Nell’avvicinarsi della “Giornata della Memoria” molte sono le occasioni che ci vengono offerte per riflettere su quanto è accaduto nel cuore dell’Europa nel corso del XX secolo appena trascorso.
È nell’ambito di queste proposte che qualche giorno fa ho rivisto un film ungherese del 2005 che racconta le vicende di un ragazzo di Budapest durante la Seconda Guerra Mondiale.
Gyuri è un ragazzino ebreo, che vive serenamente con la sua famiglia fino al giorno in cui suo padre riceve l’ordine di presentarsi per essere trasferito in un campo di lavoro. In quel momento di sconcerto e di smarrimento nessuno pare comprendere bene il significato di questa “chiamata”: accanto a chi pronostica, giustamente, le cose peggiori ricordando quanto era avvenuto in Polonia, c’è anche chi ironizza su questi timori dicendo che è assurdo ipotizzare sviluppi funesti.
È così che Gyuri darà l’ultimo abbraccio a suo padre che non tornerà mai più dalla sua famiglia.
Qualche tempo dopo, mentre Gyuri si reca al lavoro a bordo di un autobus, viene fatto scendere forzatamente in piena campagna perché porta la stella gialla sul petto. Insieme a lui molti altri ragazzi subiscono la stessa sorte. Nessuno sa il perché di questo fermo di polizia e tutti restano in angosciosa attesa di ordini: verranno inviati nei campi di lavoro.
Contrariamente a quanto accade ai suoi giovani compagni di sventura, Gyuri riesce a superare la selezione che avviene all’arrivo ad Auschwitz, dove un terribile miasma dolciastro ammorba l’aria, poi da lì viene portato in altri campi dove conosce tutto l’orrore della schiavitù e della barbarie: i prigionieri vengono sottoposti a lavori estenuanti, scarsa nutrizione, mancanza di igiene, lunghe soste sotto la pioggia e al gelo. Gyuri, con l’aiuto di un adulto suo concittadino, detenuto da tempo, impara presto alcune strategie per sopravvivere, ma poi un’infezione a un ginocchio e la vita di stenti lo portano sull’orlo di una fossa comune, da cui verrà salvato all’ultimo momento dall’arrivo degli americani.
Gyuri viene rifocillato e può intraprendere il cammino per tornare a casa, ma non trova più la sua famiglia; i vicini lo accolgono, ma restano molto infastiditi dalle sue domande su quanto è successo e presto lo invitano ad andarsene dalla madre, unica superstite.
Sono le sequenze finali del film quelle che più invitano a riflettere: Gyuri pare dire che non è da attribuire al destino quanto è accaduto in quegli anni, ma alla sottovalutazione di segnali inequivocabili anche da parte degli stessi ebrei e all’inerzia e all’indifferenza di chi voltava la faccia per non vedere e non sentire.
Anche nel “DIARIO” di Etty Hillesum, leggevo con incredulità come le chiamate ai campi di lavoro fossero accettate senza troppe ribellioni. Si può arrivare, in un mondo dai valori stravolti, a far sembrare “normale” ciò che è aberrante? Come si poteva accettare di vedere dei concittadini costretti a identificarsi come minoranza sgradita per mezzo di una stella sui vestiti? Come si poteva accettare che dei bambini venissero allontanati dalla scuola o che persone adulte perdessero il lavoro in base alla loro etnia? Come si poteva accettare di veder scomparire tante persone e non chiedersi cosa fosse accaduto?
A prima vista sembra inspiegabile, ma poi sappiamo benissimo che anche oggi il mondo assiste indifferente a tanti orrori: la guerra in Yemen, in Siria, in Afghanistan, in Cecenia, le stragi ricorrenti in certi paesi africani, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri (anche qui da noi), migranti inghiottiti dal mare o costretti a vivere all’addiaccio in pieno inverno ai confini dell’Europa, i bambini soldato, i bambini “di strada”, la morte per fame e per malattie banali di tanta gente nei paesi più poveri …. e noi cosa facciamo?
Nel migliore dei casi, cerchiamo di far tacere la nostra coscienza sostenendo questa o quella organizzazione umanitaria, ma più spesso continuiamo a fingere di non sapere accontentandoci del nostro quieto vivere.
Concludo queste righe, ricordando che anche a Fossoli, vicino al mio paese natale ci sono ancora le baracche del campo di concentramento in cui venivano rinchiusi gli ebrei, in attesa del trasferimento in Germania o altrove. Cinquemila persone transitarono dal campo di Fossoli e la gente assisteva indifferente...
Da lì partì anche Primo Levi, che ricordando quei giorni scrisse questa poesia:
Il tramonto di Fossoli
Io so cosa vuol dire non tornare
A traverso il filo spinato
ho visto il sole scendere e morire;
ho sentito lacerarmi la carne
le parole del vecchio poeta:
"Possono i soli cadere e tornare:
a noi, quando la breve luce è spenta,
una notte infinita è da dormire"
P. Levi