Quando si entra in una struttura sanitaria si è necessariamente in uno stato di debolezza, di grande fragilità e si pretenderebbe di essere trattati con comprensione e rispetto, ma non è sempre così.
Potrei raccontare molte storie in proposito, ma mi limiterò a un paio di episodi.
Mio marito ha avuto un infarto a 47 anni e da allora ha dovuto spesso essere ricoverato per accertamenti, coronarografie con angioplastica, inserimento di pace-maker…. Sono così passati molti anni e a un certo punto arrivò anche il cancro a complicare ulteriormente la nostra vita, perciò ci fu l’operazione, la radioterapia , altre cure infinite, ……
All’epoca dei fatti che vado a raccontare era perciò un malato oncologico, anziano e cardiopatico. Nel reparto di cardiologia dissero che si doveva fare di nuovo una coronarografia per cercare di “liberare” un tratto di coronaria.
Il giorno dell’intervento, io aspettavo in un corridoio attiguo alla stanza in cui veniva effettuato l’intervento, che normalmente richiede tempi molto ridotti. Quella volta invece mio marito non usciva più e non riuscivo ad averne notizie. Quando finalmente poté tornare in reparto, raccontò che l’inesperto dottore cui era stato affidato, si era trovato in difficoltà e non riusciva più a estrarre il catetere con cui stava esplorando una coronaria “rinsecchita” da molti anni (così ci fu spiegato l’accaduto). Il medico aveva chiesto aiuto e solo molto in ritardo arrivò il primario del reparto a risolvere la situazione.
Se quell’intervento avesse dovuto essere effettuato su una persona ancora giovane, sarebbe stato affidato a un principiante o ad esso si sarebbe per lo meno affiancato un operatore più esperto? Che motivo c’era di fare quell’intervento, se non quello di usare come cavia una persona chiaramente in fase terminale?
Il giorno dopo, entrando in reparto, sentii l’inconfondibile voce di mio marito che urlava a più non posso : la sua stanza era piena di medici che lui stava insolentendo per le sofferenze inutili cui era stato sottoposto e subito dopo firmò e si fece dimettere.
Molti anni prima ero entrata in sala di rianimazione dove era ricoverato un parente tetraplegico , che stava soffrendo per un’infezione polmonare. Non riusciva più a parlare chiaramente, ma continuava a cercare di farmi capire qualcosa: guardava il cassetto del suo comodino e articolava con fatica una parola che poteva essere “portafoglio”. Aprii il cassetto e gli dissi che non c’era nessun portafoglio e che forse era rimasto nel comodino vicino al letto del reparto da cui proveniva. Così andai a chiedere notizia agli infermieri; infine riuscimmo a capire che qualcuno gli aveva sottratto il portafoglio, che poi ci venne restituito, dal responsabile del reparto naturalmente privo di soldi. Ci fu anche indicato il nome dell’infermiere che si era macchiato di questo abuso.
Dopo qualche giorno quel parente morì e tra le sue cose che riportammo a casa, trovammo una cassetta, registrata forse con l’aiuto di qualche compagno di stanza: in essa Saro, questo era il suo nome, raccontava tutte le angherie cui era sottoposto da parte di un infermiere, che pretendeva continuamente soldi per fare ciò per cui già percepiva uno stipendio.
C’è abiezione peggiore che approfittare dello stato di inferiorità di un malato e infliggergli sofferenze aggiuntive a quelle già abbondantemente elargite da una sorte maligna?