Dire che sono rimasta esterrefatta è poco. Proprio così. Eppure ho letto e riletto più volte le norme che definiscono i compiti dell’Operatore Socio Sanitario. E non da sola, ma insieme alla Direttrice, considerato che quattr’occhi vedono meglio di due.
La recente normativa regionale ha reso obbligatorio che nelle residenze protette e RSA, pubbliche o private, certificate o convenzionate che siano, operino, oltre infermieri, medici, fisioterapisti e animatori, esclusivamente persone diplomate OSS (operatore socio sanitario) altrimenti gli organi ispettivi applicano le sanzioni.
Gli OTA (operatori tecnico assistenziali ), gli OSA ( operatori socio-assistenziali ), gli assistenti domiciliari e figuriamoci quelli senza titolo, seppur dotati di buon senso e grande umanità non sono più garanti di un’appropriata assistenza all’anziano. Lo dice la legge e quindi c’è poco da fare, bisogna adeguarsi e pure in tempi brevi: perlomeno provvedere all’iscrizione ai corsi delle persone non idonee e affiancarle nella turnazione con quelli già formati.
Il provvedimento, messo in questi termini, potrebbe sembrare facilmente risolvibile, addirittura arricchente la professionalità del personale di assistenza, ma per la piccola struttura ex-IPAB che ospita 25 anziani, classificata come Residenza Protetta, ha portato a uno scompaginamento dell’organizzazione e a una confusione di ruoli, senza considerare l’aumento dei costi di gestione, a svantaggio della qualità di vita dei nostri vecchi. E poi c’è il Jobs Act, di cui poco se non nulla comprendo, ma di cui subisco le conseguenze. So, per esempio, che esiste una proporzione tra quelli assunti a tempo indeterminato e quelli a termine, quelli a chiamata, part time e quant’altro; poi c’è l’interinale e ci sono pure le cooperative che fanno pressione, ma, anche se si volesse temporaneamente chiedere supporto a quest’ultime, occorrerebbe “vendere” in toto il personale di una determinata categoria, OSS o infermieri perché il “miscuglio contrattuale” non è permesso. Insomma un vero pasticcio che ha portato a un arresto, per non essere pessimisti, del percorso che la casa di riposo ha intrapreso da anni, fondato sul lavoro d’equipe e finalizzato alla formazione di uno staff di operatori che “agisca all’unisono come ‘educatore geriatrico’ aiutando chi invecchia ad assumersi la responsabilità di inventare la vecchiaia, all’interno dei margini di pensiero e di azione consentiti ai soggetti individuali e collettivi, in un delimitato contesto sociale e culturale”.
Districarsi tra i vincoli normativi tenendo fede all’impegno morale non è compito facile in generale, ma, nella situazione specifica, è bastato il pensionamento inaspettato di un OSS e un esame di fine corso non superato, per rendere impossibile la quadratura dei conti di turnazione, tra iscritti e formati. Con il rischio di essere sanzionati civilmente e accusati penalmente. Cosa non proprio piacevole e persino beffarda, dal momento che la casa di riposo, nonostante le trasformazioni indotte dal riordino delle Istituzioni Pubbliche e dall’evoluzione normativa regionale, ha sempre difeso a spada tratta gli scopi per cui è stata istituita ripresi nello Statuto del 2005 che recita all’art. 2: “La Fondazione opera senza fini di lucro [ …] con autonomia statutaria e gestionale e persegue scopi di utilità sociale, sempre nel pieno rispetto dei principi morali enunciati dai fondatori […]”.
Già nel 2011, il testo del progetto “Arco della vita” denunciava: ” […]come sia impossibile conciliare gli scopi statutari della fondazione, la pianificazione del distretto socio-sanitario che, in accordo con l’ASL, ha autorizzato codesto ente a Residenza Protetta per n. 25 ospiti non autosufficienti e la normativa regionale che impone alle Residenze Protette ospiti con solo un grado parziale di non autosufficienza ( AGED da 10 a 16). Peraltro la Fondazione ha dovuto far fronte a impegni economici per adeguare la residenza ai requisiti strutturali per non autosufficienti totali, togliendo risorse ai numerosi ospiti con scheda Aged inferiore a 10, che sono proprio coloro per i quali la Fondazione è stata istituita. A questa contraddizione e ambiguità etico-morale si aggiunge una forzata contraddizione tra servizio pubblico (ex IPAB) e la personalità giuridica di diritto privato che conduce a costi elevati senza poter usufruire di fondi pubblici […]”.
Sono passati cinque anni e con grande rammarico devo costatare che ambiguità, confusione, demotivazione e sconforto crescono a vista d’occhio, mentre gli anziani ignari subiscono, invecchiano e muoiono in strutture sempre più lontane dall’essere un luogo di vita.
Il progetto “Arco della vita”, che metaforicamente paragono a una maratona senza fine, ha subito una battuta d’arresto. Ci siamo fermati subito dopo il primo spugnaggio al Km 7,5. La tempesta accompagnata da raffiche di vento ci ha impedito di proseguire e siamo tornati indietro, per cercare riparo: un tetto, un piccolo rifugio che ci permettesse di asciugarci e riprendere fiato. Ora sembra che il vento si stia attenuando e forse qualcuno ha ascoltato le nostre grida di soccorso. Chissà! Non ci perdiamo d’animo, recupereremo il tragitto perso.
“L’Italia ha la capacità di associare l’ottuso soffocante dirigismo burocratico al più smaccato squinternato dilettantismo” scrive Giorgio Bert in risposta ad un post di Gavino Maciocco pubblicato su “Salute Internazionale” dal titolo “Linee guida all’Amatriciana”. Chi avrà la pazienza di arrivare alla fine dell’articolo capirà il perché questa frase mi sia rimasta tanto impressa nella memoria.
Tornando all’acquisizione del diploma di OSS, questo è stato reso obbligatorio, seppur con un percorso formativo “scontato” di un numero non ancora definito di ore, anche per coloro che, in possesso del titolo di infermiere, sono assunti contrattualmente come operatori assistenziali. E ce ne sono sempre di più che non trovano spazio negli ospedali, ambulatori, case di cura e residenze per anziani, sia tra i nostri connazionali, anche freschi di laurea, sia e soprattutto tra gli stranieri che, a ragion veduta preferiscono frequentare un corso OSS istituzionale piuttosto che intraprendere le pratiche per il riconoscimento della professione infermieristica acquisita all’estero, con tutti i rischi conseguenti che questo comporta. Carmen, una infermiera rumena che ho conosciuto anni fa e alla quale sono ancora legata da profondo affetto, per un irrimediabile errore interpretativo del nostro Ministero, era stata riconosciuta come vigilatrice d’infanzia per cui aveva dovuto abbandonare l’assistenza agli anziani, verso la quale si sentiva più portata, per cercare lavoro in un reparto pediatrico. Cosa non affatto facile. La fortuna aiuta gli audaci, si è soliti dire, e quella volta è stata veramente propizia: Carmen è riuscita a inviare in extremis la documentazione per l’iscrizione a un bando di concorso presso l’ospedale di Alessandria, che io avevo scoperto per caso sfogliando una rivista. Ce l’ha fatta. Lavora stabilmente nel reparto di ortopedia pediatrica, è soddisfatta, partecipa a missioni in Africa e ogni tanto ci sentiamo e ci piace ricordare quella straordinaria coincidenza che le ha cambiato la vita. Si tratta solo di un caso aneddotico che non fa testo? Non credo proprio, ve ne posso raccontare altri. Elido, un infermiere albanese specializzato in terapia intensiva non ha avuto la stessa fortuna, la sua competenza non è stata riconosciuta giuridicamente e ora, dopo anni di assistenza come operatore semplice, sta frequentando il corso, a sue spese, per acquisire le due SS che gli permetteranno di mantenersi il posto di lavoro.
Ma siamo davvero sicuri che frequentare un corso di 1000 – 1200 ore, correndo da un posto all’altro per tirocini, lezioni ed esami e mantenendo come si può il lavoro retribuito per affrontarne il costo, apporti quella crescita di competenze professionali tale da garantire una migliore assistenza?
O forse, ancora una volta, i nostri decisori e amministratori hanno scelto la via più semplice, quella di fare da scaricabarile, determinando, in buona o cattiva fede poco importa, lo smantellamento dei precari equilibri di singole realtà? Realtà che con tanta volontà e fatica e, spesso, poche risorse economiche hanno ritenuto prioritario di perseguire l’impegno morale per cui erano state istituite.
Lo statuto originale dell’ Ente di Assistenza e Beneficio pubblico ( 1942) a cui faccio riferimento cita testualmente: “[…] Lo scopo è di aprire un ritiro decoroso ove trovassero ospitalità con vitto e alloggio Signore e Signore, di buona condotta e buoni costumi, non affetti da malattie in atto, per cui dovessero essere sottoposti a trattamenti curativi che, per vecchiaia e altra causa, non fossero più in grado di procacciarsi decoroso impiego e occupazione […]”.
Eppure oggi, gli ospiti cosiddetti autosufficienti totali, quelli autonomi, capaci di fare tutto da soli, anche prendere le medicine, uscire a passeggiare o gestirsi la pensione, quelli con punteggio AGED di 2 o 3 o 4 o comunque inferiore a 9 che, ahimè, sono sempre meno, non solo per l’inesorabile scorrere del tempo, ma soprattutto per la facilità con cui sono appiccicate etichette di malattie e disabilità varie; ebbene queste persone sono comunque conteggiate come NAP ( non autosufficienti parziali con AGED da 10 a 16) dalle figure professionali deputate ai controlli ispettivi, per il semplice e tragico motivo che vivono in una casa di riposo convertita in RP/ RSA. Per ora. Perché la normativa regionale in continuo cambiamento, chissà che nome ci riserverà in un prossimo imminente futuro! Il calcolo del minutaggio dell’assistenza inesorabilmente sale e con loro il numero del personale, le procedure e i protocolli, il consumo di carta per annotare sigle incomprensibili, inattendibili e del tutto inutili e infine i costi. Sì i costi di gestione dell’intera struttura, mentre le rette, piuttosto contenute, sono rimaste invariate per l’ostinata volontà dell’amministrazione. Ma fino a quando tutto ciò sarà possibile? Inevitabile la deriva che appare irrefrenabile verso un’assistenza sempre più standardizzata e irriverente ai veri bisogni della singola persona che trova ospitalità con vitto e alloggio nell’ istituto.
L’esatto contrario del progetto “Arco della vita” che ha come sottotitolo “Credere nelle risorse umane. Dal “tessuto sociale” al “sincizio sociale” con sguardo antropologico.” Perché è nostra convinzione che “nel sincizio l’apparente disordine secondario alla fusione del citoplasma e alla locazione dei nuclei sia in realtà espressione di una organizzazione sinergica altamente specializzata”.
Per uscire dal circolo vizioso, è necessario un “cambiamento culturale che può essere promosso solo con un lavoro continuo e specifico che sappia convogliare le diversità culturali e formative di ogni operatore e accrescere l’istruzione e le competenze individuali e di gruppo” scrivevamo nel testo. Ne siamo convinti tuttora ma è innegabile che nel contesto in cui ci troviamo le difficoltà aumentano giorno dopo giorno.
Tra il personale, ci sono differenti nazionalità, differenti culture, differenti storie, differenti visioni del mondo, della disabilità, della vita intera. Il turnover è elevato perché c’è chi non resiste e se ne va, chi vorrebbe restare ma viene invitato ad andarsene, chi ha problemi e/o impegni di famiglia, chi doppio o triplo lavoro, chi parla con l’accento latino-americano, chi polacco, chi russo o ucraino e la giovane cuoca italiana che fa il cuscus.
Una babilonia in continuo movimento, frastornata e confusa, infarcita di nozioni di medicina e di morte, spaventata dalla responsabilità di compiti che per quanto specificati nei piani di lavoro, appaiono sempre troppo generici e indefiniti, che vaga disordinatamente intorno a schede piene di crocette, evacuazioni, cambi posturali, medicazioni, terapie, ritmi sonno-veglia.
Riusciranno a vedere Armando, Giuliana, Emma, Angela, Benedetto, Wanda, Germana, Sandra, Rita e tutti gli altri? Capiranno le loro espressioni e il loro linguaggio, spesso sbiascicato in dialetto più o meno stretto? Me lo chiedo ogni giorno, ma non riesco, o forse non voglio, darmi una risposta.
Tempo fa ho chiesto a Nella, una vivace vecchietta di 101 anni, se la cucina era di suo gradimento. Mi ha risposto con la solita ironica prontezza che le piaceva abbastanza, ma lamentava il fatto che qualche volta si mangiasse straniero. La giovane cuoca, diplomata chef con tanto di “toque blanche”, aveva azzardato ad aggiungere la cannella sulla macedonia e preparato il tipico alimento nordafricano con le verdure, appunto il cuscus.
Mi fermo qui e credo sia giunto il momento di spiegare le ragioni per cui ho iniziato questo scritto dichiarandomi esterrefatta. Ve lo racconto sperando che il diretto interessato non legga questo articolo o perlomeno interrompa la lettura prima di arrivare a questo punto.
Non molti giorni fa, nel tentativo di comprendere il perché eravamo stati piantati in asso dopo solo due giorni di affiancamento da una OSS diplomata in Italia, infermiera nel suo paese nativo che ci era stata indirizzata dal responsabile dei controlli ispettivi, ricevo dallo stesso questa risposta: “Se ne è andata perché le sono stati attribuiti compiti che non erano di sua competenza: ha pulito il pavimento della camera dell’ospite”. Cercando di nascondere un certo imbarazzo, anche se eravamo al telefono, ho risposto prontamente che disponevamo di una ditta che provvedeva alla pulizia di corridoi, bagni e parti comuni, ma che la pulizia quotidiana della stanza, rifacimento del letto e riordino degli arredi e quant’altro era, come da mansionario, attribuita all’OSS. L’imbarazzo crebbe tanto da rimanere basita quando mi sentii dire, con fermezza e una punta di acredine che spetta all’OSS solo il riordino di comodini e armadi all’interno, mentre l’esterno deve essere affidato all’impresa di pulizia. Del pavimento nemmeno a parlarne. Chiesi allora, credo con voce tremante, a chi spettasse raccogliere le cicche di sigarette che gli ospiti si ostinano a gettare in giardino, nonostante infinite raccomandazioni, ma non ebbi risposta.
Forse è stato meglio così.
Prossimamente dovremo subire il consueto annuale controllo. Come andrà? Ai posteri l’ardua sentenza.
7 febbraio 2016