa e parla, più che nei contesti scientifici, in Rete, sui giornali, in TV esprimendo abbastanza a casaccio narrazioni diverse, dati opinioni, ipotesi, pensate, previsioni … litigando e polemizzando. Ma allora la scienza esiste ancora? O è essa stessa una narrazione o meglio un guazzabuglio di narrazioni?” Si chiede con amara ironia.
Non posso dargli torto.
Ma non è tutto: le strategie finalizzate ad evitare la diffusione del contagio, basate sulle cosiddette evidenze scientifiche e sulle metodiche messe a punto per l’identificazione dei soggetti infettati e infettanti, hanno condotto all’isolamento di massa di esseri umani spesso ignari di quanto stava accadendo, privandoli di ogni libertà. L’autonomia e l’autodeterminazione delle persone sono svanite d’incanto in nome della salute pubblica e il dialogo medico-paziente, già così compromesso, è diventato ancor di più esasperato e conflittuale.
Non si poteva far diversamente, può essere, ma almeno rendiamocene conto e cerchiamo di rimediare, tenendo a mente che la relazione terapeutica è l’incantesimo della speranza e, come dice il detto popolare, la speranza deve essere l’ultima a morire.

IL GRUPPOSono le 8,30 del mattino e gli ospiti di casa Morando sono accompagnati nel locale multiuso e invitati a sedersi un po’ più distanti gli uni dagli altri rispetto al solito, come è opportuno fare in questo periodo di pandemia, ma anche per evitare qualche sanzione di troppo.
Da mesi, ormai, oltre alle assillanti richieste di procedure, report, avvisi di vario genere, può capitare che spuntino, di punto in bianco, inviati speciali dell’ASL, della Protezione Civile o di qualche altro ente preposto al controllo, capaci di monopolizzare la mattinata per ispezionare centimetro per centimetro la residenza ed inventarsi modifiche strutturali, costose e inutili, per arginare la diffusione del coronavirus.
Infatti, nella fase 1, Casa Morando ha dovuto riservare due camere con bagno attiguo e allestirle come area Covid con tanto di porta in PVC, zona filtro, uscita esterna coperta da materiale in plexiglas come stabilisce la norma, fortunatamente mai utilizzate. Nella fase 2, cambiate le disposizioni regionali, la stessa area è diventata “buffer”, cioè cuscinetto, per contenere eventuali nuovi ospiti che, se anche non hanno avuto alcun sintomo di infezione ed hanno tampone e sierologia negativa, devono restare rinchiusi per altri 8 giorni, assistiti da personale dedicato e bardato da astronauta fino ad una nuova determinazione del tampone a conferma della negatività. Solo allora potrà accedere nei restanti locali e incontrarsi con gli altri ospiti.
Come si fa, mi chiedo, ad accogliere una persona in tale modo? Pazienza, i due posti disponibili rimarranno vuoti fino a data da destinarsi.
A parte queste considerazioni, un po’ ribelli, che con l’avanzare dell’età riesco sempre meno ad arginare, mi soffermo ad osservare lo sguardo dei miei vecchi ed, avvicinandomi ad uno ad uno, con il sorriso nascosto dalla mascherina, propongo loro una intervista per sapere come hanno vissuto questo periodo di reclusione e isolamento. Perché, anche se Maria Grazia, la Direttrice, ha fatto di tutto e di più per farli sentire a loro agio, il distacco da parenti e amici e la rinuncia alle uscite, solo per fare alcuni esempi, hanno provocato un netto cambiamento nelle abitudini degli ospiti di Casa Morando.
Franca, la gattara, quieta e misurata, è la prima a rispondere alla mia domanda ed esordisce così: ”Questo periodo l’ho passato molto male, tutto limitato, arrivare sempre col fiato sospeso. Oggi si sa tutto perché c’è la televisione, una volta non si sapeva, magari sarà successo lo stesso … chissà! Comunque non ci sono parole per descrivere quello che sta succedendo!”.
“Hai paura?” Aggiungo io. La risposta è netta: “Non ho mai avuto paura perché penso che siamo abbastanza protetti”.
CarloÈ la volta di Carlo, allegro, intraprendente, solidale, capace di rasserenare le persone e di confortarle anche nei momenti più bui. Sembra smanioso di rispondere, ma, alla mia domanda sul coronavirus, i suoi occhi si rattristano e sentenzia: “Da un giorno all’altro non siamo più usciti, per la sicurezza della nostra vita. Non sono tranquillo, sono preoccupato, mi sento in bilico, non sono sicuro di niente, neanche adesso. Ho avuto paura perché quando non c’è tranquillità non si sta bene. Ricordo la guerra del ’40, il peggio, avevo 18-19 anni, più o meno, e anche allora non ero tranquillo, come adesso, anche se sembra che sia finito. Qui comunque si è vissuto abbastanza bene. La cosa che non mi è piaciuta è non avere parole per l’avvenire e vedere tutti mascherati è una cosa brutta. Anche molto spiacevole è sentire il numero dei morti alla televisione”.
Carla, entrata in residenza poco prima che scoppiasse il putiferio pandemico, sorride con ironia e dice: ”Questo periodo l’ho passato qui, che dire? Succede nella vita! Non è come la guerra, lì sì che eravamo limitati, eravamo giovani, soffrivamo. Ora siamo vecchi e le limitazioni si sentono meno. Io non ho affatto paura. La paura non serve, le cose se devono succedere, succedono e avere paura è del tutto inutile”.
Passo a Rita, 94 anni ben portati, una donna ancora in gamba che ha scelto di vivere in comunità perché a casa propria aveva ben poca compagnia e di tanto in tanto si lasciava prendere dalla tristezza e invadere da quel senso di impotenza che è poco gradito a chiunque. “Il periodo è stato brutto” dice scrollando il capo “soprattutto non si poteva uscire, fare le solite cose, vedere gente. La paura è tanta ma c’è anche la sicurezza di essere protetti”.
Pietro ascolta, in silenzio, le parole degli intervistati. Poi, ad un tratto, si alza dalla sedia aiutandosi con il bastone, si avvicina a me e scandisce sicuro di sé queste parole: “Io sono stato bene, come al solito. L’unica cosa che mi ha infastidito è di non poter andare a casa. Paura no, per niente”.
NINATocca a Nina, verso la quale sento una profonda compassione per la triste vita che le è toccata. Ha perso l’unica figlia, grande concertista internazionale, a seguito di una malattia devastante a soli 35 anni di età e da allora ha annegato i suoi dispiaceri nell’alcol fino a non sapere più nemmeno che nome avesse. Dopo un lungo periodo di ricovero in Psichiatria, è entrata in Casa Morando e siamo diventate amiche e confidenti.
È sempre cordiale, premurosa, attenta alle mie mosse, ma mai invadente.
Ecco il suo pensiero: “Come prima cosa sono rimasta allibita, preoccupata, sconvolta. Ho avuto l’impressione che la natura volesse scombinare le cose. Un cataclisma! Non ho capito cosa stava succedendo, ma di una cosa sono certa: se fossi stata a casa mia sarei stata peggio. Mi stupisce anche che di fronte a certe tragedie c’è gente che rimane indifferente. Comunque non ho mai avuto paura, è successo, fa parte della vita”.
Nita è seduta su una sedia, in disparte, come sempre. E’ una brontolona, strapparle un sorriso è veramente cosa ardua. Gli acciacchi che indiscutibilmente si porta dietro non le permettono di essere serena, né tanto meno di dormire di notte e purtroppo le sue riferite allergie o intolleranze alle medicine e pure alle caramelle, proprio così, lasciano ben poco spazio alla terapia farmacologica, cosa che contribuisce ad amplificare la sua sfiducia e disistima nei confronti di tutto il personale sanitario, me compresa.
Esordisce sostenendo che il periodo l’ha vissuto male, senza poter vedere nessuno, soprattutto le persone e che forse a casa sua sarebbe stata meglio. Poi mi lascia di stucco perché prosegue dicendo: ”Mi sono però sentita protetta. Tutte le settimane la disinfezione dei locali. Paura? No, non ne ho avuta. Dicono che finirà. Tu ci credi?”
Annuisco, mentre i miei occhi continuano a esprimere lo stupore di aver udito con le mie orecchie una affermazione positiva di Nita nei confronti di casa Morando.

LucianaMentre cerco qualche altro ospite in grado di darmi una risposta, mi imbatto in Luciana, che cammina avanti e indietro nel corridoio, appoggiandosi al corrimano. Di lei ho parlato nell’articolo dal titolo “Luciana, l’operaia di una catena di montaggio” pubblicato su Per Lunga Vita il 17 dicembre del 2017. La fermo e a bruciapelo le chiedo cosa ne pensa del coronavirus. Scoppia in una fragorosa risata, poi, come fa solitamente, si ferma davanti allo specchio, saluta con la mano la sua immagine riflessa e inizia a borbottare parole incomprensibili.
L’importante è essere sereni!! Penso io.
Inaspettatamente incontro la Sig.ra Bruna, di ritorno dalle sue puntuali uscite di primo mattino per fare la spesa, carica di sacchetti, che nessuno può toccare. Bruna, un ex insegnante di 93 anni, residente in Casa Morando da oltre 11 anni, a parte far la spesa nei negozi alimentari del circondario, si barrica nella sua camera e legge tre quotidiani ogni giorno, più libri di vario genere. Non si fida di nessuno, è schiva di tutto e tutti e, in questo periodo pandemico, dopo che è stata beccata in strada dalla polizia locale da sola e senza mascherina, non è stato affatto semplice spiegare alle forze dell’ordine le consolidate convinzioni della bizzarra vecchietta che guidano i suoi altrettanto insoliti comportamenti. Per fortuna la vicenda si è conclusa con un articolo dal titolo “Il caso” sul Secolo XIX che definirei senza infamia e senza lode.
Con non poca titubanza, chiedo a Bruna se posso rubarle pochi minuti per conoscere il suo pensiero su quanto sta succedendo e lei mi sorride, con aria furbesca e risponde così: ”Io questo periodo di coronavirus l’ho passato come al solito, sono sempre uscita. Spero solo che passi presto, però ho letto sui giornali del probabile ritorno del contagio in autunno. Speriamo di no”.
“Si ricorda che Lei ha avuto problemi con i vigili urbani quando l’hanno fermata?” Aggiungo io.
Ah sì! Ma sa, i bambini sotto i 6 anni non portano la mascherina … io non la posso portare”.
“Ma Lei ha un po’ più di sei anni?” Replico io.
“Ma …. Faccia Lei !"Mi risponde ironicamente e se ne va sorridendo; poi si volta di scatto e puntando il dito contro di me afferma “Si ricordi! Io sono un codice 1721 e pure C3!”.
E già! E’ anche figlia di Napoleone Bonaparte e discendente degli Asburgo, e si è sempre rifiutata di assumere i farmaci che gli specialisti ritenevano opportuni per limitare le sue stranezze.
Menomale, penso io ! Se l’avessero inondata di Serenase o qualche altro antipsicotico, chissà se sarebbe ancora al mondo? Se sì, non avrebbe certamente la stessa grinta.
Ed ecco che mi viene in mente la parola “vitalità”, intesa come quella energia fisica e morale che ci spinge a restare al mondo e a comportarci ognuno a modo proprio.
Credo che il segreto di Casa Morando sia proprio il fatto di essere vitale: di permettere ad una persona di chiudersi in camera, di innaffiare i fiori, di accarezzare un gatto, di aiutare in cucina, di ballare, ridere scherzare, ma anche litigarsi, criticare, tenere i musi e tante altre cose. Credo anche che la vitalità possa essere contagiosa, così come il coronavirus.
Maria Grazia, la Direttrice, coadiuvata da Angela, l’infermiera, nonostante i ridotti stimoli imposti dall’isolamento, hanno fatto il possibile affinché gli ospiti si mantenessero vitali e li hanno sempre resi partecipi di quanto stava accadendo nella convinzione che il senso di responsabilità non appartenga solo ai sani di mente e che questo sia indispensabile per affrontare nel migliore dei modi le situazioni di emergenza. Dal lavaggio delle mani, al distanziamento fisico, alla misurazione della temperatura, alla spiegazione del perché non si potevano fare entrare parenti e amici, ogni procedura ed ogni aggiornamento venivano esplicitati in modo semplice e chiaro ottenendo la collaborazione dei più, se non di tutti.
Le risposte lo testimoniano, hanno riconosciuto il difficile periodo, hanno avuto paura, chi più chi meno, ma non se la sono passata troppo male e soprattutto si sono sentiti protetti.
Il loro vissuto è per noi la migliore gratificazione.
Grazie, Maria Grazia, Angela e tutti gli operatori!
Un grazie di cuore anche al Presidente Francesco e ai consiglieri che ci permettono di realizzare ciò in cui crediamo.

Long-Term Care è il primo studio europeo che mette a confronto i vari Stati sulle politiche dei governi nel sostenere i diritti delle persone anziane con bisogni di assistenza e sostegno. I risultati di questa ricerca sono illustrati nel rapporto “From disability rights towards a rights-based approach to Long-term care in Europe, Building an index of rights-based policies for older people”.
Dai principali risultati emersi si evidenziano e si confermano le criticità dell’Italia in questo settore. L’unico ambito in cui otteniamo il punteggio massimo è la “libertà di decisione e di movimento” ma sinceramente non condivido fino in fondo questa valutazione perché ritengo che le difficoltà economiche di molte famiglie in Italia condizionino molto la libertà di scelta sulla qualità della vita delle persone anziane.


L’Indice dei diritti delle persone anziane (ROPI)

L’Indice dei diritti delle persone anziane (ROPI) è una misura composita multidimensionale organizzata in domini (box 1) che esaminano il quadro giuridico e politico dei vari paesi nonché i meccanismi di attuazione volti a garantire il rispetto dei diritti delle persone anziane.
Rita i diritti

Nei risultati complessivi per il ROPI – espressi in categorie numerate da 1 a 3, dove a numero più alto corrispondono standard migliori (tabella 2) – la Svezia raggiunge il punteggio indice più alto (2.2). La Finlandia si posiziona al secondo posto, leggermente in vantaggio rispetto a Slovenia, Irlanda e Austria. La Polonia ha il punteggio più basso (1.8). In particolare, nessuno dei paesi appartiene alla fascia di punteggio più alta (2.6-3.0) o più bassa (1.5-1.0) e anche la variazione tra i punteggi dei paesi è contenuta (tra 2,2 e 1,8 nell’indice complessivo). È interessante notare che non vi è alcun raggruppamento geografico evidente nei risultati della classifica generale.
Risultati ROPI

Tabella 2 – Risultati complessivi per il ROPI per i 12 paesi partecipanti

Dai risultati del ROPI si evidenziano margini di miglioramento nella maggior parte dei paesi. Le possibilità di miglioramento sembrano essere maggiori, in media tra i paesi, per i domini IV (Vita, libertà, libertà di movimento), V (Privacy e vita familiare), IX (Standard di vita adeguato), e X (Reclami e risarcimenti).

La posizione di arretratezza dell’Italia nel ROPI
Nei risultati complessivi per il ROPI (Indice dei diritti delle persone anziane) l’Italia mostra un punteggio medio di 1.8, collocandosi all’11° posto su 12 dei paesi indagati. Lo studio evidenzia le debolezze e le criticità dell’Italia nella maggior parte delle aree esaminate dallo strumento, strettamente connesse ai diritti all’assistenza da parte delle persone anziane non autosufficienti.

Più precisamente, l’Italia evidenzia le peggiori performance al ROPI nei domini inerenti la libertà di scelta (specificatamente alla possibilità di scelta dei gestori di assistenza e a tutto il tema delle Disposizioni Anticipate di Trattamento), il mantenimento dei legami familiari, soprattutto in riferimento a leggi che favoriscano il mantenimento dei legami familiari anche durante l’assistenza e le politiche di informazioni sui diritti delle persone anziane e sulla tutela degli stessi. Non solo, anche le aree inerenti la tutela da abusi e maltrattamenti, la libertà di pensiero e di espressione, il livello di salute garantito, con preciso riferimento alle politiche di Long-Term Care e la garanzia di un adeguato standard di vita, soprattutto in relazione al supporto abitativo protetto, risultano per l’Italia tutte aree deboli al ROPI.
Il tema della partecipazione e dell’inclusione sociale così come l’area relativa alla parità di accesso ai servizi di assistenza, siano essi domiciliari, semiresidenziali o residenziali risultano essere sufficientemente garantite ma, da osservare e monitorare. L’Italia mostra invece un ottimo risultato nella regolazione all’utilizzo delle contenzioni, fisiche o chimiche.

Il Quadro Di Valutazione Degli Indicatori Di Risultato: il quadro di sintesi
Il Quadro di valutazione degli indicatori di risultato misura le prestazioni del paese in termini di risultati effettivi, vale a dire i risultati raggiunti nell’adempimento dei diritti fornendo, quindi, una visione d’insieme del rispetto dei diritti nella realtà.
Svezia e Finlandia (quest’ultima nonostante i valori mancanti) ottengono i risultati migliori tra i paesi inclusi nel quadro di valutazione, in quanto presentano il numero più elevato di indicatori con valori “buoni ma da monitorare”. Il Quadro di Valutazione degli indicatori di risultato mostra, per quasi tutti i paesi, risultati più positivi rispetto al ROPI. Nonostante, ad esempio, gli scarsi risultati in termini di accesso alle cure a lungo termine per molti paesi, l’opinione degli anziani sulla qualità dei servizi di assistenza nel loro paese è comunque positiva. ( Tabella 13)

Rita I domini
Tabella 13- I domini e gli indicatori del quadro di valutazione sull’indicatore di risultato

In conclusione, il gruppo di ricerca evidenzia la necessità di disporre di maggiori dati sugli indicatori chiave per sopperire alle attuali lacune, allo scopo di migliorare le conoscenze sull’effettivo rispetto dei diritti delle persone anziane ed adottare politiche di Long-Term Care adeguate per garantirne la tutela.

Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento vi allego il link per leggere l’intera relazione ma vi anticipo la sintesi dei risultati.

https://www.luoghicura.it/dati-e-tendenze/2020/06/long-term-care-e-diritti-degli-anziani-in-europa-italia-debole/

La bambina di vetro“La bambina di vetro” è il nuovo testo scritto e illustrato da Beatrice Alemagna; pubblicato per la prima volta in Francia nel 2002 ed edito in Italia da TopiPittori nel 2019.
La storia, (come l’autrice stessa ci racconta nella prefazione del libro) è stata ispirata da “Giacomo di Cristallo” del geniale Gianni Rodari, testo che fin da bambina ho amato e sognato di illustrare.
Si potrebbe dire che Gisèle, la protagonista di questo libro, sia la sorellina francese di Giacomo (nata a Parigi e mai pubblicata prima d’ora in Italia). A differenza dl suo gemello italiano, Gisèle non viene messa in prigione ma solo esclusa e costretta a cercare un luogo da poter chiamare “casa”. La bambina di vetro non è una storia che parla di quanto sia potente la verità, ma di fiducia in se stessi e di coraggio, doti che coloro che oggi lottano nella vita non dovrebbero mai perdere. (1)
"Giacomo di Cristallo" è una delle note favole al telefono di Gianni Rodari; nelle prime righe della sua storia possiamo leggere:
“Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l’aria e l’acqua. Era di carne e d’ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava in pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente”. (2)
Anche la bambina di vetro nasce trasparente e fragile, come si evince dal parallelismo che segue:
“Un giorno, in un villaggio vicino a Bilbao e a Firenze, nacque un bambino di vetro. Anzi, una bambina. Era così carina con i suoi grandi occhi, così perfetta con le sue piccole mani, così pura e luminosa… ma così trasparente! Brillava, scintillava, si confondeva con gli oggetti, cambiava colore al tramonto e sotto il sole si trasformava in mille riflessi”.
In aggiunta alle poetiche parole dell’Alemagna, vediamo anche un uso delle illustrazioni pittoresco e peculiare, che assorbe completamente la nostra attenzione, tra un gioco di colore dato dalle sfumature di un azzurro cielo e il suo tratto grafico che ci ricorda il suo celebre albo illustrato “Un leone a Parigi”.
Interessante inoltre notare come ci sia la stessa autrice all’interno delle pagine, in particolare nella valigia di Gisèle dove si notano le due parti del suo cuore (e delle sue patrie): Parigi con una piccola Tour Eiffel – un souvenir – e l’Italia con un vecchio francobollo delle Poste Italiane.

Troppa trasparenza
Non è solo l’apparato iconografico a stregarci, tutto l’oggetto libro ci catapulta nel racconto e ci fa stare attenti. Sfogliando il testo, infatti, vediamo scorrere il tempo della bambina di vetro che, crescendo, porta con sé paure e dubbi su se stessa, una scoperta intima di sé che purtroppo, però, non rimane così intimistica e questo perché anche i suoi pensieri sono trasparenti e capaci di essere letti da tutti.
A diventare limpidi ed evidenti, non sono però solo i pensieri di Gisèle, ma anche il racconto che, pagina dopo pagina, mette in luce i dolori della bambina facendo diventare il libro stesso trasparente, creando una mimesi totale con la protagonista della storia e con l’oggetto libro in sé, attraverso il tatto e la vista.
Ogni suo pensiero era letto e studiato dagli altri, che la criticavano e accusavano, pensando che dovesse imparare a tenerli per sé, finché un giorno la bambina se ne andò pronta per scoprire dove potesse stare senza essere giudicata dagli altri. Ma, ovunque lei andasse, i problemi ritornavano e le persone non la capivano. Così un giorno, si stancò di fuggire, e tornò a casa.
Anche se la verità è spaventosa e la gente preferisce ignorarla. (3)

La verità spaventa
Questo libro a figure ci insegna parecchie cose: innanzitutto quanto sia importante lavorare su se stessi e sull’accettarsi, in un momento storico in cui i social network e i media danno come messaggio ai ragazzi quello di essere perfetti e omologati, quando invece la diversità è e deve essere ciò che ci distingue dagli altri, ciò che ci rende speciali, non negativamente differenti.
In una società in cui l’esclusione è all’ordine del giorno, dove l’abbattimento delle barriere e il fatto che:
«tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali» (4).
Sono solo parole al vento, un libro in cui una ragazza capisce che ha il diritto di rimanere a casa sua esattamente come le altre persone, serve a noi adulti e agli adulti di domani.
Inoltre ci mostra come la verità spaventi le persone, abituate a vivere tra ipocrisie e decise nel richiamare i bambini quando, senza alcun filtro, dicono ciò che pensano sia rispetto a chi incontrano, sia rispetto a chi vorrebbero essere o diventare.
Gisèle, da donna ormai indipendente, ha il suo lieto fine, le spetta questo lieto fine. Non si può purtroppo dire lo stesso per “Giacomo di cristallo”, che al contrario andò in galera per i suoi pensieri fluttuanti, anche se poi successe qualcosa di straordinariamente magico (o meglio, giusto):
“Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri. Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire. Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano.” (5)
"La bambina di vetro" può essere inserito all’interno di un percorso interdisciplinare negli ultimi anni della scuola primaria in cui si voglia parlare dell’inclusione a scuola e per far scoprire ai bambini la loro unica identità, tenendo bene a mente le parole delle Indicazioni Nazionali:
Poiché comunità educante, la scuola genera una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed è anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola affianca al compito «dell’insegnare ad apprendere» quello «dell’insegnare a essere». L’obiettivo è di valorizzare l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un’opportunità per tutti. (6)
È un libro sicuramente da proporre, dai sette anni in su, dotato di illustrazioni molto belle ed anche consigliato a chiunque abbia voglia di fare un viaggio nella propria intimità, per imparare a vedere la verità che ci circonda.

Note
(1) Dalla prefazione de La bambina di vetro, B. Alemagna, TopiPittori, Milano, 2019.
(2 )G. Rodari, Favole al telefono, Einaudi, Torino, 2010, p. 142
(3 )G. Quarenghi, La bambina dei libri, TopiPittori, Milano, 2019
(4) Costituzione Italiana, art. 3
(5) G. Rodari, op.cit., p. 144
(6) MIUR, Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, Le Monnier, 2012, p. 10

Nell’ultima settimana di febbraio, quando la Lombardia è diventata “zona rossa”, anche l’Università della Terza Età ha dovuto chiudere i battenti. Si pensava inizialmente che la cosa non sarebbe durata molto ….
- Forse un paio di settimane- ci dicevamo. Ma non è andata così e la nostra amata UTE non ha più ripreso le lezioni.
Ora il periodo di isolamento totale è finito, ma per la nostra Associazione restano molte incognite. La prima riguarda la sede: i locali in cui si tengono le lezioni bisettimanali sono di proprietà della Fondazione “Casa Prina”, la RSA di Erba, la quale potrebbe avere bisogno della sala (che ha sempre messo a dell’UTE per una modica cifra annuale), per poter mettere in pratica le rigide regole governative sul distanziamento degli ospiti.
Ammettendo comunque che potessimo disporne ancora, la sala non può certo contenere 70/80 persone (media delle presenze) assicurando le distanze di sicurezza. In città inoltre nessuna sala conferenze potrebbe offrirci questa possibilità.
La seconda incognita riguarda i soci: la loro età va dai cinquanta agli oltre ottanta anni e nella nostra zona regna ancora molta paura; se in autunno ci fosse una recrudescenza dei contagi, quanti sarebbero disposti a iscriversi di nuovo?
Ipotizzando la riapertura con un numero di iscritti sufficiente a consentire il proseguimento dell’attività, bisognerà pensare a cambiare tutta la gestione delle attività: si è pensato a turnazioni, all’uso delle registrazioni delle lezioni, o a iscrizioni suddivise per corsi; potremmo forse anche utilizzare le tecnologie per la didattica a distanza, (canali Facebook o Youtube, o videoconferenze) ma quanti anziani sarebbero in grado di utilizzarla? Molti di loro vedono nei computer delle diavolerie fatte apposta per emarginarli, per farli sentire inadeguati.
Tutto questo rende il futuro dell’UTE molto incerto, ma credo che saremo in molti a cercare di fare il possibile perché questa associazione non muoia e continui ad offrire agli anziani di Erba e dintorni, come ha fatto per oltre 25 anni, un luogo di aggiornamento di notevole livello culturale e un’occasione preziosa di socializzazione.
Non va meglio, tuttavia, per le altre realtà territoriali che si basano sul volontariato pensiamo solo agli oratori o ai centri estivi: si possono organizzare attività solo per piccoli gruppi, che non devono mai interagire tra di loro, ma per ogni gruppo sono necessari educatori e adulti responsabili. Dove trovare tutte queste persone, che siano anche qualificate per questi ruoli? La prima conseguenza è la lievitazione dei costi per le famiglie, che spesso non sono in grado di sostenerli e decidono perciò di non iscrivere i loro bambini, che passeranno un’estate davanti a TV, play-station e telefonini a giocare a distanza con amici virtuali.
Le video conferenze, che hanno imperversato nei mesi scorsi, ora stanno lasciando il posto a timidi tentativi di riunioni in presenza, con misurazione delle temperature, mascherine, gel igienizzanti, sedie a debita distanza e tutto assume un’aria oltremodo surreale.

ida accorsiQuello che doveva essere l'anno delle grandi celebrazioni rodariane ha incontrato sulla sua strada l'inaspettata emergenza mondiale. Mi sono chiesta tante volte in queste settimane: cosa avrebbe detto il Maestro Gianni?? Forse, come aveva fatto di fronte ad altre sciagure e ingiustizie, ne avrebbe preso atto, tenendo in mano la penna e nella mente la speranza. Così, tra chiusure e difficoltà si continua a ricordarlo, e, ognuno come può, a onorarlo.
Maggiormente in questo momento sento il bisogno di rileggere Rodari il poeta, lo scrittore, il visionario, sempre dalla parte dei ragazzi, che ha regalato al mondo opere indimenticabili e la più bella e rivoluzionaria delle verità: la fantasia ci rende liberi.
Per lui conversare con i ragazzi era una necessità per capirne i comportamenti e per penetrare nella loro psicologia; un’occasione per ricevere stimoli e collaudare quanto andava scrivendo. Voleva che il suo lavoro nascesse dalla base. Non gli bastava guardare il mondo, desiderava andargli incontro ed entrarci.
Gli alunni, non conoscendolo di persona, al primo impatto subivano il fascino del personaggio e perdevano la spontaneità, ma Rodari cercava subito di smitizzare facendosi chiamare “Gianni”, poi con battute spiritose, si metteva sul loro stesso piano; creava il bisogno di sapere e aiutava a penetrare concetti profondi con linguaggio comprensibile e coinvolgente. Era un improvvisatore formidabile, un comico nato. Si vantava, con una punta di orgoglio, di assomigliare un po’ a Totò.
A scuola con Gianni RodariAnche quando raccontava più volte uno stesso fatto o una favola, introduceva varianti compiendo un lavoro sul lavoro.
Usava espressioni popolari, sfruttava i luoghi comuni, immetteva nella narrazione dati ambientali o ‘rubati’ all’interlocutore, toccando gli argomenti verso i quali gli adolescenti erano più sensibili e interessandosi ai loro vissuti.
Pur avendo in mente certi obiettivi, operava senza uno schema fisso. Era un maestro in tutti i sensi, stava a scuola con lo spirito dell’allievo che vuole apprendere dagli altri, sapeva ascoltare e dare consigli pratici agli insegnanti, senza per questo considerarsi depositario di verità assolute. Non volendo mai dire una parola conclusiva, era continuamente disponibile alla verifica.
Insegnava senza imposizioni: scherzando, gareggiando, stuzzicando la curiosità, in quell’atmosfera l’aula diventava un vivace luogo di ricerca, un laboratorio di invenzioni fantastiche.
Con lui non esistevano problemi di disciplina. Si guadagnava l’autorità e induceva al rispetto delle regole con l’intelligenza, la cultura, la simpatia, l’amicizia, tra le sue finalità vi era quella di rendere i bambini autonomi, sinceri, capaci di pensare in maniera diversa l’uno dall’altro.
Il suo grande credo era di fare della scuola un momento di vita.
Educatore, che sentiva la scuola come la sua grande famiglia, è stato tra i più convinti difensori dei diritti dei bambini.
Dopo tutta questa lunga presentazione, voglio parlare della sua opera più importante la “GRAMMATICA DELLA FANTASIA - Introduzione all’arte di inventare storie” - l’unico suo volume teorico, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1973 da Giulio Einaudi Editore
Nasce ufficialmente a Reggio Emilia (città che Rodari apprezzò molto in quanto le sue scuole accoglievano a braccia aperte lui e le sue idee; frequenti le sue visite in Emilia Romagna) dalla paziente trascrizione a macchina da parte di una stagista di alcuni appunti rimasti a lungo dimenticati. Gli appunti in questione, scritti intorno agli anni 1940, facevano parte della raccolta del "Quaderno della fantasia". Vennero recuperati in seguito a un convegno che si tenne proprio nella città emiliana dal 6 al 10 marzo 1972.
L'opera si sviluppa in 45 capitoli.
Nella quarta di copertina della prima edizione, si riportavano queste parole dell'autore:
"Quello che io sto facendo è di ricercare le "costanti" dei meccanismi fantastici, le leggi non ancora approfondite dell'invenzione, per renderne l'uso accessibile a tutti. Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l'abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti."
Da questa ricerca, che Rodari ha condotto per molti anni, è nata la Grammatica della fantasia, una proposta concreta che intende rivendicare all'immaginazione lo spazio che deve avere nella vita di ciascuno.
Tra i tanti capitoli cito quello dell’ L'errore creativo dedicato alle potenzialità creative e pedagogico-didattiche dell'errore. Difatti, secondo Rodari in ogni errore riposa la possibilità di una storia come testimonia l'esempio della scarpina di Cenerentola che invece di essere di pelliccia, per un errore di trascrizione, è diventata una fantastica scarpina di vetro. Come già aveva sostenuto nel suo Libro degli errori, persino l'errore ortografico può offrire lo spunto per ogni sorta di storia dai risvolti comici o anche essere l'occasione per un'istruttiva riflessione come nel caso della parola I-ta-glia, nella quale quella brutta g appare come un eccesso nazionalistico. Molti errori dei bambini, poi, sono in realtà creazioni autonome, utili ad assimilare una realtà sconosciuta. Sono errori che fanno ridere e ridere degli errori, ci fa riflettere Rodari, è già un modo di prenderne le distanze. Inoltre un'unica parola può suggerire innumerevoli errori e quindi innumerevoli storie. Per esempio, dalla parola automobile potrebbe derivare ottomobile, altomobile, ettomobile, autonobile, ecc.
Pertanto Rodari ritiene che il proverbio "Sbagliando s'impara" dovrebbe essere rimpiazzato da uno nuovo che dica "Sbagliando s'inventa".

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L'AUTONOBILE
Pareva una macchina
precisa a tante altre,
invece, ecco qua,
si scopre che è un'autoNobile.
Sarà marchesa, contessa,
baronessa,
chissà.
Dallo stato delle gomme,
dalla ruggine della carrozzeria
sospetto che si tratti
di una nobiltà
decaduta alquanto.
Non dubito che ai suoi bei giorni
sia stata ricevuta
a corte, con la meglio aristocrazia;
che abbia avuto dame di compagnia,
il maggiordomo, l'ancella
il lacchè,
Sarà stata anche bella
il giorno delle nozze..
Ma adesso l'aspetta lo sfasciacarrozze.
Tuttavia, tuttavia,
è sempre un'autoNobile:
lo puoi vedere dalle buone maniere,
dalle maniglie fini e affusolate
dalle povere portiere sgangherate.

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