I vecchi e il medico di Rosanna Vagge

I vecchi e il medico di Rosanna Vagge

il blog di Rosanna Vagge

rosanna vagge“Chi bene inizia è alla metà dell’opera” direbbe nonna Rosina se fosse ancora viva. Nel corso della sua lunga vita si era sempre mostrata aperta alle innovazioni, aveva fiducia nelle persone, fino a prova contraria, non si lasciava intimorire dalle dicerie verso le quali nutriva un sano scetticismo: insomma sapeva utilizzare al meglio i suoi neuroni e stimolava i giovani a pensare con la propria testa fin dalla più tenera età.
Nonna Rosina, quando apprese della mia intenzione di iscrivermi all’Università di Medicina, mi disse che, se avesse avuto l’opportunità di studiare anziché portare al pascolo le pecore, le sarebbe piaciuto diventare un medico e chissà se questa sua inclinazione abbia influenzato inconsapevolmente la mia scelta.
Era ligia alle prescrizioni mediche, ma gradiva comprendere il perché e il percome degli interventi terapeutici; nonostante le scarse possibilità di informazioni sanitarie alla sua portata, sapeva dare una lettura sobria ed equilibrata alle diverse situazioni con le sole doti intuitive e con il buonsenso.
So per certo che l’influenza spagnola, quando aveva poco più di 20 anni, non l’aveva nemmeno sfiorata, non ricordo invece le successive pandemie del 1957 e tanto meno quella del 1968, quando io ero già quasi maggiorenne. D’altra parte aveva sempre goduto di buona salute ad eccezione di un piccolo evento ischemico cerebrale che aveva compromesso l’uso della parola, risvoltosi in breve tempo nel migliore dei modi e l’unico presidio che utilizzava quotidianamente era la pomata del Dott. Biancardi per le lentiggini che non le piacevano affatto.
Quindi, in linea con le convinzioni di nonna Rosina, non posso far altro che accogliere con entusiasmo l’arrivo della vaccinazione anti-Covid e nutrire la speranza che sia di buon auspicio per il 2021 e arresti l’infrenabile contagiosità del virus Sars- Cov- 2 che tanti morti e tanti danni ha provocato fino ad ora in tutto il mondo. Mi vaccinerò presto, anzi prestissimo: la prima dose è prevista tra 4 o al massimo 8 giorni in quanto farò da jolly per raggiungere il numero richiesto che deve essere rigorosamente multiplo di 6 per evitare di sprecare il prezioso vaccino una volta aperta la confezione.
Sprecare le risorse non è affatto cosa buona in ogni tempo, figuriamoci ora, in piena emergenza economica, oltre che pandemica, anche in considerazione del fatto che se le risorse sono limitate, per ovvie ragioni, le esigenze e talvolta le pretese della popolazione sono invece infinite.
Nell’ultimo trentennio l’uso appropriato delle risorse è stato uno dei capisaldi della qualità dell’organizzazione dei servizi sanitari ed il termine appropriatezza è stato il filo conduttore dei principali documenti nazionali di programmazione sanitaria, per citare le stesse parole tratte dall’articolo dal titolo “Appropriatezza, un problema comune” di Giovanni Peronato, medico di Vicenza, pubblicato il 24 febbraio 2020 sul sito www.saluteinternazionale.info. Una procedura è appropriata se il beneficio atteso supera le eventuali conseguenze negative con un margine sufficientemente ampio, tale da ritenere che valga la pena effettuarla. Questa definizione, proposta dalla Rand Corporation (organismo statunitense creato nel 1948 a scopi militari) è stata in parte accettata in ambito europeo, ma con modalità che tengono conto del coinvolgimento del paziente nelle scelte da effettuare, dopo adeguata informazione da parte dei sanitari.
Io personalmente preferisco la definizione di Slow Medicine che considera appropriata la prestazione effettuata in modo giusto e nel momento giusto al paziente giusto, nel rispetto dell’individuo, dell’ambiente e dell’ecosistema, definizione che implica anche il concetto di sobrietà e quello di equità. In questo senso è evidente che l’appropriatezza non può prescindere dalla relazione di Cura perché un intervento definito teoricamente appropriato può non esserlo per quel dato paziente, in quel dato contesto.
A questo proposito mi vengono in mente le parole di un maestro, il Prof. Gian Domenico Sacco, neuropsichiatra tragicamente scomparso a poco più di 80 anni, parole riportate in un mio scritto del 2013 mai pubblicato dal titolo “Cosa c’entra l’Evidenze Base Medicine?” . La conversazione, effettuata in un giorno in cui ero medico di guardia in Clinica, verteva sul rapporto medico- paziente, sulle difficoltà di decisione condivisa del percorso diagnostico- terapeutico che spesso si verificano anche quando il malato è un medico: dubbi, perplessità, convinzioni presenti nell’uno e nell’altro, circostanze di vita, in una sola parola i cosiddetti fattori umani che condizionano i nostri comportamenti, a prescindere delle conoscenze scientifiche.
Ebbene ecco le sue parole: “L'approccio tradizionale "patient oriented" è stato, soprattutto in Italia supinamente - e spesso tragicamente! - sostituito dalle biblizzate linee guida "disease oriented", che risparmiano sicuramente al medico la fatica di ragionare nella assoluta dimenticanza della verità del proverbio "non esiste la malattia, ma il singolo malato.", cioè la singola, irripetibile e concreta persona sofferente che ti sta di fronte! L'apporto conoscitivo da parte delle linee guida "disease oriented" la cui eclatante assurdità consiste dal partire dal traguardo dell'iter diagnostico e non dalla sua linea di partenza […] non va scartato, a condizione che venga usato sempre complementariamente ed in modo assoluto mai alternativamente, al metodo diagnostico tradizionale "patient oriented", costituito da un iter mai totalmente identico a quello di qualsiasi altro paziente […] “.
Parole sacrosante, che accolgo col cuore e col la mente, e che, a mio parere, rappresentano il vero succo della questione.
E … e, direbbero Giorgio Bert e Silvana Quadrino, maestri del counselling sistemico, mai o … o.
Le linee guida private del pensiero critico che è alla base della valutazione clinica, possono sortire paradossalmente l’effetto contrario a quello per cui sono state istituite e finalizzate: la sicurezza del medico e del paziente. Senza considerare che il gruppo di esperti che le redige non è affatto immune dal conflitto di interessi in quanto la pressoché totalità delle società scientifiche ha legami finanziari con aziende farmaceutiche e industrie tecnologiche e questo può portare a formulare linee guida per così dire “compiacenti”. Tale rischio, paventato dalla Rete Sostenibilità e Salute, nel documento “Appropriatezza e Linee Guida” ha ripercussioni importanti sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari in caso di contenzioso legale, come è previsto dalla legge 24/2017, la cosiddetta Legge Gelli.
Nella mia mente si concretizzano, con forza prorompente parole come medicina difensiva, medicalizzazione, potere, incompetenza, malafede, ricerca del profitto, parole che pesano enormemente sulle nostre scelte e sono in grado di alterare i nostri comportamenti.
Insomma un insieme di elementi imprescindibili e intrecciati rende molto difficile stabilire ciò che è appropriato in sanità, figuriamoci in tempo di emergenza pandemica, in un contesto economico disastroso a livello mondiale, come quello odierno.
Ben venga il vaccino, quello che sia, per rallentare se non interrompere la deriva di separazione, sequestro, innalzamento di muri, discriminazione, frammentazione e parcellizzazione che abbiamo intrapreso. Che ha portato a isolamento, deprivazione degli affetti, ansia da separazione, confusione, incomprensioni, conflittualità, mettendo in rilievo quanto le dicotomie, in primo mente-corpo possano vanificare i fini che ci prescriviamo, a partire dalla tanto ambita appropriatezza.
Per tutti questi motivi, annodati e ingarbugliati, il vaccino anti-Covid non è stato accolto con troppo entusiasmo né dal personale né dagli ospiti di Casa Morando: dubbi sull’efficacia e durata dell’eventuale azione protettiva, coesistenza di allergie o altre patologie su base immunitaria, paura di fare da cavie che esplodevano dopo la lettura del modulo del consenso informato, tutto ciò era presente nella totalità dei soggetti in grado di fare delle scelte, altri percepivano il clima di incertezza e perplessità, dimostrandosi rassegnati o del tutto indifferenti.
Alla fin fine, dopo aver coinvolto nella decisione i parenti più stretti ed i medici di famiglia, in linea con quanto disposto dalla procedura e soprattutto dalla mia coscienza, ed aver risposto sì alla domanda “Ma tu te lo fai?” l’adesione è stata del 90% per gli ospiti e quasi del 70% per il personale, dati ritenuti soddisfacenti dagli organi istituzionali che hanno apprezzato pure la mia capacità, da esperta matematica, di conoscere addizioni e tabelline. Infatti in data 14/01/2021 in Casa Morando sono stati vaccinati N. 19 ospiti + N. 5 operatori per un totale di N. 24 persone (6 x 4 = 24, quindi multiplo di 6).
Tutto secondo le regole imposte, ma “con l’aggiunta di quel pizzico di sale in più che rende le cose gustose (anche quelle che proprio non lo sono)”, queste le parole del Presidente Francesco rivolte alla Direttrice Maria Grazia.
La foto sottostante è una piccola testimonianza del clima sereno e gioioso che regnava durante la seduta vaccinale: Carlo intonava il ritornello della canzone popolare genovese “Olidin Olidena”, Luciana rideva a crepapelle impressionata dal mio copricapo bizzarro che in realtà era un soprascarpe e Armando, il nuovo arrivato, appena uscito dall’area buffer, scrutava attonito l’ambiente, come a voler dire “Qui sono tutti matti!”, ma, per lo meno, non era triste. Al termine, caffè e biscottini in abbondanza.

 vaccino Morando

Il tutto nella convinzione che la disposizione d’animo influisca fortemente sulla guarigione, in questo caso sulla risposta immunizzante dell’organismo, esattamente come sosteneva il medico veneziano Vicentini, che, più di due secoli fa, aveva introdotto nella Repubblica Serenissima una pratica antivaiolosa “soave”.
A quei tempi la pratica tradizionale per prevenire il vaiolo consisteva nell’innesto di materiale purulento delle pustole umane per provocare una eruzione cutanea a scopo depurativo. Tutto ciò si basava sull’ipotesi “scientifica” che l’agente morboso fosse di origine interna all’organismo e che uno spurgo copioso avrebbe dato maggiori garanzie di risanare il corpo definitivamente. Gioco forza era praticare tagli, innesti di fili infetti, impiastri e fasciature, vescicature già di per sé caustiche che rendevano l’inoculazione a dir poco una pratica cruenta con effetti devastanti. Correva il 1768 e il progetto Slow “Fare di più non significa fare meglio “non era ancora nato.
Ma per fortuna c’è un tal Francesco Vicentini che, insieme ad un altro medico di nome Gatti, suo mentore, non la pensa affatto allo stesso modo e si dimostra molto scettico sull’altrui bisogno di teorizzare senza costrutto “sull’inutile ricerca di cose al nostro intelletto inaccessibili, come per esempio cercando, qual sia la natura del veleno vaioloso […]. Tali ricerche sono imperscrutabili, ed inutili [...] tanti Secoli di meditazioni Filosofiche [...] non hanno ancora data una plausibile spiegazione...”. E sulla malattia da altri considerata una “gagliarda depurazione...” dell'organismo, commenta così: “io non potrò mai collocare tra le depuratrici operazioni di natura un male che ammazza almeno la decima parte di quelli che attacca; e maltratta la maggior parte del restante di essi...”.
Il medico illuminato predilige l’approccio empirico basato sull’osservazione e sul confronto con i colleghi europei e in altri parti del mondo ed è fautore dell’inoculazione preventiva, ma aborrisce le pratiche cruente caldeggiando la procedura soave, come condizione irrinunciabile per l’esito positivo dell’innesto. Spiega inoltre ai suoi superiori che l’esperienza sua e dei colleghi ha mostrato come le circostanze che rendono la malattia più o meno pericolosa siano, oltre alla via attraverso cui il morbo entra nell’organismo, anche la disposizione del soggetto, la qualità e la quantità del contagio: “è facile vedere quanto vantaggiosi effetti produr possano […] le grate distrazioni; e quanto all'incontro nocivo esser debba il non necessario tetro apparato di malattia...”. Tutto per i pazienti deve essere confortante, a partire dalla scelta delle persone dedicate alla loro cura “diligenti, ed amorose […] dell'uno e dell'altro sesso …”, e che esse “abbiano pazienza, e premura e vigilanza nel servire, e trattenere quei piccoli Malati...”.
Ai fini del rapido recupero salutare, per Vicentini, è anche importante il movimento, ma: “se l’esercizio ha da esser utile, dee essere accompagnato da distrazione...”. Non serve far soffrire il paziente, quando è sufficiente una sola “puntura d’ago [...] Nessun apparecchio Solenne, e spaventante; nessun dolore, nessun pericolo di piaghe, ed ulcere...”. Infatti i bambini inoculati all’Ospedale dei Mendicanti, potevano giocare e muoversi a loro gradimento e per favorire lo svago, considerato terapeutico, Vicentini aveva cambiato il sito dell’innesto dalla mano al braccio. “La maggior difficoltà di questo affare è stata la disciplina di questi ragazzi. Vivacissimi [...] maleducati [...] È un miracolo se non nacquero più gravi disordini da questa cagione...”. Queste le conseguenze della sua pratica soave, riportate con le sue parole.
Ma non è tutto, infatti Vicentini, che senza dubbio potremmo definire “slow”, fa anche riferimento al ruolo del medico, condizionato nell’azione dalla sua impostazione in diverso grado teorica o empirica, ma anche più o meno interessato a protrarre lucrosamente i tempi dell’operazione, esaltando o creando difficoltà non necessarie. A questo riguardo riferisce che “quando l’Innesto passò dall’Asia in Europa, dalle mani delle Madri semplici a quelle de’ Medici, le false Teorie, e la impostura s’intrusero a guastarlo...”, mentre in generale l’inoculazione “non riesce nemmeno travagliosa, se tale non la rende un improprio trattamento...”.
Questa avvincente testimonianza dal titolo “La Repubblica Serenissima introduce una profilassi antivaiolosa soave …”, tratta da documenti storici e scritta dalla cara amica Silvia Stagnaro, è stata pubblicata sul volume: Gagliarde spese... incostanza della stagione. Carteggio Giovanni Querini – Caterina Contarini 1768 – 1773 (a cura di A. Fancello M. Gambier. Venezia, Gambier&Keller, 2013).
È proprio vero che l’animo umano è sempre lo stesso, penso io, nonostante il progredire della scienza, tra conferme e smentite, e l’avanzare inarrestabile delle innovazioni tecnologiche. Cambiano i tempi, cambiano le procedure, ma l’agire quotidiano di ognuno di noi è dettato fondamentalmente da quei fattori umani che non saranno mai scalfiti dallo scorrere dei secoli.
Il 2021 passerà alla storia come l’anno della vaccinazione – antiCovid, arrivata prima di quanto ci aspettassimo proprio nel mese di gennaio e spero anche come l’anno della fine della pandemia, della ripresa economica, della nascita di un nuovo welfare più attento ai bisogni fisici e affettivi delle persone.
Perché “chi ben inizia è alla metà dell’opera”. Lo diceva nonna Rosina.

 

rosanna vaggeDomenica 6 dicembre 2020
Ho deciso di concedermi una giornata di riposo, credo di averne proprio bisogno dopo mesi in cui non riesco a staccare la mente dalla pandemia Covid, dagli incessanti impegni lavorativi, ma soprattutto dalla preoccupazione di come andremo a finire.
Essendo da sempre convinta che la motivazione sia la forza trainante della vita, cerco di evitare i momenti di sconforto e di avvilimento sostituendoli con pensieri positivi oppure, e questo mi viene ancora più facile, con rabbia e voglia di azione, tanto più violenta quanto più la problematica è di natura valoriale. Mi viene voglia di appiccare il fuoco a destra e manca, per distruggere o purificare, chissà, come fossi in preda ad un delirio di onnipotenza ma, vi rassicuro, fino ad ora sono riuscita a contenere questo mio lato oscuro, ed al massimo ho distrutto le presine da cucina, non accorgendomi che erano troppo vicine al fuoco acceso sotto la pentola. Confesso anche che essere chiamata Che Guevara o definita rivoluzionaria anarchica, come non pochi fanno, non mi disturba affatto, anzi lo considero un vanto.
Sto aspettando Bianca, la mia quarta nipotina, concepita in piena pandemia. L’annuncio del suo arrivo è stato dato il 2 giugno scorso, in occasione del primo compleanno del fratellino Tommaso ed ora ogni giorno è buono per nascere, ma con un limite dettato dalla prevenzione del rischio: sabato 12 dicembre.
E già, il concetto di rischio assilla il mondo odierno in modo sempre più pregnante. Rischio inteso come la possibilità che si verifichi un fatto negativo e non certo di àlea, che può essere definita come una sorta di scommessa verso ciò che è incerto, come illustra la diapositiva sottostante, tratta da un intervento dell’antropologo Felice Di Lernia, che ho presentato ad un corso di formazione sul rischio clinico.
La società del rischio rende estremamente complesse le decisioni nei singoli sistemi funzionali (politica, diritto, scienza, economia) e, se non bastasse produce la sospensione della pratica del cambiamento. Lo sostiene Niklas Luhmann nel suo libro intitolato appunto “Sociologia del rischio”.
Una previsione che mi desta una certa preoccupazione, considerato che il libro è stato pubblicato nel 1991, e che mi induce a presupporre, se è vero ciò che asserisce, quanto il rischio aggiuntivo e non prevedibile correlato alla pandemia Covid possa paralizzare ancora di più il cambiamento.
ALEA O PERICOLOLA SOCIETA DEL RISCHIO

Un cambiamento a mio parere indispensabile, per il quale da sempre lotto con tutti i mezzi che ho a disposizione, indirizzato soprattutto a porre un freno allo strapotere della medicina che conduce alla medicalizzazione della vita ed alla mercificazione della salute.
Dalla nascita alla morte tutto deve essere previsto e organizzato, concretizzando la frase del sociologo tedesco riportata nella diapositiva: “Il futuro è sempre di più descritto con il concetto di rischio”.
Come possono le persone accettare l’incertezza e l’imprevedibilità della vita?
In un futuro, peraltro, paradossalmente sempre più incerto e imprevedibile per mano dell’uomo, della corruzione, dell’ipocrisia, del conflitto di interessi, della logica di un mercato sempre più spietato che non lascia spazio al rispetto dell’intero pianeta.
Mia nonna Rosina direbbe, mi par di sentirla, con il suo accento marchigiano: “Male voluto non è mai troppo” o la variante “Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”, cosa che mi irritava non poco quando arrivavo dolorante per qualche ferita da eccesso di vivacità, ma, comprendo ora, quanto fosse importante inculcare ad un bambino il senso di responsabilità che sembra sempre più venir meno a favore della ricerca incessante di un capro espiatorio.
È sempre colpa di qualcuno o di qualcosa e ciò induce, per logica conseguenza, a comportamenti difensivi da parte di ogni individuo oltre al tentativo di eliminare quel qualcosa o quel qualcuno che è additato come colpevole.
L’ enorme crescita delle innovazioni tecnologiche che è avvenuta negli ultimi decenni, ha inasprito, se si può usare questo termine, la dicotomia Cartesiana tra mente e corpo, fisicità e spiritualità, frammentando ciò che è indivisibile e perdendo di vista l’intero a favore del dettaglio. In poche parole, l’obiettivo salute, che raccoglie il tutto e non solo una parte, è andato a farsi friggere.
La deriva era già in atto da tempo, non possiamo nasconderlo. Il Coronavirus ha fatto semplicemente traboccare il vaso colmo di acqua, comportandosi come l’ultima goccia ed evidenziando in modo clamoroso le disuguaglianze, le iniquità, le disonestà e le ipocrisie del mondo intero, senza alcuna eccezione.
Tornando a Bianca, quando è nato il mio primo figlio, Franco, esattamente 41 anni fa, non si faceva ancora l’ecografia, il termine della gravidanza era previsto alla fine del nono mese, calcolato in base all’ultima mestruazione e la data prevista del parto era collocata più o meno a metà delle 3 settimane di margine di cui la natura dispone. Il corredo era di colore neutro, bianco o giallino, qualche capo azzurro in chi osava di più, bandito il rosa e il detto “Maschio o femmina quello che sia, viva Gesù, viva Maria” andava alla grande. Le previsioni del sesso erano basate sulla forma della pancia, più o meno a punta e, in quanto al parto, si faceva riferimento alle fasi lunari. Esami del sangue durante la gravidanza? Ben pochi e riservati soprattutto alle persone con patologie già note per evitare le complicanze più gravi, come la temuta gestosi gravidica. Insomma l’attenzione era rivolta alla persona e non standardizzata in nome del rischio, inteso ovviamente come pericolo e non di ciò che è aleatorio. Quest’ultimo termine sembra essere diventato inaccettabile per il paradigma culturale dell’era post moderna.
Ora la gravidanza non è più di 9 mesi, ma di 40 settimane, sui siti web trovi tutti i dettagli della crescita del feto giorno per giorno e la data del parto è codificata in base ai parametri ecografici, capaci di misurare ogni millimetro del corpo e calcolarne il peso; sono offerti gratuitamente, sempre che il medico curante non sbagli la sigla da apporre sul ricettario rosso, esami del sangue, translucenza nucale, screening del diabete gestazionale, senza contare quelli invasivi come l’amniocentesi e la villocentesi, da riservarsi a casi specifici. Con minime differenze tra un centro nascite e l’altro le procedure sono standardizzate: indipendentemente dalle fasi della luna, dopo 40 settimane + 1 o + 2 ha inizio il monitoraggio e, se le contrazioni non arrivano, arriva invece a breve l’induzione con fettucce o flebo.
Le cose si complicano ulteriormente in questo periodo, perché oltre ai consueti rischi, si aggiunge lo spauracchio del risultato del tampone al virus Sars- Cov- 2, tampone che, quando la gravidanza giunge al termine, viene ripetuto ogni settimana in quanto risulta essere determinante per il parto, dal momento che la maggior parte degli Ospedali non dispone di sale a norma per accogliere le partorienti positive. Elisa, mia figlia, ha scelto prudenzialmente l’Ospedale Pediatrico, Covid free o presunto tale, fino ad ora le è andata bene, sempre negativa, ma deve ancora sottoporsi ad un altro tampone e ad un altro monitoraggio per cui l’apprensione rimane elevata.
Domenica 13 dicembre 2020
È arrivata Bianca, alle 15,01 del 10 dicembre.
La natura è stata provvidenziale, Bianca non ha aspettato la luna nuova del 14 dicembre ed ha anticipato di due giorni la data stabilita per il ricovero e l’induzione del parto; si è inoltre guadagnata la stanza singola, non essendo stato ancora disponibile il referto del tampone di Elisa, eseguito, su programmazione, poche ore prima del parto. Così tutti abbiamo potuto tirare un bel sospiro di sollievo, attraverso la mascherina.
È la mia quarta nipotina, è sana e bella: sono felicissima.
Ma non stiamo esagerando?
In nome del rischio, fissiamo regole standardizzate e con margini ristretti di ogni situazione che riguarda la nostra vita, dimenticandoci ciò che è indivisibile e non misurabile: il benessere di ogni individuo.
“C’ È BISOGNO DI AFFETTO” leggo sulla testata di Corfole, Corriere del Levante, del dicembre 2020.
Come sottotitolo riporta: “Un ospedale ha riconosciuto l’importanza della vicinanza dei propri cari: riprese le visite dei famigliari nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Cisanello di Pisa, anche per i pazienti Covid, ovviamente con tutte le precauzioni del caso”.
Mia nonna Rosina, la cui cultura scolastica si è fermata alla terza elementare, direbbe, storcendo il naso: “Hanno scoperto l’umidità nei pozzi?”
Certo che c’è bisogno di affetto, di empatia, di rispetto delle scelte e dei valori che ognuno di noi conserva nel proprio cuore e che permangono, ancor più radicati, quando l’intelletto ci abbandona.
La maggior parte dei nostri anziani che ci hanno lasciato dopo giorni e giorni di allettamento in Ospedale, trasferiti da un reparto all’altro o nelle strutture Covid, pur assistiti nei bisogni primari e curati con farmaci, non sono morti per infezione da Sars -Cov-2, ma per la perdita della voglia di vivere, abbandonati e privati dei loro affetti e di ogni motivazione.
Di questo ne sono convinta, ne sono convinti i miei giovani collaboratori e pressoché la totalità di coloro che, a vario titolo, gravitano nel mondo sanitario.
Il più grande errore nel trattamento delle malattie è che ci sono medici per il corpo e medici per l’anima, anche se le due cose non dovrebbero essere separate” sosteneva Platone 2400 anni fa.
Forse mi giudicherete arretrata, ma la penso proprio così.
E mi associo all’appello del collega Antonio Panti, medico di famiglia fiorentino, oggi in pensione, che dice ”Occorre un sussulto organizzativo che coniughi rispetto e sensibilità umana con prudenza e buon senso”.
Finora il Coronavirus non ci ha insegnato proprio niente, penso sconfortata, ma subito mi appare nella mente la piccola Bianca e mi torna il sorriso.
Andiamo avanti.

rosanna vaggeScrive Giorgio Bert, medico, co-fondatore di Slow Medicine che, secondo Ildegarda di Bingen (1098-1179), monaca alquanto singolare, musicista, poetessa, filosofa, linguista, medico, il corpo non può essere paragonato a una macchina, similitudine che divenne dominante qualche secolo dopo e rimase in auge fino a quasi i giorni nostri. Il corpo somiglia invece a una pianta e il medico a un giardiniere. Se una macchina si rompe non può aggiustarsi da sola; se una pianta viene danneggiata o ferita, essa può in larga misura curare e guarire sé stessa senza interventi esterni (la vis medicatis naturae).
Questa frase, tratta dall’articolo “L’arte medica tra direttività e visione sistemica: medico meccanico o medico giardiniere?” pubblicato su “Riflessioni sistemiche” N. 14 del 2016, mi ha scatenato una marea di pensieri, intrecciati ad immagini di anziani imploranti alla ricerca di uno sguardo compassionevole, nascosto sotto la visiera o di un sorriso complice, celato dalla mascherina piuttosto che di una semplice carezza, capace di generarti quella benefica sensazione di contatto fisico che può avvenire solo a pelle nuda.
Scrive ancora Giorgio Bert: il medico giardiniere è molto diverso da un medico meccanico: se una pianta soffre non si precipita a caricarla di interventi, di rimedi, di pesticidi, ma comincia col domandarsi (e domandarle!): “ Di che cosa hai bisogno? Più sole? Più ombra? Più acqua? Un terriccio diverso? Nutrimento? Eliminazione di parassiti? Quali sono le sue risorse naturali che possono venire esplorate e incentivate?”. La pianta sa cose che il giardiniere ignora. La relazione tra i due è la “cura” e come ogni relazione non è scientifica (è irripetibile, variabile, modificata dal contesto e dal tempo, non riproducibile, non misurabile …). Scambio. Reciprocità. Armonia. Equilibrio.
Elementi tutti che la pandemia ha ridotto ai minimi estremi, se non del tutto cancellati.
Ma è tutta colpa del Coronavirus? Mi chiedo.
Sappiamo bene che la salute non è un fatto esclusivamente biologico, ma un prodotto che riconosce numerosi determinanti diversi: storici, culturali, familiari, lavorativi, economici, sociali, ambientali, climatici, demografici …
Sappiamo inoltre che è necessario distinguere tra la malattia vera e propria, quella che l’antropologo Guerci definisce l’etichetta dotta della malattia, la diagnosi (in inglese “disease”) e la percezione soggettiva di un malessere, disagio, sofferenza, cioè il vissuto della malattia, al quale non possiamo apporre alcuna etichetta (in inglese “illness”).
Una differenza che non è affatto di poco conto, considerato che nella “disease” si è soliti identificare sedi specifiche dell’organismo che vengono colpite o tutt’al più l’organismo intero (malattie cosiddette sistemiche), mentre nella “illness” la “sede”, se così si può definire, non è individuabile in quanto, nella maggioranza dei casi, si colloca nella relazione tra organismo e ambiente esterno.
Ma non è tutto, esiste anche la “sickness” , che è la malattia di un membro della società nella misura in cui è percepita e presa in carico dalla comunità, dall’ambiente sociale del malato.
Il concetto di sickness è forse enigmatico per la mentalità occidentale. Scrive Antonio Guerci nel suo Breve saggio sulle rappresentazioni e costruzioni della variabilità umana dal titolo “Dall’Antropologia all’Antropopoiesi” (Cristian Lucisano Editore, 2011).
Lo spiega con un esempio che ci deve far riflettere.
Noi, appartenenti alla civiltà occidentale, utilizziamo spesso la locuzione tessuto sociale per descrivere situazioni umane particolari prendendo in prestito, senza rendercene conto, un termine estrapolato dall’istologia (tessuto) e connotando un insieme di elementi indipendenti (cellule/individui), ognuno delimitato dalla propria membrana (cellulare/prossemica) con all’interno i propri organi vitali, tutti delegati ad una funzione (fisiologica/lavorativa).
In numerose altre società la situazione è del tutto differente e l’immagine figurata che fornisce una connotazione più precisa é quella del sincizio, vocabolo anch’esso preso in prestito dall’istologia, che vede, all’interno di una comune massa citoplasmatica, organuli cellulari dispersi nel liquido, condivisi da ogni spazio e in ogni spazio della società-sincizio. Ogni componente della compagine e ogni sua attività avviene in comunione e in condivisione, e scopo ultimo è la sopravvivenza del gruppo, comunità, villaggio, clan, grande famiglia.
È facile presumere che in società così strutturate i vissuti, di malattia e di morte, assumano fisionomie molto differenti. E così gli interventi mirati alla salute pubblica.
Tessuto 1Sincizio
Ebbene, tornando alla pandemia che ci sovrasta ormai da mesi, e considerato che viviamo nel mondo occidentale, dove la medicalizzazione integrale della società è una dei tratti distintivi, non dobbiamo meravigliarci se il Coronavirus ha avuto un impatto così devastante sulla vita sociale di ogni individuo con controlli medici sempre più stretti finalizzati alla prevenzione della diffusione del contagio.
La “disease”, rappresentata dal riscontro della positività al tampone per la ricerca del fatidico Sars- Cov-2, ha vinto sulla Illness, almeno nella maggior parte degli individui, fra cui alcuni anziani addirittura ignari di aver contratto l’infezione, altri asintomatici mentre la sickness ha portato ad un unico e univoco comportamento, rappresentato dalla loro esclusione dalla vita di comunità e dal confinamento dei membri colpiti in aree apposite.
Che fine ha fatto la relazione di cura?
Che è scambio, reciprocità, armonia, equilibrio.
Gli operatori sanitari, tutti, si sono adoperati e continuano a farlo con dedizione e impegno ammirevole per far fronte alla situazione, ma questo non è abbastanza per uscire da uno stato emergenziale che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita.
Pensando solo alle persone etichettate “positive” ricoverate nelle strutture Covid, dalle connotazioni più svariate, navi, caserme, Hotel, RSA e quant’altro, è facile comprendere come sia difficile, soprattutto per chi ha i sensi offuscati dall’avanzare dell’età, sentirsi accuditi e curati da individui mascherati, non più identificabili nel loro ruolo specifico, limitati nei movimenti e nella produzione verbale dalla bardatura, capace di celare ogni emozione, come la tenerezza di uno sguardo o il tono soave della voce.
La rilevazione dei parametri fisiologici, la somministrazione della terapia, spesso eccessiva o perpetuata ben oltre il tempo necessario, le medicazioni, i cambi posturali, l’igiene della persona assorbono tutto il loro tempo a disposizione, a discapito della relazione di Cura, con la C maiuscola, l’unica che ci permette di comprendere ciò di cui le persone hanno bisogno nei momenti di sofferenza e di aggiungere quella spinta emotiva che ci fa desiderare di restare in questo mondo.
Perché è proprio così. Se, nella fase acuta della malattia, quando la diagnosi è fatta, il medico può permettersi di essere meccanico applicando i protocolli terapeutici, pur con le possibili differenze legate a parametri ben definiti, come l’età anagrafica o la presenza di co-morbilità, nella fase di evoluzione, in cui tutto si mescola e si complica, quando si tratta di stabilire la prognosi, il medico deve diventare giardiniere, saper ascoltare anche chi non ha voce, riflettere e chiedersi, utilizzando ciò che la scienza ci insegna: “Avrà sete? Avrà fame? Soffrirà di solitudine? Avrà perso la voglia di vivere o addirittura si sarà dimenticato di essere vivo?”.
Succede che, nella corsa sfrenata per arginare la diffusione del contagio e rispondere ai bisogni assistenziali cosiddetti primari, ci si dimentichi dell’importanza degli affetti più cari di cui sono state private le persone etichettate come positive al virus Covid-19, anche se con lieve sintomatologia correlabile all’infezione o addirittura asintomatiche. Figuriamoci quelle con sintomi gravi.
I giovani, con qualche sfuriata comportamentale, specie per quelli che già vivono un disagio sociale per le più svariate ragioni, hanno chance per superare il periodo di reclusione forzata, ma tanti vecchi non ce la possono fare e, se sopravvivono, lo fanno a scapito della loro qualità di vita, perdendo l’autonomia o acquistando l’etichetta di deteriorato mentale.
È doveroso però sottolineare che nella maggioranza dei casi non è l’infezione virale da Covid-19 a determinare il peggioramento clinico, ma la perdita della voglia di vivere che porta al rifiuto di alimentarsi, di bere e di relazionarsi con il mondo esterno, almeno nel modo ritenuto adeguato, costringendo gli operatori sanitari ad intervenie con farmaci (indispensabili spesso i sedativi), cateteri, sonde, punzecchiature per posizionare accessi venosi periferici e centrali che, inevitabilmente, aggiungono sofferenze e riducono ulteriormente le scarse risorse a disposizione di chi ha perso la motivazione di andare avanti.
Si chiama “sindrome da allettamento”, il nome non rende forse ai non esperti, ma è davvero grave e, non solo per la formazione delle tanto avversate lesioni da decubito, quanto per la compromissione dell’intero organismo che, non raramente, va incontro ad una condizione di disidratazione totale (a cui diamo il nome di iperosmolare) che porta a morte se ce ne accorgiamo troppo tardi.
Per accorgersene bisogna essere giardinieri e intervenire in tempo utile, anticipare le conseguenze peggiori e irreversibili.
Mi direte, anche il meccanico si accorge se manca l’acqua nel motore di un’autovettura e di conseguenza provvede a riempirne il serbatoio, ma la differenza sta nel fatto che la macchina non si può procurare l’acqua da sola; se il serbatoio è vuoto, il motore si fonde e il patatrac è fatto.
L’organismo umano, invece, ce la mette tutta per recuperare l’acqua che manca e mantenere adeguata la circolazione del sangue, prioritaria per la sopravvivenza. Il corpo umano è costituito in gran parte di acqua, inteso come elemento fisico, H2O, che sta in gran misura nelle cellule e nell’interstizio tra di esse, cioè nei tessuti. L’acqua totale si riduce con l’avanzare dell’età, rimanendo comunque intorno al 50% del peso corporeo nei grandi vecchi, valore che si commenta da solo e che evidenzia quanto sia indispensabile per la vita questo elemento. Se manca, il sodio nel sangue si concentra fino a valori di gran lunga superiori alla norma, richiamando l’acqua che si trova all’ interno delle cellule nel tentativo estremo di preservare il circolo ematico. Non sempre o per lo meno non subito la pressione arteriosa che noi misuriamo con grande solerzia si abbassa al punto da metterci in allarme per la semplice ragione che l’organismo attiva tutte le risorse in suo possesso (ormoni e altre sostante) capaci di costringere i vasi sanguigni e mantenere la funzione di trasporto di ossigeno agli organi vitali. Si attivano i reni che riducono fino ad annullare la produzione di urina, a scapito dell’eliminazione dei cosiddetti cataboliti, prodotti di scarto del metabolismo che, accumulandosi nel sangue, provocano effetti tossici. L’insufficienza renale e l’alterazione degli ioni che, insieme all’acqua si spostano dall’interno all’esterno del comparto cellulare, sconquassano tutto l’organismo e conducono a quella condizione irreversibile che noi medici chiamiamo stato di shock che può essere definito, in altre parole, il preambolo della morte.
Il giardiniere si accorge se ad una pianta manca l’acqua, ma per far questo deve osservarla, ascoltarla, accarezzarla, oserei dire incoraggiarla e non perdere mai la speranza che possa farcela a riprendersi.
Così deve fare il medico, l’infermiere, il fisioterapista, gli operatori socio-sanitari tutti e tutti insieme.
Pietro e mogliePietro ce l’ha fatta, nonostante i lunghi giorni in cui è stato costretto ad un letto, sedato e legato, affinché non si strappasse le flebo indispensabili per la sua sopravvivenza. 
È tornato a casa, ha potuto riabbracciare la moglie e questa è la più grande soddisfazione che un professionista della cura possa avere.
La Cura, tanto più in un contesto pandemico, non può essere limitata a contrastare l’infezione virale e le altre patologie spesso coesistenti nello stesso individuo, con cocktail di farmaci, non privi di effetti collaterali e di interazioni dannose, che riducono le risorse insite in ognuno di noi e minano pesantemente le capacità di recupero.
In molti casi, pur avendo ottenuto la “guarigione virologica” da infezione da virus Sars- Cov- 2 sancita dalla conquista del “tampone negativo”, le persone anziane, colpite da una cascata di complicanze che si susseguono senza tregua, non sempre ce la fanno a superarle e a riconquistare quel benessere al quale attribuiamo il nome altisonante di “salute”. Alcune, ahimè, soccombono, private persino del diritto ad una morte dignitosa.
Di solito rifuggo dall’ attribuire colpe all’uno o all’altro così come dalle semplificazioni, ma, in questo caso, mi continua a risuonare nella mente la stessa domanda “E’ sempre colpa del coronavirus?”.
Non so rispondere, come sempre, ma so che continuerò ad essere un medico-giardiniere finché il destino me lo concederà.

 

rosanna vaggeL’emergenza Covid non pare abbia alcuna intenzione di recedere, lo spauracchio della seconda ondata autunnale assume giorno per giorno sempre più evidenza, le curve riportanti i numeri dei contagi, degli ospedalizzati, di quelli in terapia intensiva, dei morti, numeri rigorosamente basati sulla positività dei tamponi, ora salgono, ora scendono lievemente per poi raggiungere un plateau e infine impennarsi in picchi che lasciano aperta solo la strada della scaramanzia. I media declamano che altri paesi stanno peggio di noi, come la Francia e la Spagna, come se l’antico detto popolare “mal comune mezzo gaudio” potesse essere consolatorio per l’intero paese Italia che primeggia in abilità preventive per la tutela del bene comune.
È davvero così? Mi chiedo con grande amarezza, perché il mezzo gaudio non l’ho mai digerito, in qualunque situazione fosse applicato. Non ho mai digerito, ad essere sinceri, nemmeno i “ma”, quelli legati al “non si può fare altrimenti”, peggio ancora se pronunciati dopo la premessa “hai ragione, si dovrebbe … ma …” e giù ostacoli a non finire come lo Stato, la Regione, i Comuni, i Sindacati, le Assicurazioni, i Tribunali, i capi, i colleghi, i vicini e chi più ne ha ne metta. Mai e poi mai in nome del buonsenso, della giustizia, del rispetto, dell’etica professionale. Il tutto, se non altro, alla faccia della par condicio.
Avete mai sentito parlare di Liguria ai telegiornali nazionali? Riguardo ai contagi, intendo. La Liguria è piccola, curva, riservata, popolata da tanti vecchi. Sarà per questo? Certo la tragedia del ponte Morandi l’ha portata agli onori della cronaca, ora a fare "audience" ci pensa il salone Nautico, ma mai viene annoverata nell’elenco delle regioni più colpite dal coronavirus. Eppure questi sono i dati:


LIGURIA COVID
Un bel primato, considerato che è prima su 4 indicatori negativi, seconda nel 5° indicatore, anch’esso negativo e ben 11esima sull’unico indicatore che possiamo definire con il segno positivo riguardando le persone testate ogni 100.000 abitanti. Il test è riferito ovviamente al tampone molecolare.
Non a caso il Genoa è la squadra di calcio più colpita, essendo saliti a 22, tra giocatori e staff, i positivi al coronavirus in data 3 ottobre.
Il risultato è che, dopo un breve periodo di tregua tra la fine di agosto ed i primi di settembre, riprende il ping pong dei pazienti in cui si riscontra il tampone positivo, molti dei quali presentano disabilità fisica o psichica, tra le RSA e/o i reparti ospedalieri ed i Centri sul territorio, ben pochi, che sono autorizzati ad accoglierli. Peccato che anziché di palline, si tratti di esseri umani, in carne ed ossa, trasferiti da un posto all’altro, spesso distante dal loro abituale domicilio, ai quali non resta che essere disorientati e confusi, per un presente sconfortante ed un futuro incerto, anche se perfettamente integri dal punto di vista cognitivo, per lo meno quello definito dai test mentali ai quali facciamo abitualmente riferimento nelle valutazioni geriatriche, come il più gettonato Mini Mental State Examination. Figuratevi per quelli che non sono più integri, ai quali abbiamo attribuito l’etichetta, spesso indelebile, di deteriorati mentali con più o meno evidenti alterazioni comportamentali.
A questo proposito, non posso fare a meno di pensare al concetto più estensivo della cognizione, intesa come la capacità di interagire con l’ambiente esterno, condizione che, insieme all’autopoiesi, cioè la capacità di generarsi dall’interno, caratterizzano i sistemi viventi (Maturana HR, Varela F: Autopoiesi e cognizione. Marsilio Editori, 1985).
Secondo questa teoria i sensi rappresenterebbero gli elementi strutturali da cui prende origine il processo cognitivo, a partire dalle espressioni più lievi, come la capacità dell’ameba di percepire differenti concentrazioni di zucchero in un liquido e di muoversi verso il gradiente maggiore per soddisfare il suo bisogno di energia e nutrimento, fino a quelle più complesse come la capacità di fare calcoli, prendere decisioni, percepire il profumo di un fiore o innamorarsi (da un articolo di Antonio Bonaldi: Materia, mente e salute, 12 novembre 2018).
Secondo la teoria dei sistemi complessi, la vita sarebbe una proprietà che emerge dalla sinergia di tre domini, l’ambiente, la cognizione, l’unità auto poietica, come illustrato nella diapositiva sottostante tratta da una mia relazione dal titolo “La salute è informazione e consapevolezza” presentata ai Corsi di Cultura di Chiavari nel febbraio 2019.
RosannaCOGNIZIONE
Non voglio affatto apparire presuntuosa appropriandomi di concetti che percepisco a malapena, più con il cuore che con l’intelletto, ma, se è vero che tutto è interconnesso, se le relazioni con l’ambiente circostante sono fondamentali per tutti gli esseri viventi, se uomo e natura costituiscono una totalità indivisibile, sono convinta che sia necessario perseguire l’ obiettivo salute in ben altro modo, e non solo limitarsi al distanziamento o al confinamento dei contagiati, o alla ricerca sfrenata per trovare un vaccino, come sta avvenendo in questa pandemia.
Affrontare la pandemia solo attraverso i servizi sanitari non può essere sufficiente e molte falle del sistema si sono rese evidenti.
Insomma, la ruota non gira.
Basta pensare alle persone che vivono in situazioni logistiche tali da non poter garantire l’isolamento domiciliare, nuclei di 10 o più individui conviventi nello stesso appartamento o in comunità di accoglienza dove il contagio è inevitabile. I più sono giovani, i sintomi scarsi, ma basta un po’ di tosse o qualche linea di febbre per ricorrere al pronto soccorso, qualcuno viene ricoverato e poi? Resta il tampone positivo, l’impossibilità di ritorno a casa ed inizia una corsa contro il tempo alla ricerca di un luogo in grado di accogliere il malcapitato fino a che non ottenga due tamponi negativi a distanza non inferiore alle 24 ore l’uno dall’altro. Se ha ancora sintomi o bisogno di ulteriori controlli clinici, poco importa, è fondamentale che sia in regola con quanto stabiliscono le disposizioni che sanciscono la guarigione virologica da infezione Covid-19.
Succede proprio così a famiglie originarie del Bangladesh o del Marocco o del Senegal che in alto numero popolano il centro di Genova e non solo.
Se nei primi mesi di pandemia, non diversamente dal passato, il problema era “il vecchietto dove lo metto?”, in questa seconda fase il problema si allarga ai migranti, alle badanti, al personale dei trasporti, a chi non ha fissa dimora o è di passaggio.
E gli studenti? Le classi in quarantena? La ricerca spasmodica dei contagiati dopo contatto con il cosiddetto “caso”? Poco importa se il contatto è più o meno stretto, con o senza dispositivi, intanto è sempre meglio fare di tutte le erbe un fascio e chi più ne ha ne metta.
Così la ruota non gira. E la valutazione clinica rimane sfumata, confinata ai margini del percorso decisionale centrato sulla positività del tampone molecolare per la ricerca del fatidico virus con la corona. Il risultato di una analisi di laboratorio diventa inevitabilmente più importante dell’auscultazione del torace del malato o dell’ascolto delle sue esigenze. Non si può fare altrimenti, è la regola, si dice.
“Prioritaria la salute!”, proclamano i ministri, i senatori, i deputati, gli assessori, i leader dei partiti politici, tutti indistintamente. Logica conseguenza è che bisogna dare largo spazio alla medicina e a tutto ciò che la compone.
Giusto, penso io, è fuori discussione che il sistema sanitario abbia avuto e continuerà ad avere un ruolo straordinario per il benessere delle persone, ma non possiamo dimenticare neanche per un solo attimo che la salute è molto di più dell’assenza di malattia e riguarda l’intera vita.
La salute, infatti, dipende soprattutto da determinanti che di regola sono ritenuti estranei o poco influenti sulla “produzione” di quantità e di qualità di vita di una popolazione, mentre sono mitizzati altri che al contrario hanno scarsa rilevanza.
La diapositiva sottostante, tratta dagli articoli dello stimato economista Gianfranco Domenighetti, purtroppo scomparso, riporta il contributo di ciascuno di questi determinanti alla longevità e, come si può notare, il settore sanitario è quotato per non più del 15%.
CONTRIBUTO LONGEVITA
Ben più importanti sono i fattori socio-economici che contribuiscono fino al 50% alla nostra longevità, cosa che, se riflettiamo, appare persino ovvia. Solo per fare un piccolo esempio, come può stare bene una persona che è senza lavoro o, ancor peggio, non ha un tetto sotto il quale ripararsi, anche se non è stato contagiato dal coronavirus?
La salute è una proprietà dei sistemi complessi definita emergente, che significa che sorge in modo spontaneo e non prevedibile attraverso lo studio analitico dei singoli componenti del sistema; come tutte le proprietà emergenti (la vita, la coscienza, il tempo, il pensiero), sfugge ad ogni definizione esclusiva o meglio, ognuno di noi, ha la propria definizione, ugualmente vera.
La scienza medica ci ha insegnato a riconoscere molte alterazioni che ci fanno perdere la salute (le malattie) e in molti casi ha messo a punto espedienti efficaci per porvi rimedio (le cure), ma la salute non riguarda solo la medicina, riguarda la vita e quindi per ottenere salute dobbiamo occuparci della vita in tutte le sue manifestazioni.
Se ce lo dimentichiamo, la ruota non gira.

 

rosanna vaggeSto pensando da giorni a cosa scrivere nella rubrica di Per Lunga Vita per non essere noiosa e monotona, ma non riesco a distogliere la mente dal Centro post acuti Covid che dirigo da oltre 6 mesi e che ad oggi ha accolto qualche centinaia di persone, di tutte le età e nazionalità, risultate positive al famigerato tampone per la ricerca del virus Sars-Cov-2.
Mi perdonerete, pertanto, se parlerò ancora di questo periodo pandemico e vi racconterò delle storie, frammenti di vita di altri, che vivo nel quotidiano e che mi impongono interrogativi ai quali, come sempre, non so rispondere.
Nei mesi scorsi, in particolare maggio e giugno, i pazienti che venivano accolti erano prevalentemente anziani e, nella maggior parte dei casi provenivano dalle Residenze Protette e RSA sparse sul territorio, altri vivevano al proprio domicilio assistiti da familiari e badanti. Avevano contratto il virus e la conseguente infezione respiratoria nei modi più svariati, ma l’accesso al Pronto Soccorso o il ricovero ospedaliero per traumi o patologie intercorrenti di vario genere era senza dubbio la causa predominante.
Questo mi porta ad una prima considerazione che è esattamente l’opposto di quella che è scaturita dalla mente dei dirigenti politici della mia regione. Anziché pensare a blindare i vecchi nelle strutture erigendo barriere sempre più invalicabili e formare il personale di assistenza sulle “infezioni ospedaliere”, che significa medicalizzare la vita ancora di più di quello che è già, investirei sulla de istituzionalizzazione e sulle cure domiciliari, potenziando il territorio di servizi dedicati che permettano percorsi diagnostico-terapeutici tempestivi finalizzati al mantenimento dell’autonomia della persona.
Non è difficile comprendere come mesi e mesi di allettamento protratto, dove è concessa al massimo la mobilizzazione in poltrona, interrotti di tanto in tanto da qualche compassionevole video-chiamata, in ambienti asettici, in cui teoricamente non potresti valicare, anche per quelli in grado di camminare, la porta della stanza di reclusione, lascino nel cuore una sofferenza tale da farti morire dentro ancor prima che sopraggiunga la morte fisica o la possibilità di ritornare nell’abituale residenza dopo la cosiddetta “guarigione virologica”.
Ritornare dove? A casa propria non è più possibile, nonostante si siano ottenuti doppi, tripli, quadrupli tamponi negativi, nemmeno per quelli che la possedevano in precedenza e venivano accuditi da parenti, amici o badanti. Le condizioni cliniche e logistiche sono cambiate e, tra queste, la fa da padrone la perdita dell’autonomia, inevitabile dopo il periodo di immobilizzazione forzata, alla quale segue la perdita della badante, che ha dovuto arrangiarsi come poteva e magari ha fatto rientro al paese d’origine e in ultimo la perdita del domicilio per chi non viveva in famiglia o non era proprietario, per la disdetta in anteprima del contratto d’affitto, considerata l’incertezza del domani.
Insomma, gira che ti rigira, di perdita sempre si tratta e, causa la crisi economica in cui si trova l’intero paese, comprendo bene come i famigliari che accudivano con fatica i loro vecchi in ambito domestico, cerchino in ogni modo di accelerare le richieste di indennità di accompagnamento e ottenere il ricovero definitivo in convenzione con le ASL nelle strutture socio-sanitarie, quelle con funzioni di mantenimento a vita. Succede così che Lazzaro, che ha ottenuto la guarigione clinica e virologica dalla polmonite da Sars-Cov-2 da oltre 5 mesi, debba ancora attendere chissà quanto tempo per entrare in una RSA a costi agevolati, nonostante i parenti si siano dati un gran da fare per intraprendere l’iter burocratico necessario. Privatamente il posto c’è, ma il costo si aggira intorno ai 3000 euro al mese, Lazzaro ha una pensione di 600 euro e i figli poco di più per cui vien da sé che i conti non tornano.
Come è possibile perdersi in tali lungaggini burocratiche? Tanto più che il tasso di occupazione dei letti nelle residenze socio-sanitarie si è ridotto notevolmente per l’eccedenza di mortalità che si è registrata durante il picco pandemico? A questo domanda non riesco a immaginare una risposta che non sia deludente per il mio concetto di moralità.
Non va meglio per i vecchi che erano già in precedenza istituzionalizzati. A rallentare il tutto, ci pensano le zone “buffer”, create per evitare la diffusione del virus, che costringono l’ospite rientrante ad ulteriori 8 giorni di isolamento prima che possa accedere alle aree residenziali comuni e riprendere le consuete abitudini di vita. E poco importa se non ha sintomi di infezione da mesi e ha effettuato una ventina di tamponi che non hanno rilevato alcun virus.
Così accade, e non raramente, che la sorte ci metta lo zampino e si assista, quando meno te lo aspetti, ad una ripositivizzazione del tampone dopo gli 8 giorni di buffer per cui l’ospite viene nuovamente trasferito nel Centro Covid, in attesa della guarigione virologica sancita dal doppio tampone negativo a distanza di almeno 24 ore l’uno dall’altro. A Rita è successo per ben 3 volte, Giovanni si è limitato a 2 e Adolfina ci ha rimesso la pelle, ma nessuno saprà mai se è stato il Covid o l’andirivieni.
Perché il referto di un esame di laboratorio, nella fattispecie il tampone molecolare per la ricerca del Sars-Cov-2 deve essere più importante della clinica? Mi chiedo, con perplessità e disappunto.
L’orgoglio di essere medico che, nonostante alcune vicende spiacevoli della mia vita professionale, si è rafforzato a mano a mano che crescevano i capelli bianchi, mi impedisce di apprendere appieno perché debbano sempre prevalere gli aspetti giuridico-normativi, non certo privi di conflitti di interesse, a quelli dettati unicamente dal comune buonsenso.
A questo proposito, mi vengono in mente due diapositive, tratte dalla relazione di presentazione dell’Associazione di Promozione Sociale “I Fili” nel febbraio 2013 dal titolo “Il volto umano della medicina” in cui si sottolinea la difficoltà, ma anche l’indispensabilità di conciliare il punto di vista personale con quello impersonale, che significa, in altre parole, indirizzare le scelte politiche in modo che gli obbiettivi di salute pubblica e individuale si avvicino il più possibile. 
DICOTOMIAPUNTI DI VISTA

Ebbene, il coronavirus, ha distanziato ancor di più la dicotomia intrinseca dell’animo umano e la crisi economica conseguente ha aperto un solco profondo in cui è stata sepolta la solidarietà.
Questo triste pensiero si fa va varco sempre più frequentemente nella mia mente, ma forse è solo dovuto alla stanchezza del momento.
Ho l’impressione che in ogni situazione di emergenza, o presunta tale, si crei nell’opinione della gente comune una sorta di lassismo che porta a subire con passiva rassegnazione il destino che la società riserva ad ognuno di noi, quasi come esso stesso non ci appartenesse. Mentre la classe dirigente appare più impegnata a salvare la faccia e, ancor di più la poltrona o lo sgabello, piuttosto che interessarsi ed impegnarsi con atti concreti per il bene comune.
Ma passiamo ad un’altra grossa fetta della popolazione, composta di persone di diverse nazionalità, madri e padri di famiglia che vivono spesso in condizioni precarie (e tra questi ci sono molti italiani), ai giovani migranti accolti in comunità o dispersi come clandestini nel territorio, talvolta minorenni o presunti tali, ai lavoratori marittimi, ai senza fissa dimora e senza tetto.
Il coronavirus, i media lo hanno declamato a gran voce tanto da rendersi ridicoli, non fa differenza tra i diversi ceti sociali o discendenze etniche, ma a fare la differenza sono le disposizioni di legge applicate a chi non ha alcuna possibilità di provvedere per conto proprio all’isolamento.
E così succede che chi approda in Italia per sfuggire al destino drammatico che gli riserva il paese di origine e viene acciuffato dalle Forze dell’Ordine nelle stazioni ferroviarie, nei porti o in qualsiasi altro luogo, per qualsivoglia violazione di legge, debba essere accompagnato al Centro Covid per il congruo periodo di quarantena, prima di considerarlo non diffusore della malattia. Trattandosi di un “isolamento fiduciario” cautelativo, l’allontanamento volontario è la regola, ma a questo segue l’obbligatorietà di una serie di segnalazioni che sottraggono tempo e denaro alla società intera, perché, si sa, in emergenza, le cose inutili sono anche dannose.
Poi ci sono le persone, a volte famiglie intere, che si spostano da una sede all’altra per raggiungere il paese di origine per i più svariati motivi, come è successo a 4 cittadini residenti a Bologna che erano diretti a Genova, all’imbarco per il Marocco, per partecipare al funerale di un parente. Uno di loro è risultato positivo al tampone e la partenza è stata forzatamente rinviata a data da destinarsi. Per ironia della sorte il “caso” con tampone positivo ha ottenuto la guarigione virologica prima degli altri 3 che hanno comunque dovuto attendere che passassero i 14 giorni dal contatto stretto, nonostante i tamponi siano sempre risultati negativi.
Anche Fatma, che ha terminato il settimo mese di gravidanza, è stata trasferita al Centro per proseguire l’isolamento, dopo un breve ricovero in Ospedale per sintomi respiratori compatibili per infezione da Covid-19 confermata dalla rilevazione del virus al tampone naso-faringeo. La curva di crescita del nascituro effettuata pre-dimissione non dimostrava alcuna anomalia, ma, considerato che la sua permanenza si sta prolungando per via della persistente positività dei tamponi, la preoccupazione che per qualche ragione possa partorire anticipatamente non mi lascia affatto tranquilla e prestissimo contatterò i colleghi del Centro nascite del vicino ospedale pediatrico per avere un punto di riferimento per qualsiasi evenienza.
E poi c’è la storia di Alwi, sbarcato clandestinamente sulle coste siciliane alla fine di agosto, privo di documenti che sono stati dispersi in mare insieme ai vestiti. Alwi è stato censito nel centro di prima accoglienza come cittadino tunisino di 23 anni ed invitato a sottostare al periodo di quarantena, ma si è allontanato volontariamente ed ha raggiunto la stazione ferroviaria di Principe a Genova, con l’intento di prendere un treno diretto in Francia, dove lo aspettano parenti a amici. Non ce l’ha fatta, la Polfer lo ha fermato, censito, questa volta, come un marocchino nato nel 2003, quindi minorenne, lo ha immediatamente segnalato alla procura dei minori per la presa in carico e in ultimo lo ha affidato al nostro Centro per terminare la sorveglianza prescritta per chi proviene dall’estero. A lui mancavano solo poco più di 24 ore.
24 ore non sono certo un problema, tanto più se il tampone è negativo. Il problema è però la minore età o presunta tale. Il ragazzo vuole andarsene, ma la barriera linguistica è invalicabile: parla solo arabo e biascica pochissime parole in inglese. Come fare a spiegare che è finito in un bel pasticcio e che, per giunta, ha ben poche possibilità di farla franca alla frontiera? E come fargli comprendere che cercheremo in ogni modo di agire per il suo bene? Ci facciamo aiutare da Amal, una signora marocchina che parla anche l’italiano e apprendiamo che Alwi non è né minorenne né marocchino, ma nato in Tunisia il 4 ottobre 1997. Cerchiamo di spiegargli che probabilmente c’è stata una errata identificazione e riusciamo ad ottenere via WhatsApp un documento scritto in arabo con tanto di fotografia riportante il numero, 4 e 1997. Inequivocabilmente si tratta della data di nascita, per me, ma non per il PM della procura dei minori, una scortese e arrogante persona che non ha voluto accogliere le mie richieste, verbali e scritte, ed ha proceduto all’accertamento dell’età anagrafica che, notoriamente, richiede tempi biblici, per poi non essere nemmeno dirimente. E così Alwi resterà minore chissà per quanto tempo, anche se il suo aspetto, tanto più ora che si è lasciato la barba incolta, è ben diverso da quello di un adolescente.
Per fortuna il Coronavirus mi ha fatto conoscere anche belle persone, come Giovanni, responsabile di una Onlus che si occupa dell’accoglienza degli migranti richiedenti asilo e Chiara, dell’ufficio stranieri del Comune che in breve tempo si sono occupati del caso, hanno effettuato le corrette procedure e mi hanno permesso di trasferirlo in una comunità per minori in attesa che l’iter, ormai avviato, volga a termine.
Chissà che fine farà Alwi?
Difficilmente né verrò a conoscenza, così come difficilmente dimenticherò la sua triste odissea.
Potrei raccontarvi altre piccole storie, ma preferisco fermarmi a riflettere su ciò che è giusto o ingiusto nell’agire quotidiano del prendersi cura, sapendo che non ne verrò a capo.
Ma questa è ancora un’altra storia.

Ippocrate di Kos era indubbiamente un medico d’urgenza per il semplice motivo che allora il medico si prendeva cura delle persone che si ammalavano gravemente o che avevano avuto dei traumi.
Certo le teorie scientifiche su cui si basava Ippocrate non erano paragonabili a quelle odierne, ma il pensiero fondamentale che lo ha portato ad essere considerato il padre della medicina è che la malattia e la salute di una persona non dipendono da agenti esterni o da superiori interventi divini, ma piuttosto da circostanze insite nella persona stessa.
“La natura è il medico delle malattie … il medico deve solo seguirne gli insegnamenti”, un concetto che calza a pennello con le situazioni acute di grave criticità, traumatiche e non, di ogni tempo in cui la cura è finalizzata a potenziare quello che l’organismo mette già in atto per sopravvivere. Ovviamente ci vuole tempestività, oltre che essenzialità.
Un altro concetto ippocratico che condivido in pieno è l’attenzione allo stile di vita del paziente e a tutti quegli elementi, dietetici, atmosferici, psicologici, sociali che contribuiscono a sconfiggere la malattia da cui la persona è affetta, una visione globale che oggi è ben poco se non per nulla praticata e tanto meno pensata. La frase a lui attribuita “Non mi interessa che tipo di malattia ha quell’uomo, ma che tipo di uomo ha quella malattia” esprime in modo inconfutabile il suo pensiero e sottolinea l’importanza della relazione medico- paziente nel processo di cura.
Il dovere del medico è fare il bene del paziente e il dovere del malato è di accettarlo, un rapporto di tipo paternalistico, in cui la responsabilità morale del medico sta nella certezza che egli operi per il bene assoluto del malato. Un rapporto che oggi si è indubbiamente incrinato, ma che resta insito nell’animo umano perché basato sulla fiducia e sul rispetto reciproco.
Ce lo spiega bene Amelia che aveva 102 anni compiuti quando, in occasione della presentazione di una relazione dal titolo “La cura Slow” nell’ottobre 2012 le chiesi un suo parere su come doveva essere un medico. La diapositiva sottostante riporta la sua testimonianza. AMELIA
Amelia ora non c’è più, il tempo passa e le cose cambiano sotto i nostri occhi, senza quasi che ce ne accorgiamo.
Indubbiamente, a partire dal XVI secolo, l’emancipazione della persona, frutto delle grandi rivoluzioni politico-religiose e dei grandi pensatori da Locke a Kant, nonché l’evoluzione tecnologica del XX secolo hanno trasformato a poco a poco il principio di beneficialità alla base del rapporto medico-paziente e influenzato grandemente l’epistemologia della medicina.
Nel contempo la costruzione dell’Europa comunitaria con la miriade di regole settoriali, la nascita della Bioetica, tesa all’umanizzazione della medicina, l’affermazione dei principi di dignità umana e dei diritti fondamentali sanciti nella Convenzione di Oviedo (1997) e in tante altre dichiarazioni, sono tutti fattori che hanno contribuito al cambiamento culturale.
Il medico gradualmente abbandona i panni autorevoli e impunibili del sacerdote della salute, per indossare quelli del tecnico che stipula un contratto con il proprio cliente.
Si passa così dal “paternalismo medico” al principio di “autonomia” del paziente, fondato sul concetto di libertà e quindi di autodeterminazione nei confronti della propria salute e persino della propria vita. Il procedimento decisionale si sposta dal curante all’assistito, previa acquisizione delle informazioni necessarie e cambia il modo di giudicare sia civilmente che penalmente il vizio di informazione e il vizio di consenso.
Il Codice deontologico del medico basato sull’antichissimo giuramento di Ippocrate è mantenuto ancora oggi come espressione di una autonomia normativa interna per i comportamenti virtuosi della categoria, ma l’evoluzione della medicina nei rapporti con la società, ha creato sempre più stretti rapporti tra il “bene sociale” e il “ruolo professionale” dei quali si è fatto carico il diritto, espropriando al Codice alcune regole o travasandole nel diritto civile o nel diritto penale, a causa della loro rilevanza per l’interesse comune o nei regolamenti amministrativi sempre più pervasivi della professione.
La diapositiva sottostante, tratta da una relazione dal titolo “Sguardo antropologico” presentata a Chiavari nel 2011 riassume la complessità del sistema in cui siamo immersi, tale da renderlo simile ad una matassa aggrovigliata.

MATASSA
Il medico oggi ha a disposizione tecniche e strumenti che gli consentono di inseguire risultati un tempo impensabili, ma si trova a dover combattere con le forze di mercato, le esigenze amministrative e le pressioni sociali. Ecologia ed economia sono le due nuove discipline di cui la medicina attuale deve, spesso suo malgrado, tenere conto.
Già nel 1910, il Dr. Abraham Flexner constatava che nelle 155 Scuole di Medicina allora esistenti negli Stati Uniti, la priorità della ricerca scientifico-tecnica stava per diventare l’unico metro di giudizio dei traguardi già raggiunti o da raggiungere, mentre stavano perdendo importanza la clinica, l’attenzione al rapporto medico-paziente e la considerazione dei problemi di salute pubblica.
Ma non è tutto, infatti è accaduto che, come anticipato da Ivan Illich nel suo libro “Nemesi medica” del 1976, il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi prognosticati e la medicalizzazione della vita è diventata sempre più pregnante nella società.
Così i medici, che per millenni hanno curato singoli individui gravemente malati, sono ora chiamati a curare individui sani che hanno una maggiore probabilità di contrarre una malattia negli anni o nei decenni a venire.
Ma siamo proprio sicuri che prevenire sia sempre meglio che curare? Già nel 2008 autorevoli riviste come “The Lancet” si ponevano questa domanda e invitavano i clinici ad essere molto attenti ad eventuali conflitti di interessi.
Oggi si discute sulla sovradiagnosi con le conseguenze che comporta ed è stata evidenziata la tendenza a incrementare le malattie inserendo nella classificazione nosografica alterazioni o anomalie subcliniche, se non addirittura fattori di rischio al solo scopo di trarne un profitto, fenomeno identificato con l’espressione inglese “disease mongering”.
Nasce inoltre la prevenzione quaternaria che altro non è che la prevenzione della medicina non necessaria o della ipermedicalizzazione, ma di questa se ne parla ancora troppo poco.
In un contesto così complesso è difficile per i medici intraprendere decisioni su uno o l’altro trattamento, imbrigliati come sono nel concetto dilagante che la cura migliore sia quella basata sui dati scientifici (da “Il malato immaginato. I rischi di una medicina senza limiti” Marco Bobbio, edizione 2010).
La riflessione del collega cardiologo verte anche sul pericolo maggiore al quale può condurre il vortice della realtà di oggi, caratterizzato dalla sopravvalutazione della tecnologia, dal fervore dei “media”, dalla corsa sfrenata alla performance, dalla logica terrorizzante del rischio: perdere di vista il paziente, cioè l’essere umano che chiede aiuto, talvolta per problemi minimi, irrilevanti agli occhi del medico o pretende la pillola per poter realizzare i suoi sogni o confessa l’incapacità di rinunciare a ciò che ritiene la ragione della sua vita.
Anche l’antropologo Andrea Drusini (Antrocom vol. 1 n° 2-2005) sottolinea che mai, come in questo periodo, la medicina ha esibito la sua potenza tecnologica e mai come ora ha attraversato una così profonda crisi di credibilità da parte dell’opinione pubblica. Poi si chiede: “Cosa ne è del rapporto medico paziente oggi, dove il laboratorio e la diagnostica strumentale sono diventati spesso i luoghi di un dialogo frammentario e frustante?"
David Loxterkamp, medico di famiglia, in un bel articolo pubblicato su BMJ nel 2008, in cui utilizzando il fiume come metafora, definisce la relazione terapeutica l’incantesimo della speranza, sostiene che se tutto questo potesse essere ottenuto con una intervista computerizzata, con una checklist per il mantenimento del benessere e con le linee guida basate sulle prove di efficacia, i medici non sarebbero necessari.
La diapositiva sottostante riporta alcuni passaggi del testo.
IL FIUME
L’arte del curare è indubbiamente mutevole ed espressione della cultura e della società, ma la profonda interazione tra psiche e soma è centrale in tutte le forme di terapia e in tutti i tempi e la relazione terapeuta – paziente rimane un elemento fondamentale per l’auspicato benessere di entrambi.
Peccato che oggi la cura è stata assorbita dalla terapia scientifica fino a diventarne sinonimo: curare nel linguaggio attuale significa più o meno trattare la malattia con farmaci o comunque con strumenti tecnici. Stretto tra due opposti, l’oggettività generalizzante della malattia e la singolarità soggettiva del malato, il medico moderno ha scelto di considerare prioritaria la prima rispetto alla relazione, e su di essa infatti poggia quasi per intero il curriculum formativo del professionista.
Sono parole di Giorgio Bert pronunciate nel 2011, quando è nata Slow Medicine, parole che avevo riportato pari pari in una relazione dal titolo “La cura slow” presentata nell’ottobre 2012 a Sestri Levante.
L’emergenza Coronavirus ha esacerbato questa deriva riducendo ai minimi estremi la relazione con i pazienti e con i familiari e generando danni incalcolabili in quanto non misurabili che indubbiamente hanno influito sulla sopravvivenza. E i vecchi hanno avuto la peggio.
La scienza e la tecnologia hanno dimostrato tutti i loro limiti.
Giorgio Bert, in un recentissimo post su Facebook sottolinea che” i medici che hanno studiato e praticato la medicina nel secolo scorso sono stati convinti che è scientifico tutto ciò che può essere studiato mediante esperimenti e che quindi è continuamente sottoposto a verifiche e falsificazioni. Hanno altresì appreso che ci sono cose non sperimentabili, cioè “non scientifiche”, che tuttavia esistono. Covid ha seriamente messo in dubbio questa convinzione: ogni scienziato sembra poter dire qualsiasi cosa e il contrario di essa e parla, più che nei contesti scientifici, in Rete, sui giornali, in TV esprimendo abbastanza a casaccio narrazioni diverse, dati opinioni, ipotesi, pensate, previsioni … litigando e polemizzando. Ma allora la scienza esiste ancora? O è essa stessa una narrazione o meglio un guazzabuglio di narrazioni?” Si chiede con amara ironia.
Non posso dargli torto.
Ma non è tutto: le strategie finalizzate ad evitare la diffusione del contagio, basate sulle cosiddette evidenze scientifiche e sulle metodiche messe a punto per l’identificazione dei soggetti infettati e infettanti, hanno condotto all’isolamento di massa di esseri umani spesso ignari di quanto stava accadendo, privandoli di ogni libertà. L’autonomia e l’autodeterminazione delle persone sono svanite d’incanto in nome della salute pubblica e il dialogo medico-paziente, già così compromesso, è diventato ancor di più esasperato e conflittuale.
Non si poteva far diversamente, può essere, ma almeno rendiamocene conto e cerchiamo di rimediare, tenendo a mente che la relazione terapeutica è l’incantesimo della speranza e, come dice il detto popolare, la speranza deve essere l’ultima a morire.

IL GRUPPOSono le 8,30 del mattino e gli ospiti di casa Morando sono accompagnati nel locale multiuso e invitati a sedersi un po’ più distanti gli uni dagli altri rispetto al solito, come è opportuno fare in questo periodo di pandemia, ma anche per evitare qualche sanzione di troppo.
Da mesi, ormai, oltre alle assillanti richieste di procedure, report, avvisi di vario genere, può capitare che spuntino, di punto in bianco, inviati speciali dell’ASL, della Protezione Civile o di qualche altro ente preposto al controllo, capaci di monopolizzare la mattinata per ispezionare centimetro per centimetro la residenza ed inventarsi modifiche strutturali, costose e inutili, per arginare la diffusione del coronavirus.
Infatti, nella fase 1, Casa Morando ha dovuto riservare due camere con bagno attiguo e allestirle come area Covid con tanto di porta in PVC, zona filtro, uscita esterna coperta da materiale in plexiglas come stabilisce la norma, fortunatamente mai utilizzate. Nella fase 2, cambiate le disposizioni regionali, la stessa area è diventata “buffer”, cioè cuscinetto, per contenere eventuali nuovi ospiti che, se anche non hanno avuto alcun sintomo di infezione ed hanno tampone e sierologia negativa, devono restare rinchiusi per altri 8 giorni, assistiti da personale dedicato e bardato da astronauta fino ad una nuova determinazione del tampone a conferma della negatività. Solo allora potrà accedere nei restanti locali e incontrarsi con gli altri ospiti.
Come si fa, mi chiedo, ad accogliere una persona in tale modo? Pazienza, i due posti disponibili rimarranno vuoti fino a data da destinarsi.
A parte queste considerazioni, un po’ ribelli, che con l’avanzare dell’età riesco sempre meno ad arginare, mi soffermo ad osservare lo sguardo dei miei vecchi ed, avvicinandomi ad uno ad uno, con il sorriso nascosto dalla mascherina, propongo loro una intervista per sapere come hanno vissuto questo periodo di reclusione e isolamento. Perché, anche se Maria Grazia, la Direttrice, ha fatto di tutto e di più per farli sentire a loro agio, il distacco da parenti e amici e la rinuncia alle uscite, solo per fare alcuni esempi, hanno provocato un netto cambiamento nelle abitudini degli ospiti di Casa Morando.
Franca, la gattara, quieta e misurata, è la prima a rispondere alla mia domanda ed esordisce così: ”Questo periodo l’ho passato molto male, tutto limitato, arrivare sempre col fiato sospeso. Oggi si sa tutto perché c’è la televisione, una volta non si sapeva, magari sarà successo lo stesso … chissà! Comunque non ci sono parole per descrivere quello che sta succedendo!”.
“Hai paura?” Aggiungo io. La risposta è netta: “Non ho mai avuto paura perché penso che siamo abbastanza protetti”.
CarloÈ la volta di Carlo, allegro, intraprendente, solidale, capace di rasserenare le persone e di confortarle anche nei momenti più bui. Sembra smanioso di rispondere, ma, alla mia domanda sul coronavirus, i suoi occhi si rattristano e sentenzia: “Da un giorno all’altro non siamo più usciti, per la sicurezza della nostra vita. Non sono tranquillo, sono preoccupato, mi sento in bilico, non sono sicuro di niente, neanche adesso. Ho avuto paura perché quando non c’è tranquillità non si sta bene. Ricordo la guerra del ’40, il peggio, avevo 18-19 anni, più o meno, e anche allora non ero tranquillo, come adesso, anche se sembra che sia finito. Qui comunque si è vissuto abbastanza bene. La cosa che non mi è piaciuta è non avere parole per l’avvenire e vedere tutti mascherati è una cosa brutta. Anche molto spiacevole è sentire il numero dei morti alla televisione”.
Carla, entrata in residenza poco prima che scoppiasse il putiferio pandemico, sorride con ironia e dice: ”Questo periodo l’ho passato qui, che dire? Succede nella vita! Non è come la guerra, lì sì che eravamo limitati, eravamo giovani, soffrivamo. Ora siamo vecchi e le limitazioni si sentono meno. Io non ho affatto paura. La paura non serve, le cose se devono succedere, succedono e avere paura è del tutto inutile”.
Passo a Rita, 94 anni ben portati, una donna ancora in gamba che ha scelto di vivere in comunità perché a casa propria aveva ben poca compagnia e di tanto in tanto si lasciava prendere dalla tristezza e invadere da quel senso di impotenza che è poco gradito a chiunque. “Il periodo è stato brutto” dice scrollando il capo “soprattutto non si poteva uscire, fare le solite cose, vedere gente. La paura è tanta ma c’è anche la sicurezza di essere protetti”.
Pietro ascolta, in silenzio, le parole degli intervistati. Poi, ad un tratto, si alza dalla sedia aiutandosi con il bastone, si avvicina a me e scandisce sicuro di sé queste parole: “Io sono stato bene, come al solito. L’unica cosa che mi ha infastidito è di non poter andare a casa. Paura no, per niente”.
NINATocca a Nina, verso la quale sento una profonda compassione per la triste vita che le è toccata. Ha perso l’unica figlia, grande concertista internazionale, a seguito di una malattia devastante a soli 35 anni di età e da allora ha annegato i suoi dispiaceri nell’alcol fino a non sapere più nemmeno che nome avesse. Dopo un lungo periodo di ricovero in Psichiatria, è entrata in Casa Morando e siamo diventate amiche e confidenti.
È sempre cordiale, premurosa, attenta alle mie mosse, ma mai invadente.
Ecco il suo pensiero: “Come prima cosa sono rimasta allibita, preoccupata, sconvolta. Ho avuto l’impressione che la natura volesse scombinare le cose. Un cataclisma! Non ho capito cosa stava succedendo, ma di una cosa sono certa: se fossi stata a casa mia sarei stata peggio. Mi stupisce anche che di fronte a certe tragedie c’è gente che rimane indifferente. Comunque non ho mai avuto paura, è successo, fa parte della vita”.
Nita è seduta su una sedia, in disparte, come sempre. E’ una brontolona, strapparle un sorriso è veramente cosa ardua. Gli acciacchi che indiscutibilmente si porta dietro non le permettono di essere serena, né tanto meno di dormire di notte e purtroppo le sue riferite allergie o intolleranze alle medicine e pure alle caramelle, proprio così, lasciano ben poco spazio alla terapia farmacologica, cosa che contribuisce ad amplificare la sua sfiducia e disistima nei confronti di tutto il personale sanitario, me compresa.
Esordisce sostenendo che il periodo l’ha vissuto male, senza poter vedere nessuno, soprattutto le persone e che forse a casa sua sarebbe stata meglio. Poi mi lascia di stucco perché prosegue dicendo: ”Mi sono però sentita protetta. Tutte le settimane la disinfezione dei locali. Paura? No, non ne ho avuta. Dicono che finirà. Tu ci credi?”
Annuisco, mentre i miei occhi continuano a esprimere lo stupore di aver udito con le mie orecchie una affermazione positiva di Nita nei confronti di casa Morando.

LucianaMentre cerco qualche altro ospite in grado di darmi una risposta, mi imbatto in Luciana, che cammina avanti e indietro nel corridoio, appoggiandosi al corrimano. Di lei ho parlato nell’articolo dal titolo “Luciana, l’operaia di una catena di montaggio” pubblicato su Per Lunga Vita il 17 dicembre del 2017. La fermo e a bruciapelo le chiedo cosa ne pensa del coronavirus. Scoppia in una fragorosa risata, poi, come fa solitamente, si ferma davanti allo specchio, saluta con la mano la sua immagine riflessa e inizia a borbottare parole incomprensibili.
L’importante è essere sereni!! Penso io.
Inaspettatamente incontro la Sig.ra Bruna, di ritorno dalle sue puntuali uscite di primo mattino per fare la spesa, carica di sacchetti, che nessuno può toccare. Bruna, un ex insegnante di 93 anni, residente in Casa Morando da oltre 11 anni, a parte far la spesa nei negozi alimentari del circondario, si barrica nella sua camera e legge tre quotidiani ogni giorno, più libri di vario genere. Non si fida di nessuno, è schiva di tutto e tutti e, in questo periodo pandemico, dopo che è stata beccata in strada dalla polizia locale da sola e senza mascherina, non è stato affatto semplice spiegare alle forze dell’ordine le consolidate convinzioni della bizzarra vecchietta che guidano i suoi altrettanto insoliti comportamenti. Per fortuna la vicenda si è conclusa con un articolo dal titolo “Il caso” sul Secolo XIX che definirei senza infamia e senza lode.
Con non poca titubanza, chiedo a Bruna se posso rubarle pochi minuti per conoscere il suo pensiero su quanto sta succedendo e lei mi sorride, con aria furbesca e risponde così: ”Io questo periodo di coronavirus l’ho passato come al solito, sono sempre uscita. Spero solo che passi presto, però ho letto sui giornali del probabile ritorno del contagio in autunno. Speriamo di no”.
“Si ricorda che Lei ha avuto problemi con i vigili urbani quando l’hanno fermata?” Aggiungo io.
Ah sì! Ma sa, i bambini sotto i 6 anni non portano la mascherina … io non la posso portare”.
“Ma Lei ha un po’ più di sei anni?” Replico io.
“Ma …. Faccia Lei !"Mi risponde ironicamente e se ne va sorridendo; poi si volta di scatto e puntando il dito contro di me afferma “Si ricordi! Io sono un codice 1721 e pure C3!”.
E già! E’ anche figlia di Napoleone Bonaparte e discendente degli Asburgo, e si è sempre rifiutata di assumere i farmaci che gli specialisti ritenevano opportuni per limitare le sue stranezze.
Menomale, penso io ! Se l’avessero inondata di Serenase o qualche altro antipsicotico, chissà se sarebbe ancora al mondo? Se sì, non avrebbe certamente la stessa grinta.
Ed ecco che mi viene in mente la parola “vitalità”, intesa come quella energia fisica e morale che ci spinge a restare al mondo e a comportarci ognuno a modo proprio.
Credo che il segreto di Casa Morando sia proprio il fatto di essere vitale: di permettere ad una persona di chiudersi in camera, di innaffiare i fiori, di accarezzare un gatto, di aiutare in cucina, di ballare, ridere scherzare, ma anche litigarsi, criticare, tenere i musi e tante altre cose. Credo anche che la vitalità possa essere contagiosa, così come il coronavirus.
Maria Grazia, la Direttrice, coadiuvata da Angela, l’infermiera, nonostante i ridotti stimoli imposti dall’isolamento, hanno fatto il possibile affinché gli ospiti si mantenessero vitali e li hanno sempre resi partecipi di quanto stava accadendo nella convinzione che il senso di responsabilità non appartenga solo ai sani di mente e che questo sia indispensabile per affrontare nel migliore dei modi le situazioni di emergenza. Dal lavaggio delle mani, al distanziamento fisico, alla misurazione della temperatura, alla spiegazione del perché non si potevano fare entrare parenti e amici, ogni procedura ed ogni aggiornamento venivano esplicitati in modo semplice e chiaro ottenendo la collaborazione dei più, se non di tutti.
Le risposte lo testimoniano, hanno riconosciuto il difficile periodo, hanno avuto paura, chi più chi meno, ma non se la sono passata troppo male e soprattutto si sono sentiti protetti.
Il loro vissuto è per noi la migliore gratificazione.
Grazie, Maria Grazia, Angela e tutti gli operatori!
Un grazie di cuore anche al Presidente Francesco e ai consiglieri che ci permettono di realizzare ciò in cui crediamo.

rosanna vaggePurtroppo sì, è successo, ed ora brancoliamo al buio in piena pandemia.
Si potevano scegliere strategie migliori, applicare da subito il modello coreano o quello cinese, fare tamponi a tappeto, reperire in tempo utile i dispositivi di protezione individuale, applicare misure di isolamento più restrittive, ma l’unica realtà è che “siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa” per utilizzare le parole di Papa Francesco durante la sua preghiera.
Ed ora navighiamo al buio, tutti sulla stessa barca, in balia del vento, della pioggia scrosciante e delle onde alte parecchi metri e piangiamo i nostri morti che, ad oggi, 4 aprile 2020, in Italia, hanno raggiunto il drammatico numero di 15362, purtroppo destinato a salire.