Nell’ambito di una iniziativa volta a far meglio conoscere la nuova legge sul testamento biologico, i circoli culturali cittadini hanno proposto la visione del film "Ogni tuo respiro".
E’ la storia vera di Robin Cavendish, portata sugli schermi per volontà di suo figlio, oggi produttore cinematografico.
Robin aveva avuto tutto dalla vita: salute, bellezza, forza fisica, ricchezza e una moglie bellissima, ma la poliomielite di colpo fa di lui un tetraplegico, che necessita di un respiratore per continuare a vivere. Lui vorrebbe solo morire, ma sua moglie, che nel frattempo gli ha dato un figlio, lo convince a lasciare la struttura ospedaliera in cui è ricoverato e a tornare a casa per vedere crescere suo figlio.
Qui comincia una vita nuova, assistito dalla moglie, da tutti i familiari e dagli amici; tra questi ce n’è uno capace di allestire una carrozzina munita di batterie per azionare il respiratore e Robin può lasciare la sua stanza, uscire in giardino, andare in auto e viaggiare in aereo. Può così intraprendere una battaglia in favore dei tanti tetraplegici, che, nel mondo, sono costretti a una vita ospedalizzata lontani dal proprio mondo e dai propri affetti.
Nonostante il tema trattato sia tutt’altro che leggero, il film non è assolutamente pervaso da atmosfere angoscianti, anzi un leggero "sense of humour" tutto british affiora spesso qua e là e strappa qualche sorriso. Se questo per certi versi può essere definito uno dei pregi del film, d’altra parte però ne costituisce anche il limite: chi ha vissuto esperienze simili lo sa bene.
Rosario, detto Saro, era uno dei tre fratelli di mio marito. Quando l’ho conosciuto, aveva circa 35 anni ed era già da tempo costretto in una carrozzina per una malattia che lo aveva colpito alla colonna vertebrale. Anche lui, come Robin, era stato un bel ragazzo, brillante, dinamico pieno di spirito di iniziativa, tanto che aveva intrapreso più di una attività commerciale; poi la malattia aveva stravolto la sua vita e quella della sua famiglia. La sua iniziale paraplegia, si trasformò addirittura in tetraplegia e aveva bisogno di cure continue. La famiglia, padre e madre in primis e poi anche i fratelli compatibilmente con gli impegni di lavoro, riuscirono a lungo a far fronte alle sue necessità, poi i fratelli si sposarono, i genitori invecchiarono precocemente e si ammalarono per il dolore e la fatica.
Si doveva trovare un’istituzione che lo ospitasse, ma allora (quarant’anni fa) c’erano solo cronicari in cui Rosario non voleva stare: lui era sì tetraplegico, ma era lucidissimo, intelligente e non poteva sopportare di vivere nella desolazione di quei luoghi in cui si sarebbe potuto trovare all’ingresso la scritta dantesca “lasciate ogni speranza, voi che entrate”. E non bastavano a lenire il tormento le frequenti visite dei familiari, che sacrificavano ore di riposo e giorni festivi.
In una di quelle strutture, Rosario si trovò anche a dover sottostare ai ricatti di infermieri che gli chiedevano soldi o oggetti di vario genere in cambio dei servizi di cui necessitava.
Poi entrambi i genitori morirono e forse Rosario, dopo 17 anni di sofferenze, non trovò più nessuna motivazione per continuare a vivere e, così raccontò il personale sanitario, un giorno d’inverno si espose a lungo al freddo nei corridoi della struttura ospedaliera in cui si trovava e la polmonite che ne seguì gli fu fatale.
Il film mi ha ricordato quegli anni in cui, pur prodigandoti in ogni modo, avevi sempre la certezza di fare troppo poco e questo riempiva ogni istante di inevitabili sensi di colpa.
Se Rosario fosse stato ricco, come il protagonista del film, forse avrebbe potuto vivere meglio il suo lungo calvario: se i soldi non danno la felicità, è però certo che possono rendere meno infelice chi può permettersi di sopperire con molti mezzi ai limiti impostigli dalla disabilità.