Avendo già parlato in questo blog di mia madre, mi pare giusto ricordare, in questo mese di agosto in cui avrebbe compiuto 111 anni, anche mio padre.
A lui sono grata per le ore in cui, da piccola, mi teneva sulle sue ginocchia, insegnandomi a giocare a briscola, a rubamazzetto o a fare i solitari, mentre mia madre era indaffarata a preparare la cena. Altre volte invece si metteva a raccontarmi dei ricordi della sua vita passata o a raccontare delle favole, ma queste erano sempre le stesse storie strampalate che lui raccontava ridendo ... forse in quei momenti si divertiva più di me...
Più che parlare di lui, della sua persona, voglio soffermarmi sulla sua passione per i colombi prima e per i canarini poi.
Era un bravissimo allevatore di colombi e, in primavera, partecipava coi suoi esemplari più quotati e più pregiati alle gare organizzate dall’associazione colombofila.
Un paio di giorni prima, gli uccelli, che lui riteneva più in forma, venivano messi in una gabbia e portati alla sede dell’associazione, che provvedeva alla spedizione via treno dei “viaggiatori” e a tutte le formalità connesse. Ricordo che una volta come destinazione finale sentii parlare della città di Otranto, che per me, che non conoscevo ancora la geografia, assunse quasi un fascino esotico.
Poi la domenica mattina cominciava l’attesa; mio padre chiedeva anche la nostra collaborazione per sorvegliare il tetto della colombaia e avvertire subito, quando fosse comparso il suo “campione”.
Io, in quei momenti, immaginavo quei coraggiosi piccoli uccelli sorvolare montagne, pianure e città volando instancabilmente e trovare quasi per miracolo la via di casa, proprio la nostra.
Eravamo tutti in attesa con lo sguardo fisso in alto. Quando finalmente il colombo si posava sul tetto della colombaia, che potevamo tenere d'occhio dalla cucina, cominciava il momento di maggiore sofferenza, perché per poter testimoniare il suo arrivo e rivendicare la vittoria, bisognava sfilargli dalla gamba l’anello di riconoscimento, ma questo al colombo a volte sembrava non interessare proprio e sostava sulla grondaia a lungo, andando avanti e indietro forse per rilassarsi dopo tante ore di volo.
Intanto però mio padre diventava più nervoso e ci imponeva non solo il silenzio, ma direi anche l’immobilità per non disturbare con qualche rumore il rientro in colombaia del suo “campione”.
Quando avveniva il rientro, ecco che mio padre si precipitava a sfilare l’anello di riconoscimento e a bloccare l’apposito orologio, che doveva testimoniare l’ora di arrivo.
Ricordo che vantava parecchie vittorie e molti nei dintorni ricorrevano ai suoi consigli su come ottenere dei veri campioni.
Poi ci trasferimmo in una casa nuova, più moderna e non era più possibile allestirvi una colombaia, perciò mio padre prese ad allevare canarini.
Ne aveva moltissimi nelle gabbie e li curava per molte ore ogni giorno. Era diventato un vero esperto, tanto da vincere dei premi nei concorsi indetti da associazioni varie.
Ricordo quando, armato di stuzzicadenti, imboccava i piccoli appena nati, se la loro mamma, cresciuta in gabbia, non era in grado di occuparsene. Riusciva a salvarli: da esserini poco più grandi di un bruco, diventavano via via graziosissimi uccellini canterini. E lui spesso restava lì seduto ad ascoltare quei canti.
Quando, ormai vecchio, non riuscì più a occuparsi di loro, dovette rinunciare alla sua passione per quegli uccellini che gli avevano fatto tanta compagnia, ma quando la malattia cominciò a devastare il suo cervello, la cosa che più lo ossessionò per un lungo periodo fu quella di non trovare più i suoi canarini né le sue gabbie e angosciosamente andava alla loro ricerca dentro casa e fuori, per le vie del paese...