Io e il computer di Diana Catellani

Io e il computer di Diana Catellani

il blog di Diana Catellani

diana catellaniCome sarà successo a tanti, ho dovuto recentemente rottamare il mio vecchissimo televisore per acquistarne uno nuovo, tecnologicamente adatto alle nuove modalità di trasmissione televisiva.
E così, visto che la pandemia consiglia di limitare le proprie uscite, ho cominciato a collegarmi più spesso con RAIPLAY; in seguito, mia figlia ha condiviso con me il suo account su Netflix e io ne approfitto per collegarmi quando so con certezza che lei è occupata in altre faccende.
Così facendo, ho scoperto, con una certa sorpresa,di essere stata per molto tempo ostaggio di un pregiudizio: infatti ero rimasta tristemente impressionata dai film italiani riconducibili ai cosiddetti “cinepanettoni” e a quelle commedie abbastanza scollacciate interpretate da vari “comici”. Per questo, quando si trattava di scegliere un film classificabile “commedia italiana” o “comico italiano” o anche semplicemente “italiano”, passavo oltre più veloce di un lampo.
Ora mi sono convinta invece che c’è anche altro nel cinema nostrano e questo “altro” è infinitamente migliore di certa filmografia da me citata prima.
Il motivo di questo cambiamento di giudizio è da ritrovare nelle pellicole visionate in questi ultimi tempi e voglio parlare di alcune di esse che mi hanno particolarmente interessato.

LE CONFESSIONI: regia di Roberto Andò e tra gli interpreti Toni Servillo e Pierfrancesco Favino.
Si svolge in un resort di lusso dove sono convenuti per un summit le personalità più potenti del mondo, quelli che possono decidere i destini dell’umanità. Il motivo di quella convocazione non è noto, ma si sa che è molto importante. Tra gli invitati c’è stranamente un matematico fattosi monaco, Salus (Toni Servillo), molto apprezzato per i suoi scritti.
La notte prima del summit il governatore del fondo monetario mondiale convoca nella sua suite d’albergo il monaco e, dopo un intenso colloquio con quest’ultimo, si suicida.
Tutti convenuti precipitano nella confusione più totale e nel disorientamento e ad uno ad uno arrivano a confessare a Salus le loro miserie, i loro fallimenti, le loro insicurezze. Il summit non avrà luogo e Salus appare come colui che, pur essendo il più povero di tutti (dice di non possedere altro che il suo saio) è l’unico a saper dare un senso alla propria vita e a viverla con serena intensità.

MIO FRATELLO, MIA SORELLA: regia di Roberto Capucci , attori principali Claudia Pandolfi e Alessandro Preziosi.
Nel suo testamento, Giulio, un noto professore universitario, lascia la casa di sua proprietà ai due figli che non si vedono da venti anni. La loro coabitazione è difficile anche perché Tesla si sta a poco a poco annientando nell’accudimento del figlio (schizofrenico o autistico?). Chi soffre di più di questa situazione è la figlia di Tesla che da anni si sente del tutto ignorata dalla madre e coglie l’occasione per andare a vivere da sola nel camper che le ha lasciato il nonno.
La coabitazione forzata porterà a chiarire tante cose non dette tra fratello e sorella e alla fine riusciranno a ritrovarsi e a capirsi. Il finale del film è piuttosto nebuloso: sa di forzatura e pare affermare che la vita può tornare normale solo con la morte del ragazzo disabile e questo, se purtroppo è vero in tante situazioni, non è però accettabile.
Deve esistere un modo per consentire a chi ha persone disabili in famiglia di poter continuare a vivere, magari con il supporto di strutture di assistenza improntate al rispetto per la vita e per la dignità di ogni essere umano.

MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI: Regia di Stefano Cipani e tra gli interpreti Alessandro Gassman e Isabella Ragonese.
Anche questo film mette al centro il problema della disabilità, visto dalla parte di Jack, il fratello sano di Gio’, il bambino down. Se da piccolo Jack vive con entusiasmo l’arrivo di questo fratellino speciale, una volta diventato adolescente, sente sempre più la fatica di portarlo con sé, di accudirlo e il suo imbarazzo arriva al punto di dire ai suoi amici che, sì, ha avuto un fratello, ma ora è morto.
Questa bugia è solo la prima di una lunga serie e alla fine Jack non potendo più reggere questo gioco crudele, affronta la realtà e, con l’aiuto della famiglia tutta, riesce ad accettarla.
IL tema non è dei più semplici, ma viene sempre trattato con estrema sensibilità e delicatezza. Questa pellicola ha avuto molti riconoscimenti e credo che siano ben meritati.

Ho potuto vedere anche altri film italiani, magari girati con pochissima spesa (2/3 attori, ambientazione all’interno di una casa), ma questo non ha impedito di creare una storia coinvolgente e ricca di suspence.
Direi invece che il film di Sorrentino “E’ stata la mano di Dio”, tanto magnificato da alcuni critici, non mi ha coinvolto e penso che non sarà premiato agli Oscar dove rappresenterà l’Italia.
Il bello della vita è che c’è sempre qualcosa da imparare ogni giorno e io da poco ho imparato che la dicitura “film italiano” può segnalare ottimi film.

 

 

diana catellaniDiana UTEL’Università della Terza Età di Erba A.P.S. è una ricchezza per la città di Erba: da 27 anni ormai offre alla popolaziome adulta occasioni di incontro, di socialità, di aggiornamento culturale.
Riesce a coinvolgere decine di docenti preparatissimi nelle discipline più varie: dalla storia alla letteratura, dalla fisica all’economia, dal diritto alla psicologia, dalla filosofia alla medicina.
Il prestigio che la nostra UTE si è conquistata fa sì che sia frequentata anche da persone che provengono dai paesi circostanti.
Tutto andava per il meglio e la nostra associazione aveva ottenuto anche un meritatissimo riconoscimento da parte delle autorità cittadine, che le hanno conferito l’Eufemino d’oro, onorificenza riservata a coloro che hanno contribuito a dare lustro alla città.
Tutto andava per il meglio, dicevo, anche se la crisi economica aveva sensibilmente ridotto gli iscritti, perché molti anziani erano impegnati a dare una mano alle famiglie giovani nella cura dei più piccoli, ma poi è arrivato il COVID19….
Anche per l’UTE, come per tante altre associazioni, è stato come essere travolti da un uragano: l’impossibilità di ritrovarsi nella nostra sede abituale ha imposto da subito l’interruzione delle lezioni e di ogni altra attività (le prove del coro e della compagnia teatrale, i corsi di inglese e di pittura, le gite e le visite a mostre e musei). Per mesi abbiamo solo potuto tenere contatti telefonici coi nostri soci che, chiusi in casa, soffrivano la solitudine e rimpiangevano i momenti di serenità passati insieme.
Poi, ci siamo fatti coraggio e i volontari del Consiglio Direttivo si sono attivati per fare lezioni on line. Non è stato facile adeguarsi all’utilizzo delle tecnologie, ma con l’impegno di tanti si è riusciti a recuperare la maggior parte delle lezioni perdute. Purtroppo per molti anziani l’uso del computer o dello smartphone è ancora un tabù, non tanto perché non abbiano le capacità per servirsene, quanto per una immotivata paura di far brutte figure, di comnbinare guai, per una invincibile diffidenza per queste “diavolerie” moderne.
Contrariamente a quanto è accaduto alla maggior parte delle Associazioni analoghe, siamo riusciti a mantenere viva la nostra UTE e, grazie anche ai social, a farla conoscere anche a persone più giovani, che attraverso i collegamenti on line hanno imparato ad apprezzare la nostra offerta culturale.
Durante tutta l’estate, ci siamo lambiccati il cervello per trovare nuove sedi che consentissero la ripresa delle attività in presenza nel rispetto delle disposizioni anticovid (disponibilità dei posti al 50%), ma non si è potuto trovare niente di meglio che ipotizzare la divisioni in due gruppi degli associati, permettendo loro l’accesso in sede a turni alterni: il primo gruppo al martedì e la ripetizione della stessa lezione al venerdì per il secondo gruppo. Sarebbe stato difficilissimo gestire quella situazione: sarebbe stato possibile avere la disponibilità dei docenti, ancora impegnati nelle scuole, per due giorni a settimana?
Ci stavamo impegnando a esplorare questa possibilità quando ci è venuto incontro il governo, con la modifica delle disposizioni riguardo alla capienza delle sale per attività culturali: finalmente si sarebbe potuto ricominciare con una programmazione normale.
Ora l’UTE ha ripreso le sue attività. Per le disposizioni di legge, l’accesso è riservato ai possessori di green pass e dobbiamo registrare ogni volta le presenze; ciò comporta un notevole impegno, ma tutti sono contenti di poter ritrovare vecchi e nuovi amici.
Gli iscritti sono diminuiti molto perché purtroppo il COVID ha colpito molto duramente la popolazione anziana qui da noi, come ovunque, inoltre non potendo più assicurare locali idonei ai gruppi delle attività complementari (coro, teatro, inglese, pittura), molti dei partecipanti ad esse non si sono più iscritti all’Associazione. Tuttavia ci sono molti nuovi soci, si può dire che ci sia quasi un ricambio generazionale: ci sono più uomini di prima e più donne appena entrate in età pensionabile.
L’UTE di Erba ha avuto molti elogi da parte di docenti e autorità per essere riuscita a sopravvivere al COVID e a continuare con coraggio a offrire un punto di riferimento alla popolazione anziana del territorio.

diana catellaniÈ da poco finita una calda, lunga estate che ha visto il nostro paese impegnato a proseguire la lunga battaglia contro la pandemia intrapresa con l’arrivo dei vaccini.
Ora pare che il senso di responsabilità della maggior parte della popolazione italiana sia valso ad arginare i contagi, anche se il COVID19 non è certo stato ancora debellato.
Parrebbe logico pensare che, visti i risultati, fosse ormai universalmente accettata l’idea dell’efficacia dei vaccini che la scienza ci ha messo provvidenzialmente a disposizione, invece no…. Tanti continuano a rifiutarli e ritengono una violazione della loro libertà l’adozione del green-pass, così vediamo le piazze invase da gente che ipotizza chissà quali macchinazioni e quali oscuri complotti dietro la pandemia e dietro l’invito a vaccinarsi.
Tra questi, ormai universalmente definiti NO-VAX e NO-PASS, si mescolano dei facinorosi che approfittano di questa difficile situazione per infiltrarsi tra i dissidenti, aizzare la folla e compiere vandalismi e azioni di squadrismo che ci riportano con angoscia a episodi ben noti accaduti giusti un secolo fa.

Sapevamo tutti che l’autunno sarebbe stato un momento difficile: molte aziende non sono riuscite a sopravvivere al lockdown e molti posti di lavoro sono andati perduti e, anche se la ripresa pare più forte delle previsioni, certo non potranno subito essere riassorbiti tutti quelli che sono stati espulsi dal mondo del lavoro.
Per quelli che resteranno ai margini sarà un ben duro inverno…. Aumenterà il prezzo del gas e dell’elettricità, aumenta già vertiginosamente il prezzo delle materie prime ed è perciò ragionevole aspettarsi un consistente e generalizzato aumento del costo della vita, cosa che complicherà molto la vita anche di chi vive di pensione.

In questo quadro piuttosto inquietante c’è però uno spiraglio di luce: noi dell’UTE potremo riprendere tutte le nostre attività quasi normalmente, anche se dovremo portare le mascherine, esibire il green-pass, disinfettare le mani all’ingresso
e sottoporci alla misurazione della febbre.
È una gran gioia per tutti potersi ritrovare, scambiare un saluto e qualche parola gentile con vecchi amici e conoscenze recenti; ogni inizio d’anno è sempre stato una festa per noi, ma questa volta sarà ancora più bello: la lontananza forzata, il lungo isolamento ci hanno fatto apprezzare molto di più la possibilità e la bellezza di ritrovarsi: prima ci sembrava cosa normale, dovuta, ora ci appare come una preziosa opportunità per rendere più belli questi mesi bui e freddi che ci attendono.

 

diana catellaniAll’inizio dell’anno scolastico, anche noi nonni attendiamo con un pizzico di apprensione la riapertura delle scuole e coi nipoti partecipiamo ai preparativi e alle ansie legate alle incertezze che da sempre accompagnano l’inizio delle lezioni: si spera che i nostri nipoti sappiano impegnarsi in modo da superare le difficoltà dei programmi e soprattutto che sappiano stabilire buoni rapporti con i loro professori. Spesso quando si indugia in questi pensieri, la mente va ai tempi in cui anche noi andavamo ancora a scuola e aspettavamo di incontrare i nostri insegnanti o aspettavamo di conoscere quelli di nuova nomina. Nella scuola, da sempre, come in altri campi, è determinante il valore delle persone che si incontrano e che incrociano le nostre vite.
Già… gli insegnanti, i miei insegnanti…. Certo ormai saranno tutti nel mondo dei più, ma molti di loro vivono ancora, dopo oltre mezzo secolo, nei miei ricordi per quanto hanno saputo trasmettermi di amore per il sapere e di curiosità per il mondo attorno a me; con altri, invece, non sono mai riuscita a mettermi in sintonia con il loro modo di interpretare il loro ruolo e il loro ricordo è più sfuocato.
Il mio primo contatto con la scuola è stato abbastanza traumatico: non avevo mai frequentato la scuola materna e in casa si parlava solo il dialetto, perciò per me era difficile forse anche capire ciò che la mia maestra diceva. I primi giorni furono così tanto penosi che a un certo punto decisi che non sarei più tornata a scuola, visto che non sapevo fare nulla di quello che mi veniva richiesto. I miei avevano un bel dire che a scuola si andava proprio per imparare, ma per me era troppo umiliante non sentirmi in grado di tenere il passo con le mie compagne.
Una mattina puntai i piedi e mi ribellai con tanta forza che dovette intervenire mio padre, che, con uno sculaccione (l’unico che io abbia mai preso) pose fine alle mie proteste e, da quel momento, mi rassegnai al mio destino. Purtroppo, a rendere anche più ardua la mia situazione c’era anche il fatto che l’insegnante non sorrideva mai: aveva i capelli scuri ondulati come voleva la moda di quegli anni, aveva il rossetto sulle labbra, ma era pallida e non sorrideva. Solo più tardi capimmo il perché: una malattia latente la stava devastando e la portò a morire nel giro di pochi mesi; io ricordo ancora con quale angoscia partecipai, con tutte le mie compagne, a quel funerale sotto una pioggia battente in un freddo mattino di fine inverno.
Venne una supplente: era giovane, carina e molto dolce: non piansi più la mattina per andare a scuola e, anche se è rimasta con noi alunne solo qualche mese, l’ho sempre ricordata con affetto. Negli anni seguenti, quando la incontravo per le vie del paese, era sempre un piacere reciproco scambiare qualche parola affettuosa e qualche aggiornamento sulle nostre vicende.
Trascorsi i restanti quattro anni delle elementari con una maestra già esperta e innamorata della scuola che mi consentì di affrontare con profitto l’esame di ammissione alle scuole medie.
Fu lì, a Suzzara, che incontrai la professoressa di lettere che mi fece innamorare del latino: era alta e robusta, coi capelli corti, ricci e grigi non sempre perfetti e con lo sguardo severo dietro gli occhiali da vista; da tutta la sua persona emanava un’aria di autorevolezza tale che si era istintivamente portati ad ascoltarla con reverente rispetto. Le sue parole erano sempre misurate e le sue spiegazioni essenziali e puntuali: mi bastava ascoltarla per ricordare poi senza sforzo le sue lezioni. Alla fine del primo anno, l’ultimo giorno di scuola, appena entrata in classe, la sentii dire con mia sorpresa:- Catellani, venga alla lavagna (ci aveva sempre dato del lei)! -
Mi pareva strano: forse erano già stati fatti gli scrutini, perché questa interrogazione? La professoressa, con voce insolitamente dolce, mi fece fare qualche frase in latino alla lavagna, poi mi disse:- Mi raccomando, Catellani, continui sempre così!- e mi mandò al posto. Poco dopo ci disse che quello era il suo ultimo giorno di scuola e, dopo qualche raccomandazione di rito, accennò alle elezioni politiche che ci sarebbero state pochi giorni dopo: ce ne spiegò l’importanza per tutto il nostro paese e concluse dicendo:- Quando da grandi voterete ricordatevi di farlo in modo che sia possibile votare ancora una prossima volta e un’altra ancora..-
Forse allora non compresi fino in fondo il significato di quelle parole, ma intuii certamente che erano parole importanti, da scolpire nella mente e io non le ho mai scordate.
Fortunatamente fu sostituita da un altrettanto valido insegnante. Forse sulla quarantina, tempie brizzolate, sorriso timido e dolce, ma preparatissimo: convinse con le sue raccomandazioni i miei familiari a farmi proseguire gli studi e di questo gli sono sempre stata grata.
Alle superiori, si alternarono moltissimi docenti sulla mia classe della sezione G. Solo di alcuni ho un ricordo nitido.
Il prof. Amorth ci leggeva la Divina Commedia con grande trasporto: tutta la sua esile figura, quasi diafana, accompagnava la sua voce espressiva che ora declamava vibrante i versi del Sommo Poeta, ora li sussurrava con grande dolcezza alzando spesso lo sguardo per verificare se il suo uditorio dava segni di partecipazione.
Ricordo anche sempre con piacere don Mussini, l’ insegnante di religione: era entrato in classe, la prima volta, brandendo come un’arma un libretto intitolato: De tolerantia. E ci spiegò che il suo primo imperativo sarebbe stato sempre e comunque quello del rispetto delle idee di ciascuno. Credo che ognuno di noi alunni almeno una volta nei quattro anni di superiori si sia avvicinato alla cattedra per confidargli una pena, un dubbio, per chiedere un consiglio. Lui ascoltava sempre con serietà, con rispetto e rispondeva come avrebbe fatto un padre (o sarebbe meglio dire: come avrebbe dovuto fare un padre). Ed è per questo che alla cena post-diploma tutti gli abbiamo dedicato la canzone “O mein papà” suscitando in lui un sorriso in cui si leggeva un po’ di imbarazzo e un po’ di commozione.
Sono convinta che i ragazzi di tutti i tempi (anche quelli di oggi) abbiano sempre saputo riconoscere tra i loro insegnanti quelli che amavano il loro mestiere e non lo consideravano un triste ripiego per portare a casa uno stipendio non certo stellare.

diana catellaniAnche quest’anno il gruppo culturale cui appartengo si sta organizzando per realizzare una mostra.Scegliere il tema non è stato semplice.
Cosa poteva essere di interesse comune in un periodo di pandemia? Gli argomenti erano veramente tanti, ma volevamo scegliere qualcosa che coinvolgesse tutte le persone di tutte le età.
Discutendo tra di noi, a un certo punto è stata pronunciata la parola “scuola”….un attimo di riflessione ci ha fatto capire che poteva essere il tema giusto.
Nella vita di ognuno di noi il periodo in cui eravamo scolari/studenti è stato molto importante: in qualunque modo lo si sia vissuto, da studenti modello o da scalda-banchi, restano legati a quegli anni ricordi indelebili che hanno sempre l’alone dorato della nostalgia per la nostra giovinezza.
D’ altro canto, con la pandemia è stata sconvolta la nostra quotidianità, ma la scuola non è certo sfuggita alla bufera: l’imposizione del lockdown ha costretto gl’ insegnanti a inventarsi un nuovo modo di fare lezione, utilizzando tecnologie mai prima sperimentate.
Anche alunni e genitori hanno dovuto velocemente attrezzarsi con cellulari e computer e imparare a gestirli.
Tutti abbiamo percepito la fatica, e direi la sofferenza, di tutto il mondo della scuola e rendere omaggio ai sacrifici di operatori scolastici e ragazzi è sembrato un piccolo segno della nostra vicinanza. Il titolo che è venuto fuori quasi di getto è: “LA SCUOLA SIAMO NOI: dalla scuola dei nonni alla DAD”
Abbiamo divulgato vari appelli per reperire documenti, oggetti, testimonianze, foto, disegni e stiamo cercando anche qualche vecchio banco, di quelli di legno a due posti con il foro per il calamaio e la scanalatura per le cannucce con pennino a inchiostro.
Per ora è arrivata qualche testimonianza di insegnanti che hanno affrontato la DAD, di altri che hanno avuto esperienze nelle scuole italiane all’estero, nelle carceri, nelle scuole di italiano per stranieri e qualche pagella scolastica risalente a un secolo fa.
Il pezzo più prezioso però, fino ad ora, è certamente l’annata 1957 completa del giornalino per ragazzi “LO SCOLARO”. Me lo ricordavo bene: mi ha fatto compagnia parecchie volte quando ero alle elementari: a quei tempi, per noi che abitavamo in un piccolo paese di campagna, che ben pochi stimoli poteva offrire, rappresentava una finestra sul mondo con le sue rubriche dedicate ai vari paesi, alle notizie di attualità, a rubriche di storia, di scienze naturali, di letteratura infantile. C’era poi una pagina dedicata alle lettere dei ragazzi/lettori in cui comparivano elaborati inviati dalle scuole. Sfogliare quel volume è stato fare un tuffo in quegli anni così lontani, ma ancora così vivi nella memoria.
Come dicevo, ci è pervenuta la testimonianza di una giovane insegnante che ha affrontato la DAD con entusiasmo e creatività, ma io posso anche riportare l’esperienza indiretta vissuta dal mio nipotino di 7 anni, ora alla fine della prima elementare. Per lui il primo contatto con la scuola è stato molto triste nel periodo in cui ha potuto frequentare: dover portare la mascherina per tante ore, non potersi muovere liberamente, non potersi sgranchire le gambe durante l’intervallo gli ha dato un’idea piuttosto triste della scuola. Quando poi ha dovuto seguire da casa le lezioni davanti a un computer è stato in alcuni momenti interessante, ma in altri momenti, per lui così piccolo, piuttosto traumatico per la difficoltà di gestire il computer e le videochiamate.
Penso che sia stato così per tutti e quindi contiamo sull’apporto delle testimonianze scritte e “pittoriche” anche dei bambini, vittime innocenti di questa lunga, pesante pandemia.

 

 

 

diana catellaniE’ passato più di un anno da quando è cominciata la pandemia, che ha travolto e sconvolto la vita del mondo.
In questo tempo, quante persone sono morte! Fortunatamente moltissime sono anche guarite e parlano del periodo in cui combattevano contro la malattia come del più terribile della loro vita.
Durante la prima “ondata”, sentivo sì l’urlo straziante delle autoambulanze che lacerava il silenzio dei miei giorni e delle mie notti, ma nessuno dei miei conoscenti o dei miei familiari era stato colpito dal virus, quindi vivevo l’incubo della pandemia come un pericolo lontano, di cui mi arrivavano solo le notizie dei media. Avevamo inoltre un po’ tutti la speranza che i sacrifici imposti dal lockdown sarebbero serviti a sconfiggere la malattia e che presto tutto sarebbe stato solo un brutto ricordo.
Poi è arrivata una seconda ondata … e un’altra ancora… e ho visto ammalarsi e anche morire persone a me vicine, alcune anche non anziane ,mentre notizie dolorose mi giungevano da parenti e familiari per vicissitudini varie e ho vissuto un autunno molto triste: a ogni squillo di telefono sentivo un tuffo al cuore e il primo pensiero era:- Cosa starà succedendo? Chi altro sta soffrendo?-
Vivere in solitudine con la mente e il cuore pieni di pensieri dolorosi è stato veramente duro: non riuscivo più a sorridere… avevo dentro di me tante lacrime che non riuscivano a trovare una via di sfogo e mi appesantivano l’anima. Non potevo fare altro che pregare e sperare che tutti quelli che stavano soffrendo in vari modi potessero trovare sollievo e conforto.
Per fortuna, potevo disporre dei mezzi tecnologici che mi consentivano di tenere i contatti con amici e familiari e di partecipare a videoconferenze di ogni genere. Inoltre, con gli amici dell’Università della Terza Età siamo riusciti anche a organizzare lezioni gratuite per i nostri soci e anche per tutti quelli che richiedevano di collegarsi. Per molti questa opportunità è stata occasione per imparare a usare computer e cellulari in modo più evoluto, riuscendo a rompere il proprio deprimente isolamento.
Mi dava angoscia anche il constatare come qui, in Lombardia, l’assistenza ai malati fosse tanto carente: tante persone non venivano assistite per tempo e si aggravavano velocemente; era fortunato chi poteva essere ospedalizzato, ma chi rimaneva in casa era abbandonato a se stesso.
Intanto si cominciava a parlare di vaccini, con le solite polemiche di chi proclamava la propria diffidenza e forse questo (insieme a tanta inefficienza) ha rallentato l’organizzazione dei centri vaccinali, che sono entrati in funzione solo da poco.
Convinta che solo i vaccini possono aiutarci a uscire dalla pandemia, non capivo come, anche tra i miei conoscenti (anche anziani!!!), ci potessero essere persone contrarie a farsi vaccinare. Io invece aspettavo con ansia il momento di potermi prenotare e tale momento è finalmente arrivato anche per noi ultrasettantenni e, appena avutane notizia mi sono messa al computer (erano le due di notte del primo giorno utile) e ho potuto avere subito la conferma del mio appuntamento.
Ho ricevuto la prima dose solo qualche giorno fa con uno dei vaccini più discussi, ma ero felice: poteva essere la prima tappa per riconquistarsi una vita più normale!

diana catellaniIl mese di febbraio mi riporta al ricordo di alcune persone a me care che proprio in questo mese hanno lasciato questa terra. Tra queste, c’è mio fratello Vincenzo. Era di poche parole, tanto da sembrare scorbutico a chi non lo conosceva bene, ma sotto quell’apparenza burbera si nascondeva una grande sensibilità e una generosità ammirevole. Aveva 15 anni più di me e per questo io avevo appena sei anni, quando lui si è allontanato da casa, ciononostante la sua presenza nella mia vita è stata molto importante e ne voglio parlare qui.
Vincenzo aveva finito la quinta elementare e aveva dimostrato intelligenza vivace e volontà di continuare a studiare.
Del resto mio padre era convinto, come molti a quel tempo, che era importante far studiare soprattutto i figli maschi e quello era il primogenito. Vincenzo però era ancora piccolo e mingherlino e mio padre decise che era troppo pretendere che affrontasse le fatiche di andare alla più vicina scuola media (a 15 Km) perciò lo iscrisse di nuovo in quinta elementare: un anno in più poteva fargli acquisire maggiore sicurezza…
Il maestro che si vide arrivare questo ragazzino, lo etichettò subito come “ripetente” e decise che non occorreva dedicargli molte attenzioni; mio padre allora lo affrontò e gli fece capire che quel ragazzo stava sì ripetendo l’anno, ma solo per una precisa scelta di famiglia. Da quel momento il maestro cambiò atteggiamento e si prodigò perché Vincenzo potesse prepararsi in maniera adeguata per la scuola media.
Si era in tempo di guerra: i treni non funzionavano più, non c’erano altri mezzi di trasporto pubblici e l’ unico modo per raggiungere le scuole era di arrivarci in bicicletta.
Quel ragazzino di 11 anni, piuttosto mingherlino, tirò fuori un coraggio che oggi sembra fuori dell’ ordinario: tutte le mattine si faceva più di un’ ora di bicicletta insieme ad altri due o tre ragazzi del paese.
Lo immagino d’ inverno uscire di casa col buio, mentre la brina o la neve imbiancavano il panorama, inforcare la sua vecchia bici e pedalare di buona lena per scaldarsi fino a raggiungere la sua scuola e lì cominciare la sua giornata di studente. Mia madre mi raccontava che lo avevano soprannominato “maglia verde” per il fatto che lei gli lavava la sera quella maglia che doveva rimettere la mattina seguente.
A costo di tanti sacrifici riuscì a diplomarsi radiotecnico e io lo ricordo alle prese con la radio di qualche vicino che gli chiedeva di sostituire una valvola o di saldare qualche filo che non faceva più contatto.
Poi venne il lungo servizio militare e subito dopo la sua partenza per Torino, poi a Roma e in giro per l’ Italia per lavoro. Scriveva abbastanza spesso e quando arrivavano le sue lettere eravamo tutti contenti e cercavamo di immaginare come fosse la sua vita di ragazzo solo in queste grandi città
Poi mio padre si ammalò e dovette smettere di lavorare; io ricordo come tutti aspettavamo i soldi che mio fratello continuava a mandare a casa; avevo dieci anni e da allora sento per lui una grande gratitudine: senza il suo sostegno economico io non avrei potuto studiare …Una volta, stava tornando a casa per una delle sue periodiche visite e si fermò davanti alla scuola per aspettare l’ora dell’uscita. Io rimasi molto sorpresa e ne fui felicissima. Camminando insieme verso casa, riuscii a raccontargli tutte le novità di famiglia così che, quando mia madre pensava di aggiornarlo, si sentiva rispondere invariabilmente: “Lo so già, me lo ha detto la Diana”.
Negli ultimi anni, quando anch’io ero ormai in pensione, ci tenevamo sempre in contatto tramite il mio blog: spesso mi mandava dei commenti ai miei post e ho scoperto in lui, spesso taciturno e severo, una vena umoristica spiccata che me lo rendeva ancora più caro.
Una volta, scrivendo dei giorni appena precedenti la fine della guerra, quando si scatenò dalle nostre parti una sanguinosa resa dei conti, io attribuii quegli eventi luttuosi a vecchi rancori…. Ecco cosa mi scrisse Vincenzo, che quei giorni li aveva vissuti da adolescente..

Cara Diana,
tu parli di vecchi rancori per antichi torti, perché quando hai cominciato a farti delle domande erano già passati diversi anni dal 1945. Bisogna però ricordare che quel tipo di torti non ha influenzato solo la vita di un giorno, ma sono rimasti appiccicati sulla pelle di chi li ha subiti, perché erano diventati cittadini di serie B, per non parlare di quelli che, oltre alle manganellate e all’olio di ricino, sono finiti in carcere o esiliati o addirittura uccisi… quindi il rancore non è mai invecchiato, ma rinnovato e acuito giorno dopo giorno.
Dopo l’8 settembre 1943….. coloro che si trovavano al Nord dovettero decidere se andare sulle montagne, rischiando la vita qualora fossero catturati, o aderire alla Repubblica Sociale. Ognuno in pochi giorni dovette scegliere il proprio destino senza avere l’esatta coscienza della realtà che viveva.
Ebbe cosi inizio una impari guerra civile tra partigiani  e i cosiddetti Repubblichini voluti e sostenuti dalle SS tedesche.
In ogni guerra civile l’odio aumenta di giorno in giorno, fino ad arrivare all’assurdo e nella nostra zona, a pochi giorni dalla Liberazione, furono trucidati una decina di ragazzi trovati nascosti in un fienile e conosciuti dalla nostra gente; di loro è rimasta una delle tante lapidi di cui è costellata la nostra Emilia.
I parenti e amici di queste vittime, che nei giorni del caos perdettero la testa, non agirono per vecchi rancori , ma per le gravi ferite causate dall’odio imperante di quei terribili giorni.
Da allora a oggi sono passati tanti anni, quasi tutti i responsabili non ci sono più , non ha più senso serbare rancori
Non dimentichiamo però quel che successe allora.
Chi non conosce o dimentica il passato prima o poi ricade negli stessi errori e questo sarebbe, oltre che intollerabile, anche colpevole.
Quel lontano 25 Aprile è stato veramente un gran bel giorno.
Da allora la parola Libertà ha avuto un buon sapore. …

Dopo aver assistito la moglie per anni con grande dedizione, Vincenzo, rimasto solo, non accettò l’idea di curare quei disturbi che pure accusava da tempo: si sentiva ormai alla fine e l’unico suo pensiero era quello di non dover pesare sugli altri. E così un giorno di febbraio, dopo aver rassicurato la figlia dicendo che stava bene, che non c’era motivo che si preoccupasse per lui, il suo cuore si è fermato per sempre: se ne era andato senza recare disturbo, come aveva tanto sperato.

 


diana catellaniNell’avvicinarsi della “Giornata della Memoria” molte sono le occasioni che ci vengono offerte per riflettere su quanto è accaduto nel cuore dell’Europa nel corso del XX secolo appena trascorso.
È nell’ambito di queste proposte che qualche giorno fa ho rivisto un film ungherese del 2005 che racconta le vicende di un ragazzo di Budapest durante la Seconda Guerra Mondiale.
Gyuri è un ragazzino ebreo, che vive serenamente con la sua famiglia fino al giorno in cui suo padre riceve l’ordine di presentarsi per essere trasferito in un campo di lavoro. In quel momento di sconcerto e di smarrimento nessuno pare comprendere bene il significato di questa “chiamata”: accanto a chi pronostica, giustamente, le cose peggiori ricordando quanto era avvenuto in Polonia, c’è anche chi ironizza su questi timori dicendo che è assurdo ipotizzare sviluppi funesti.
È così che Gyuri darà l’ultimo abbraccio a suo padre che non tornerà mai più dalla sua famiglia.
Qualche tempo dopo, mentre Gyuri si reca al lavoro a bordo di un autobus, viene fatto scendere forzatamente in piena campagna perché porta la stella gialla sul petto. Insieme a lui molti altri ragazzi subiscono la stessa sorte. Nessuno sa il perché di questo fermo di polizia e tutti restano in angosciosa attesa di ordini: verranno inviati nei campi di lavoro.
Contrariamente a quanto accade ai suoi giovani compagni di sventura, Gyuri riesce a superare la selezione che avviene all’arrivo ad Auschwitz, dove un terribile miasma dolciastro ammorba l’aria, poi da lì viene portato in altri campi dove conosce tutto l’orrore della schiavitù e della barbarie: i prigionieri vengono sottoposti a lavori estenuanti, scarsa nutrizione, mancanza di igiene, lunghe soste sotto la pioggia e al gelo. Gyuri, con l’aiuto di un adulto suo concittadino, detenuto da tempo, impara presto alcune strategie per sopravvivere, ma poi un’infezione a un ginocchio e la vita di stenti lo portano sull’orlo di una fossa comune, da cui verrà salvato all’ultimo momento dall’arrivo degli americani.
Gyuri viene rifocillato e può intraprendere il cammino per tornare a casa, ma non trova più la sua famiglia; i vicini lo accolgono, ma restano molto infastiditi dalle sue domande su quanto è successo e presto lo invitano ad andarsene dalla madre, unica superstite.
Sono le sequenze finali del film quelle che più invitano a riflettere: Gyuri pare dire che non è da attribuire al destino quanto è accaduto in quegli anni, ma alla sottovalutazione di segnali inequivocabili anche da parte degli stessi ebrei e all’inerzia e all’indifferenza di chi voltava la faccia per non vedere e non sentire.
Anche nel “DIARIO” di Etty Hillesum, leggevo con incredulità come le chiamate ai campi di lavoro fossero accettate senza troppe ribellioni. Si può arrivare, in un mondo dai valori stravolti, a far sembrare “normale” ciò che è aberrante? Come si poteva accettare di vedere dei concittadini costretti a identificarsi come minoranza sgradita per mezzo di una stella sui vestiti? Come si poteva accettare che dei bambini venissero allontanati dalla scuola o che persone adulte perdessero il lavoro in base alla loro etnia? Come si poteva accettare di veder scomparire tante persone e non chiedersi cosa fosse accaduto?
A prima vista sembra inspiegabile, ma poi sappiamo benissimo che anche oggi il mondo assiste indifferente a tanti orrori: la guerra in Yemen, in Siria, in Afghanistan, in Cecenia, le stragi ricorrenti in certi paesi africani, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri (anche qui da noi), migranti inghiottiti dal mare o costretti a vivere all’addiaccio in pieno inverno ai confini dell’Europa, i bambini soldato, i bambini “di strada”, la morte per fame e per malattie banali di tanta gente nei paesi più poveri …. e noi cosa facciamo?
Nel migliore dei casi, cerchiamo di far tacere la nostra coscienza sostenendo questa o quella organizzazione umanitaria, ma più spesso continuiamo a fingere di non sapere accontentandoci del nostro quieto vivere.
Concludo queste righe, ricordando che anche a Fossoli, vicino al mio paese natale ci sono ancora le baracche del campo di concentramento in cui venivano rinchiusi gli ebrei, in attesa del trasferimento in Germania o altrove. Cinquemila persone transitarono dal campo di Fossoli e la gente assisteva indifferente...
Da lì partì anche Primo Levi, che ricordando quei giorni scrisse questa poesia:

Il tramonto di Fossoli  
 
Io so cosa vuol dire non tornare
A traverso il filo spinato
ho visto il sole scendere e morire;
ho sentito lacerarmi la carne
le parole del vecchio poeta:
"Possono i soli cadere e tornare:
a noi, quando la breve luce è spenta,
una notte infinita è da dormire"
P. Levi