Oltre l'età di Rita Rambelli
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- Autore/rice Rita Rambelli
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Mi sono interrogata spesso ultimamente sulle modalità di prevenzione che sono state adottate nelle strutture per anziani e disabili in questi mesi. Me lo sono chiesto anche perché lo sto vivendo personalmente avendo una sorella, Anna, gravemente disabile fisicamente, ma normale intellettualmente, che vive in RSA da circa 20 anni e che da un oltre un anno non esce da quella struttura, prigioniera, per motivi di sicurezza sanitaria.
Io e gli altri familiari eravamo abituati a portarla fuori più volte alla settimana, festeggiare con lei le festività, restare con lei nella sua camera o in giardino a chiacchierare e bere caffè; tutto questo da un anno non è più possibile, e lei è comprensibilmente molto stanca e demoralizzata.
Quella dove vive Anna è una struttura piccola, 25 ospiti, fortunatamente molto ben gestita e hanno superato questi mesi senza nessun caso di Covid. Nelle scorse settimane sono stati tutti vaccinati, sia gli ospiti che gli operatori, ma ancora, e non sappiamo per quanto, noi non possiamo entrare né tanto meno uscire con lei: ci parliamo solamente in video chiamata ed è molto difficile giustificare questa lunga attesa e sostenere il suo morale.
Riepiloghiamo come sono andate le cose in questi mesi dal gennaio 2020:
9 gennaio 2020: riunione del Tavolo tecnico del Coronavirus a Roma
• 20 febbraio: il “paziente 1” all’ospedale di Codogno
• 22 febbraio: al Nord ordinanza per la chiusura di scuole e chiese
• 24 febbraio: Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia
consigliano “di limitare l’accesso degli ospiti delle Rsa”
• 5 marzo: entra in vigore il Dpcm Conte che limita l’accesso dei visitatori nelle strutture di lunga degenza
• 8 marzo: il governo emana il lockdown in tutta Italia.
Da allora, tranne qualche breve spiraglio durante il periodo estivo durante il quale abbiamo potuto incontrare Anna, previo appuntamento, uno alla volta, a distanza e per 30 minuti, le cose non sono cambiate.
Nonostante migliaia di anziani e disabili di fatto siano imprigionati dentro le loro strutture da oltre un anno, il virus è entrato ugualmente perché lo hanno portato dentro gli operatori, spesso poco professionalizzati e in meno di due mesi le cronache ci dicono che nelle Rsa di Brescia sono morti 1.800 ospiti; in quelle di Milano 1.700, in quelle di Bergamo oltre 1.300.
Il fenomeno dell'istituzionalizzazione riguarda in Italia circa 300 mila persone e ma alla luce dei fatti risulta chiaro che tutta la legislazione riguardante le così dette 'case di riposo' va modificata, privilegiando strutture più piccole, rivisitando gli spazi e l’organizzazione, ricreando, nei limiti del possibile, un clima familiare e rassicurante, così da non perdere le residue capacità di autonomia funzionale e relazionale delle persone accolte.
Come è stato per la riforma sui manicomi, dovremmo pensare al superamento delle strutture attuali dandoci un arco di tempo utile, ma non lunghissimo, (diciamo entro la fine del 2026), con contemporaneamente la messa in campo di misure che aiutino le famiglie o i singoli nella permanenza in casa, allargando l’assistenza domiciliare, aumentando i sostegni economici e riducendo i costi legati alla regolarizzazione delle persone che forniscono assistenza a domicilio. (come le cosiddette badanti, oggi al 60% in nero e senza nessun controllo).
Quando poi non fosse possibile mantenere la persona anziana o disabile nella sua casa, dovremmo pensare a strutture che siano il più possibile vicine ai luoghi di residenza e che non ospitino più di 15/20 persone; dotate di tutte le soluzioni tecnologicamente avanzate di domotica e telemedicina. Queste nuove strutture possono essere qualificate con prevalenza sanitaria, sociale o socio-sanitaria ma devono avere requisiti minimi di residenzialità, camere singole, giardini e terrazzi, palestre per la riabilitazione, sale per l’intrattenimento e le attività del tempo libero.
In questa direzione sta andando anche il Governo, come risulta da un recente comunicato Ansa del Ministro Orlando che dice:
(ANSA) - ROMA, 15 MAR - Il Governo punta a finanziare la riconversione delle case di riposo per gli anziani molto diffuse sul territorio in gruppi di appartamenti autonomi, dotati delle attrezzature necessarie e dei servizi attualmente presenti ovvero la creazione di reti che servano gruppi di appartamenti non adiacenti, assicurando loro i servizi necessari alla permanenza in sicurezza della persona anziana sul proprio territorio. Lo ha detto il ministro del Lavoro Andrea Orlando in una audizione al Senato sulle linee programmatiche del ministero e il PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) spiegando che "elementi di domotica, telemedicina e monitoraggio a distanza permetteranno di aumentare l'efficacia dell'intervento".
La dimensione dell'"abitare assistito" - ha detto - è cruciale anche nel cambiare le prospettive dell'intervento in favore delle persone in condizione di marginalità estrema e senza dimora, oggetto di politiche fortemente disomogenee a livello territoriale, spesso limitate solo a interventi emergenziali.
Con le risorse del PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) - ha detto ancora - sarà possibile superare tale situazione con investimenti mirati a livello territoriale, da realizzare attraverso i comuni titolari dei servizi sociali territoriali, in particolare quelli di dimensioni maggiori e/o facenti parte di un'area metropolitana, nell'ottica cosiddetta dell'housing first, ossia assistenza alloggiativa temporanea ma di ampio respiro, fino a 24 mesi, per coloro che non possono immediatamente accedere all'edilizia residenziale pubblica, affiancata da un progetto individualizzato volto all'attivazione delle risorse del singolo o del nucleo familiare, con l'obiettivo di favorire percorsi di autonomia". (ANSA).
Immaginare un mondo diverso per chi invecchia è possibile e ci riguarda tutti e credo che tutti dovremmo contribuire a renderlo reale!!
- Autore/rice Rita Rambelli
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Mentre scrivo questo articolo sto ascoltando l’annuncio in televisione dell’ennesimo “femminicidio” di questo mese a Faenza, qui vicino a Ravenna, confermando un trend di omicidi di donne all’interno della famiglia in costante ascesa. Un fenomeno di cui oggi i media ci rendono consapevoli nella sua terribile realtà che non è solamente italiana, ma mondiale.
Il termine femminicidio fu usato per la prima volta nel 1976 dall'attivista sudafricana Diana Russel, il termine è divenuto d’uso comune per designare una categoria criminologica specifica, ovvero l’uccisione intenzionale di una donna in seguito alla supposta trasgressione di ruoli di genere derivanti dalla tradizione e dalle norme sociali, che variano a seconda del contesto sociale nel quale il crimine viene perpetrato.
Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio 2020 a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l'invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita.
Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Diana Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all'Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l'apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un'associazione che sostiene le vittime dell'incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia. E' stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l'uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza politicà della parola che voleva attirare l'attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all'interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E' del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing".
Le donne vittime di omicidio volontario nell’anno 2019 in Italia sono state 111, lo 0,36 per 100.000 donne. Nel 2018 erano state 133. Delle 111 donne uccise nel 2019, l’88,3% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare il 49,5% dei casi dal partner attuale, corrispondente a 55 donne, l’11,7%, dal partner precedente, pari a 13 donne, nel 22,5% dei casi (25 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nel 4,5% dei casi da un’altra persona che conosceva (amici, colleghi, ecc.) (5 donne).
Per oltre la metà dei casi le donne sono state uccise dal partner attuale o dal precedente e in misura maggiore rispetto agli anni precedenti: il 61,3% delle donne uccise nel 2019, il 54,9% nel 2018 e il 54,7% nel 2014.
Non sono riuscita a trovare dati più recenti ma sono state 43.600 il numero di donne e ragazze uccise nel 2012 in tutto il mondo da un partner, un ex fidanzato, un membro della propria famiglia. Un terzo dell'universo femminile dichiara poi di avere subito almeno una volta una forma di violenza, fisica o sessuale. Solo l'11 per cento delle vittime denuncia il caso alle autorità. A presentare queste cifre è il rapporto Combating violence against women dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), pubblicato nel novembre 2016.
Dati che fanno impallidire: questi numeri, paragonabili ai dati del conflitto siriano - 40mila morti nei primi 20 mesi di guerra - sono lo specchio di un problema che interessa il mondo intero.
I paesi che registrano i casi più numerosi sono sparsi ai quattro angoli del pianeta. In Russia, El Salvador e Sudafrica il tasso di femminicidio supera i 6 casi ogni 100mila donne, toccando punte di 15 casi ogni 100.000 donne in Honduras. Nei paesi dell'Europa occidentale, il tasso medio è, annualmente, di 0,4 vittime di femminicidio ogni 100.000 donne. Per una donna che vive in Honduras quindi, il rischio di essere vittima di un omicidio di genere, perpetrato dal partner o all'interno della cerchia familiare, è 40 volte più alto di quello che interessa una cittadina dei paesi dell'Europa occidentale.
Nonostante l'approvazione di leggi e normativa specifica, i casi di femminicidio non accennano a diminuire neppure in Europa.
Anche se in Italia avviene un femminicidio ogni tre giorni e mezzo, non sembriamo essere il Paese europeo con la maggiore emergenza rispetto al fenomeno della violenza sulle donne.
Secondo dati dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, i Paesi in cui la violenza contro le donne (fisica e/o sessuale) è più comune sono quelli del Nord Europa. L'Italia si attesta sotto la metà della classifica, ben al di sotto della media europea: nel nostro Paese le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi rappresentano il 27%, a fronte del 52% in Danimarca, del 47% in Finlandia, del 46% in Svezia, del 45% nei Paesi Bassi e del 44% in Francia e Regno Unito.
La stessa tendenza sarebbe confermata anche se si analizza il fenomeno solo dal punto di vista delle molestie sessuali (15% in Italia, 32% in Danimarca, 27% in Svezia e Paesi Bassi, 24% in Francia e Belgio).
Anche per quanto riguarda la violenza subita specificamente dai partner, l'Italia si attesta nella fasce più basse (15-20%), mentre nella parte alta della classifica si confermano i Paesi del Nord Europa e i Paesi dell'Est: in questi ultimi sembra proporzionalmente più presente la violenza da parte dei partner rispetto al fenomeno generale.
Infine, un'altra elaborazione riguarda la pericolosità percepita della violenza sessuale che stranamente risulta essere inversamente proporzionale alla realtà dei fatti. Sarebbe interessante capire se questa scarsa percezione sia legata ad un deficit informativo da parte degli organi governativi oppure ad un diversa cultura sul ruolo delle donne nella società nei paesi del nord Europa.
Dall'analisi dell'Agenzia infatti emerge che i Paesi in cui le donne raccontano maggiormente casi di violenza sono i Paesi in cui la violenza sessuale risulta essere percepita come meno comune. A questo proposito, in Italia il 90% delle donne pensano che la violenza sessuale sia un problema dilagante, anche se gli episodi rilevati non arrivino al 20%. Stessa cosa in Portogallo, dove il 93% delle donne pensa che la violenza sessuale sia piuttosto comune, sebbene le testimonianze delle donne che denunciano di aver subito "attenzioni sessuali" rappresenti il 15% dei casi. In Finlandia, si verifica invece il fenomeno opposto: meno del 70% delle donne ritiene la violenza sessuale un problema comune, a fronte di una situazione di gran lunga sopra la media europea ??
- Autore/rice Rita Rambelli
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Questo 2020 sarà sicuramente ricordato nei futuri libri di storia come “l’anno del Covid”, ma speriamo che questa tragica esperienza di migliaia di morti in pochi mesi ci porti anche a ricordarlo come l’anno del cambiamento del modello di assistenza degli anziani e dei disabili gravi, così fragili e spesso dimenticati, che in Italia non siamo neppure in grado di contare esattamente quanti questo virus ne ha falcidiati, nel chiuso delle loro abitazioni, in una casa famiglia, in un letto di ospedale o in una stanza di RSA.
In una relazione di giugno 2020 dell’Istituto superiore di Sanità si legge che a livello nazionale il 41% dei decessi nelle RSA erano “sospetti Covid” dichiarando che è emersa chiaramente la difficoltà di censire gli eventi che accadono in quelle strutture.
La scarsità cronica di personale, le diverse tariffe, i setting assistenziali diversi da Regione a Regione, e a volte anche tra Province, le classificazioni differenti dei bisogni dei pazienti con impossibilità quindi di confronto nella raccolta dati, la pochissima tecnologia, la formazione inadeguata degli addetti, sono le principali carenze e difficoltà dell’attuale sistema di assistenza degli anziani.
A tutto questo si aggiunge anche una diffusa gestione “fai da te” della parte economica che alimenta senza difficoltà le attività “in nero” e lo sfruttamento del personale.
A questo punto il Covid potrebbe diventare, dopo la tragedia delle morti silenziose e solitarie di migliaia di over 80, un’opportunità di chiarezza e di miglioramento della qualità del nostro sistema di assistenza a livello nazionale.
In palio ci sono risorse mai viste: 1.5 miliardi di euro figurano alla voce RSA nell’elenco delle proposte con cui il Ministero della Sanità si è candidato a ottenere una fetta del Recovery Fund. Il capitolo delle cure alla terza età e alla non autosufficienza viaggia su un doppio binario: da un lato l’Assistenza domiciliare integrata (ADI) – l’Italia è il fanalino di coda in Europa con appena 11 ore l’anno garantite- dall’altro la residenzialità.
Di entrambe queste cose c’è molto bisogno se teniamo conto che in Italia già oggi ci sono 4,5 milioni di ultra ottantenni, che il 33% dei nuclei familiari attuali è single e la metà di questi ha già più di 65 anni.
Oggi gli ospiti in RSA sono circa 300.000 di cui il 70% ha problemi di demenza.
Per spendere bene i fondi del Recovery Fund sarà necessario un serio monitoraggio della situazione a livello nazionale elaborando delle regole di qualità nella gestione e regole edilizie e strutturali, comparabili per tutte le RSA italiane.
Devono essere rese obbligatorie alcune figure sanitarie, infermieri, fisioterapisti ed educatori, la presenza di un responsabile medico; vanno migliorati e allargati i criteri di abitabilità e la gradevolezza degli ambienti, la disponibilità di spazi interni ed esterni per ogni ospite, le opportunità di partecipazione alla vita della comunità esterna, gli standard tecnologici che facilitino le attività del tempo libero ma anche la sorveglianza degli ospiti allettati o deambulanti e inoltre l’utilizzo generalizzato della telemedicina.
Uno dei grandi problemi in questi mesi, che vanno evitati per il futuro, è stato l’impossibilità di incontri in presenza con la famiglia, la limitazione, quando non l’abolizione dei colloqui, l’impossibilità di uscire dalla struttura per partecipare ad eventi familiari o per necessità personali dell’anziano stesso: una festa di compleanno, le Festività natalizie o quelle pasquali, acquisti nei negozi e l’abbraccio e il sorriso di un figlio o un nipotino.
Ci sono anziani, anche in buone condizioni di salute, che non possono uscire dalla RSA e non incontrano i familiari ormai da un anno…!! Trattando gli anziani o i disabili come carcerati si è creduto di risolvere il problema dei contagi, invece gli anziani pur vivendo segregati, si sono ammalati e sono morti ugualmente perché il COVID lo hanno portato dentro gli operatori, spesso scarsamente preparati ed informati sul pino sanitario e quindi incapaci di mantenere un comportamento adeguato alle necessità di sicurezza e di igiene che il problema richiedeva.
In questo periodo, in molte famiglie, alla sofferenza e alle paure per la fragilità delle persone amate si è aggiunta la tristezza della mancanza del contatto con i propri cari anche negli ultimi momenti della vita.
- Autore/rice Rita Rambelli
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Il 3 dicembre era il Giorno internazionale per i diritti con le persone con disabilità, diritti spesso dimenticati dalle amministrazioni italiane, nonostante le normative in merito risalgano a molti anni fa.
Secondo l’Istat ci sono 3,1 milioni di disabili in Italia, cioè il 5,2 per cento della popolazione. Fra 40 anni saranno oltre 4 milioni con un aumento del 25%. Uno dei temi più sfidanti in Italia è e sarà sempre di più garantire il diritto ad una mobilità sostenibile per tutti. Tra le tante esigenze per un’Italia nuova dopo la terribile pandemia che sta sconvolgendo il mondo, emerge quindi fortissima la necessità di politiche che favoriscano gli investimenti per realizzare interventi strutturali che mettano al centro la mobilità e l’accessibilità non tanto e solo per le persone disabili, ma per tutti: per le mamme incinte o per quelle che portano a passeggio un bambino in carrozzina, per un anziano con il deambulatore o per qualcuno che accidentalmente si è rotto una gamba, perché un luogo, pubblico o privato, che sia un ufficio o una casa, dovrebbe essere sempre accessibile in qualsiasi situazione!!
Purtroppo però l’esperienza delle nostre città ci dimostra ogni giorno che il problema è scarsamente sentito e quindi anche difficilmente affrontato.
Una delle mie sorelle (io ne ho 4) oltre vent’anni fa, in seguito ad una grave malattia, è rimasta fisicamente disabile al 100% e si muove solamente su una sedia a rotelle accompagnata da qualcuno di noi. Anche lei, come tutti noi, sente l’esigenza, a pieno diritto, di uscire di casa, e io sono sempre uscita con lei, per acquisti nei negozi, per un aperitivo al bar o un pranzo al ristorante, ma ogni volta è una notevole fatica fisica oltre ad uno stress psicologico per la paura che ti capiti qualcosa, qualsiasi cosa, che ti metta in difficoltà e nello stesso tempo faccia sentire mia sorella umiliata e a disagio.
Impossibile girare sui marciapiedi, sempre pieni di biciclette, di motorini, di avvallamenti e spesso senza scivoli per salire e scendere. Può capitarti di tutto, di rimanere incastrati con una ruota, o di ritrovarsi con le mani sporche degli escrementi di un cane non raccolti da un proprietario maleducato che poi si attaccano alle ruote della carrozzina e tu te le ritrovi fra le mani senza neppure capire come è successo………!! Con preoccupazione mi domando come farò tra qualche anno quando non avrò più forze fisiche sufficienti per affrontare queste gincane.
Scale e dislivelli, ma anche passaggi troppo stretti, pavimentazioni scivolose o sconnesse, bagni non attrezzati, vialetti esterni non riparati e mancanza di posti auto dedicati: le barriere architettoniche sono molto più varie e complesse di quel che normalmente la pubblica opinione è portata a pensare. Per le persone disabili o per coloro che hanno una limitata capacità motoria, come infortunati e anziani, le barriere architettoniche costituiscono un vero e proprio limite alla loro autonomia ma anche una situazione di disagio morale e psicologico che li fa sentire un peso per i familiari e per la società in generale.
In Italia in base all'art. 32, commi 21 e 22 della legge 41 del 1986 aggiornati dall'art. 24, comma 9 della legge 104 del 92, gli Enti centrali e locali in base alle rispettive competenze sull’edificio o sullo spazio pubblico o sul percorso da adeguare, sono obbligati ad adottare ed aggiornare periodicamente - i Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche “PEBA” - ma la loro realizzazione è stata attuata in pochissimi Comuni.
Il Comune di Ravenna dove vivo, il 3 dicembre scorso, ha finalmente approvato il PEBA, il piano dell'eliminazione per le barriere architettoniche, uno degli strumenti tra i più attesi che è stato possibile portare a compimento grazie al sostengo di più Enti, Associazioni dei disabili, e portatori di interessi.
Sono stati fatti numerosi incontri per dare la più ampia diffusione e condivisione delle decisioni ma il percorso non si è ovviamente concluso: si tratta del primo passo, propedeutico ad un percorso che a detta dei politici locali, richiederà almeno dieci anni per la sua realizzazione !! Tempi quindi molto lunghi per chi aspetta ormai da molti anni, ma almeno una speranza.
Vivere in un ambiente rispettoso delle necessità di tutti fa la differenza tra una qualità della vita dignitosa e l’abbandono, tra l’integrazione nella società e l’isolamento, tra l’opportunità di godere dei propri diritti e il rimpiangerli.
Questo auspicio per una città accessibile che tenga veramente conto dei diritti di tutti è la mia “letterina di Natale” alla fine di un anno terribile che ci ha messo tutti a dura prova!!
BUONA SALUTE E BUON NATALE A TUTTI !!
- Autore/rice Rita Rambelli
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Ci siamo chiesti in cosa siamo cambiati dopo questa esperienza devastante ed inattesa dell’epidemia mondiale da COVID19? Se solo 8 mesi fa qualcuno ci avesse detto che sarebbe arrivata un’epidemia mondiale che avrebbe messo a dura prova la nostra salute ed anche la nostra vita, quella dei nostri cari e di tanti altri in tutto il mondo, avremmo risposto con un gesto scaramantico ed incredulo, eppure tutto questo è successo e continua a succedere e molte cose sono cambiate fuori e dentro di noi.
Secondo quanto rilevato dalla ricerca presentata in questi giorni a Milano dalla Associazione Nazionale delle Cooperative dei Consumatori Coop, gli italiani hanno vissuto il periodo del lockdown come in una bolla, aggrappati ai confort domestici e agli affetti familiari dove l’ultima spiaggia di consolazione delle restrizioni è stato il “cibo” e abbiamo riscoperto le regole dei nostri nonni, le 3R: risparmio, rinvio e rinunce.
Il Covid ha avuto sugli italiani l’effetto di una macchina del tempo trasportandoli avanti e indietro con molta rapidità rispetto alla normale evoluzione dei cambiamenti sociali. Da una parte abbiamo visto e ne abbiamo fatto parte, l’Italia delle rinunce, con l’arretramento della ricchezza pro-capite ritornata ai livelli di metà anni ’90 e la spesa in viaggi trascinata indietro di 45 anni, ai livelli del 1975, quando pochi progettavano vacanze fuori dai confini italiani.
Dall’altra parte c’è stata invece un’Italia che balza in avanti di 20 anni, velocizzando dinamiche in parte già esistenti, ma che non sarebbero mai cresciute così velocemente come in questi ultimi mesi. E’ questa l’Italia dello smartworking (+770% rispetto a un anno fa), dell’e-grocery, cioè della spesa quotidiana on-line (+132%), ma anche l’Italia della digitalizzazione a tappe forzate, non solo nella sfera privata ma finalmente anche nelle attività professionali (lavoro appunto ma anche didattica, servizi, sanità, video conferenze, ecc.) che genera una crescita stimata di questo segmento di mercato pari a circa 3 miliardi di euro tra 2020 e 2021.
Il fatto però di vivere in un mondo digitale ha come conseguenza che viviamo in un mondo chiuso e spesso autoreferenziale, come si dice “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli..!!
L’elemento forse più insidioso però di questa situazione è che il restare prigionieri di situazioni sociali e informative chiuse ed autoreferenziali, diventa terreno fertile per l’informazione di parte e la proliferazione delle fake news e con l’esplosione nell’uso dei social. Il dilagare della fruizione di contenuti “on demand”, l’assenza di un confronto sociale ampio, sono elementi che coinvolgono e coinvolgeranno una parte sempre più ampia della popolazione.
Tutto si svolge tra le mura domestiche piuttosto che altrove, ci si nutre in casa e si va meno al ristorante (il 41% degli intervistati prevede di ridurre la spesa prevista nel prossimo anno alla voce ristoranti), ci si diverte e si incontrano amici e familiari o a casa propria o a casa loro, ritornando ad antiche abitudini che appartengono ai ricordi di chi di noi ha spento più candeline anche perché adesso abbiamo ricominciato a festeggiare i compleanni in casa e non più al ristorante, accontentandoci di condividere le foto della torta e gli auguri con gli amici di Facebook o di Twitter.
Nel caso poi dovessero mancare affetti familiari ci si adopera per riempire il vuoto: dai sondaggi risulta che 3,5 milioni di italiani durante il lockdown o subito dopo, hanno acquistato un animale da compagnia e 4.3 milioni pensano di farlo prossimamente. Magari anche perché portare a spasso il cane era una delle poche attività consentite..!
La casa come salvagente a cui tenersi stretti fa il paio con un’altra costante che distingue ancora nel postcovid gli italiani dagli altri cugini europei: l’amore per il cibo, forse l’unica cosa a cui, anche nell’emergenza e in una evidente contrazione generalizzata degli acquisti, gli italiani non rinunciano.
La preparazione domestica dei cibi è probabilmente anche la nuova strategia di molti per non rinunciare alla qualità e contemporaneamente alleggerire il proprio budget familiare. Le trasmissioni di cucina sulle Tv e sul web, sono sempre più seguite e molti di noi hanno rispolverato le vecchie ricette delle nonne, compreso il pane, i biscotti o la pizza, tanto che c’è stato un periodo in cui non si trovava più il lievito di birra nei supermercati. Chi l’avrebbe detto sei mesi fa che avremmo dimenticato di fare colazione con il Mulino Bianco….!!
- Autore/rice Rita Rambelli
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La situazione generata dal covid-19 ci costringe a un profondo ripensamento anche sul gioco e sulla sicurezza sanitaria per i bambini e per chi, come i nonni, sostituisce spesso i genitori nel periodo estivo in cui le scuole sono normalmente chiuse.
Il progetto di comunità “Oasi 31” del Comune di Ravenna, intende sostenere il percorso di riapertura dei servizi e dei contesti ludico-ricreativi estivi per bambini/e e ragazzi/e dai 3 a 13 anni su tutto il territorio del Comune di Ravenna.
Nella consapevolezza del valore intrinseco di questo impegno, particolarmente in questo fragile momento storico, economico e sociale, tali servizi sono considerati come misure volte alla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro per le famiglie, ma anche e soprattutto come occasione per ribadire i diritti che tutti i bambini/e e i ragazzi/e hanno di giocare, sperimentarsi, muoversi e vivere esperienze di comunicazione e di socialità in spazi adeguatamente pensati.
L’articolo 31 della Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza riconosce e promuove tali diritti; questo progetto, che richiama l’Oasi come ambiente resiliente che si oppone alle intemperie e alle condizioni sfavorevoli di ciò che lo circonda, vuole rimettere questi diritti al centro degli impegni dell’intera comunità educante.
In quest’ambito molte organizzazioni del territorio ravennate si sono attivate per realizzare iniziative di gioco e di spettacolo dedicate ai bambini fino ai 10-12 anni
Utilizzando al meglio gli spazi verdi della città.
Tra questi c’è l’Associazione di promozione sociale Amata Brancaleone, di cui sono al momento la Presidente, che ha organizzato nel parco pubblico della Rocca Brancaleone un calendario di giochi ed eventi che si svolgeranno tutti i venerdì pomeriggio da metà luglio a metà settembre. (vedi calendario allegato )
Per garantire il distanziamento tra i bambini durante gli spettacoli, saranno utilizzati come segnaposto sul prato degli Hula Hoop e in caso di tempo umido saranno distribuiti anche dei teli plastificati usa e getta per evitare il contatto con il terreno.
Per le iniziative di gioco saranno utilizzati tavoli sanificati con un numero limitato di bambini, da 2 a 4 a seconda del tipo di attività e della dimensione del tavolo, opportunamente distanziati e con le mascherine per i più grandi.
Tra le iniziative di gioco si svolgeranno anche dei Tornei con il Gioco di Sir Brancaleone, che per rispettare le regole legate alla sicurezza sanitaria, avranno un Regolamento particolare:
1) Il gioco di SIR BRANCALEONE si rifà al classico gioco dell'Oca formato da un percorso da completare affidandosi unicamente alla propria fortuna per raggiungere la casella di Arrivo.
2) Il tabellone su cui è stampato il gioco che misura cm 70x50, sarà sempre nuovo di stampa, e per garantire il distanziamento potranno giocare solamente due bambini alla volta per ogni tabellone.
3) Al posto dei classici dadi, il numero per avanzare sul percorso, sarà la somma delle dita di 1 mano dei 2 giocatori.
4) Ogni giocatore deve utilizzare come propria pedina un piccolo oggetto trovato direttamente nel parco: un fiore, una foglia, un sassolino, ecc.
5) Inizia il gioco il giocatore più giovane di età.
Le caselle del Gioco, realizzato ad hoc per garantire la produzione in esclusiva, sono rappresentate da immagini tratte dalla Festa Medievale che si organizza ogni anno alla Rocca Brancaleone e da scorci della Rocca Brancaleone stessa.
Il gioco, realizzato su cartoncino, sarà regalato ai singoli giocatori che potranno giocare a casa anche con altri amici. (si allega immagine del Gioco di Sir Brancaleone)
- Autore/rice Rita Rambelli
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Long-Term Care è il primo studio europeo che mette a confronto i vari Stati sulle politiche dei governi nel sostenere i diritti delle persone anziane con bisogni di assistenza e sostegno. I risultati di questa ricerca sono illustrati nel rapporto “From disability rights towards a rights-based approach to Long-term care in Europe, Building an index of rights-based policies for older people”.
Dai principali risultati emersi si evidenziano e si confermano le criticità dell’Italia in questo settore. L’unico ambito in cui otteniamo il punteggio massimo è la “libertà di decisione e di movimento” ma sinceramente non condivido fino in fondo questa valutazione perché ritengo che le difficoltà economiche di molte famiglie in Italia condizionino molto la libertà di scelta sulla qualità della vita delle persone anziane.
L’Indice dei diritti delle persone anziane (ROPI)
L’Indice dei diritti delle persone anziane (ROPI) è una misura composita multidimensionale organizzata in domini (box 1) che esaminano il quadro giuridico e politico dei vari paesi nonché i meccanismi di attuazione volti a garantire il rispetto dei diritti delle persone anziane.
Nei risultati complessivi per il ROPI – espressi in categorie numerate da 1 a 3, dove a numero più alto corrispondono standard migliori (tabella 2) – la Svezia raggiunge il punteggio indice più alto (2.2). La Finlandia si posiziona al secondo posto, leggermente in vantaggio rispetto a Slovenia, Irlanda e Austria. La Polonia ha il punteggio più basso (1.8). In particolare, nessuno dei paesi appartiene alla fascia di punteggio più alta (2.6-3.0) o più bassa (1.5-1.0) e anche la variazione tra i punteggi dei paesi è contenuta (tra 2,2 e 1,8 nell’indice complessivo). È interessante notare che non vi è alcun raggruppamento geografico evidente nei risultati della classifica generale.
Tabella 2 – Risultati complessivi per il ROPI per i 12 paesi partecipanti
Dai risultati del ROPI si evidenziano margini di miglioramento nella maggior parte dei paesi. Le possibilità di miglioramento sembrano essere maggiori, in media tra i paesi, per i domini IV (Vita, libertà, libertà di movimento), V (Privacy e vita familiare), IX (Standard di vita adeguato), e X (Reclami e risarcimenti).
La posizione di arretratezza dell’Italia nel ROPI
Nei risultati complessivi per il ROPI (Indice dei diritti delle persone anziane) l’Italia mostra un punteggio medio di 1.8, collocandosi all’11° posto su 12 dei paesi indagati. Lo studio evidenzia le debolezze e le criticità dell’Italia nella maggior parte delle aree esaminate dallo strumento, strettamente connesse ai diritti all’assistenza da parte delle persone anziane non autosufficienti.
Più precisamente, l’Italia evidenzia le peggiori performance al ROPI nei domini inerenti la libertà di scelta (specificatamente alla possibilità di scelta dei gestori di assistenza e a tutto il tema delle Disposizioni Anticipate di Trattamento), il mantenimento dei legami familiari, soprattutto in riferimento a leggi che favoriscano il mantenimento dei legami familiari anche durante l’assistenza e le politiche di informazioni sui diritti delle persone anziane e sulla tutela degli stessi. Non solo, anche le aree inerenti la tutela da abusi e maltrattamenti, la libertà di pensiero e di espressione, il livello di salute garantito, con preciso riferimento alle politiche di Long-Term Care e la garanzia di un adeguato standard di vita, soprattutto in relazione al supporto abitativo protetto, risultano per l’Italia tutte aree deboli al ROPI.
Il tema della partecipazione e dell’inclusione sociale così come l’area relativa alla parità di accesso ai servizi di assistenza, siano essi domiciliari, semiresidenziali o residenziali risultano essere sufficientemente garantite ma, da osservare e monitorare. L’Italia mostra invece un ottimo risultato nella regolazione all’utilizzo delle contenzioni, fisiche o chimiche.
Il Quadro Di Valutazione Degli Indicatori Di Risultato: il quadro di sintesi
Il Quadro di valutazione degli indicatori di risultato misura le prestazioni del paese in termini di risultati effettivi, vale a dire i risultati raggiunti nell’adempimento dei diritti fornendo, quindi, una visione d’insieme del rispetto dei diritti nella realtà.
Svezia e Finlandia (quest’ultima nonostante i valori mancanti) ottengono i risultati migliori tra i paesi inclusi nel quadro di valutazione, in quanto presentano il numero più elevato di indicatori con valori “buoni ma da monitorare”. Il Quadro di Valutazione degli indicatori di risultato mostra, per quasi tutti i paesi, risultati più positivi rispetto al ROPI. Nonostante, ad esempio, gli scarsi risultati in termini di accesso alle cure a lungo termine per molti paesi, l’opinione degli anziani sulla qualità dei servizi di assistenza nel loro paese è comunque positiva. ( Tabella 13)
Tabella 13- I domini e gli indicatori del quadro di valutazione sull’indicatore di risultato
In conclusione, il gruppo di ricerca evidenzia la necessità di disporre di maggiori dati sugli indicatori chiave per sopperire alle attuali lacune, allo scopo di migliorare le conoscenze sull’effettivo rispetto dei diritti delle persone anziane ed adottare politiche di Long-Term Care adeguate per garantirne la tutela.
Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento vi allego il link per leggere l’intera relazione ma vi anticipo la sintesi dei risultati.
https://www.luoghicura.it/dati-e-tendenze/2020/06/long-term-care-e-diritti-degli-anziani-in-europa-italia-debole/
- Autore/rice Rita Rambelli
- Categoria: Oltre l'età di Rita Rambelli
L’obbligo di restare in casa ha destrutturato la nostra routine e soprattutto quando si vive da soli gli effetti dell’ansia e della preoccupazione si fanno sentire in modo crescente, perché le occasioni per confrontarsi e sfogarsi con qualcun altro sono inferiori a quelle di chi magari vive in una famiglia. Questa pandemia ci ha spiazzati modificando le nostre abitudini personali e professionali obbligandoci a lavorare con nuove metodologie e in molti casi obbligandoci ad imparare l’uso di sistemi che pur sapendo che esistevano no avevamo sentito il bisogno di usarli (Skype, zoom, WhatsApp, ecc.) perché potevamo incontrare le persone. In molti casi aumenta il livello di ansia di fronte all’incertezza e alla paura, oltre che della malattia, anche delle conseguenze sociali ed economiche che inevitabilmente sappiamo che arriveranno.