Pensando a mia madre…
Nei prossimi giorni ricorrerà il 17° anniversario della morte di mia madre e in questi giorni mi capita spesso di pensare a lei.
Suo padre, che era sopravvissuto alla vita di trincea, ai cannoni austriaci, ai cecchini, a Caporetto, era tornato a casa in licenza dopo la firma dell’armistizio: era felice perché la guerra era finita e lui a breve sarebbe potuto tornare a casa definitivamente.
Mia madre, che non aveva ancora 9 anni, lo vide per l’ultima volta andarsene da casa fischiettando, mentre salutava lei e i suoi fratelli, con la gioia di chi sa che i tempi duri e bui stanno per terminare. Era ancora molto giovane, ma questo non impedì alla famigerata epidemia di "spagnola" di stroncarlo in pochi giorni e la notizia arrivò come un fulmine a ciel sereno.
Da quel momento per mia madre, che era la maggiore dei quattro figli già nati, mentre l’ultima era in arrivo, finì la fanciullezza e cominciò la vita dura: non poté più andare a scuola e dovette lavorare nei campi e nella fattoria di proprietà del nonno materno insieme al fratello poco più piccolo di lei.
Crescendo, aumentarono gli impegni di lavoro, ma questo non spense la sua passione per il ballo e per la musica. Raccontava sorridendo di quanto fosse bravo suo fratello come ballerino e dell’ammirazione che riscuotevano quando ballavano in coppia nelle balere improvvisate sull’aia, nelle sere che seguivano la mietitura o la raccolta del granturco
Poi conobbe mio padre e si sposarono: erano molto poveri, ma tutti e due si rimboccarono le maniche e riuscirono a mantenere sempre dignitosamente la famiglia che via via si allargava. Mio padre andava per mercati, mia madre lavorava nelle fattorie vicine per la vendemmia o la mietitura o per la raccolta delle mele o del mais. Questi lavori naturalmente si aggiungevano alle fatiche di mandare avanti una famiglia con cinque figli: alzarsi all’alba per accendere la stufa, fare la pasta in casa, fare il bucato a mano, attingere l’acqua al pozzo, ecc. Eppure non credo di averla mai sentita lamentarsi.
Quando sua madre fu colpita da ictus, la assistette per 15 anni con amore e rispetto e lo stesso fece poi quando mio padre si ammalò di Alzheimer: lei era allora ormai ottantenne, ma non si arrese e gli fu accanto, per sette anni, fino all'ultimo respiro.
È stata una donna come tante, ma con un’attenzione particolarissima per la sofferenza e per la cura di ogni vita, sia quella che sbocciava, sia quella che era ormai al tramonto.
Non è mai andata dalla parrucchiera, non si è mai truccata, non ha mai speso molto per sé. Ricordo che un’estate, per la prima volta, avevo guadagnato un po' di soldi con le lezioni private e, avendo notato che da parecchio non aveva più la borsetta, andai nel negozio del paese, da Braglia, e gliene comprai una. Non era molto bella, ma lei l' ha poi sempre conservata.
Negli ultimi anni della sua vita, quando l' accompagnavo al cimitero, mentre passava dinanzi alle tombe di chi aveva conosciuto, salutava ognuno di loro a voce alta e citava per ognuno un ricordo, poi aggiungeva: “Presto arriverò anch' io... ", ma lo diceva con dolcezza, come chi si è già distaccato dalla vita senza rimpianti e senza paura.
Mi telefonava spesso e quando alzavo la cornetta sentivo la sua voce che mi chiedeva di me, della mia famiglia e mi teneva al corrente di ciò che era capitato nel clan familiare. Per molto tempo, dopo la sua scomparsa, ad ogni squillo di telefono per un attimo pensavo fosse lei, ma subito mi rendevo conto che non l’avrei sentita dire, come sempre: “A son me, son la mama…”.