Ogni giorno che passa, mano a mano che accresce la mia esperienza professionale nei confronti dei vecchi che vivono in famiglia o in strutture residenziali, nonché dell’organizzazione sociale che gravita intorno a questo mondo, sempre più mi convinco che il nocciolo della questione stia nella medicalizzazione della vita, dalla nascita alla morte, senza esclusione di alcuna età.
Lo spiega bene Ivan Illich nel suo libro “Nemesi Medica” al capitolo Iatrogenesi sociale.
“La medicina pregiudica la salute […] anche per effetto della sua organizzazione sociale sull’intero ambiente […]. La iatrogenesi sociale designa una categoria eziologica che abbraccia molteplici manifestazioni. Insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi bisogni dolorosi … e addirittura abolendo il diritto di auto salvaguardarsi. La iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, un prodotto industriale; quando ogni sofferenza viene “ospitalizzata” e le case diventano inospitali per le nascite, le malattie e le morti; quando la lingua in cui la gente potrebbe far esperienza del proprio corpo diventa gergo burocratico, o quando il soffrire, il piangere e il guarire al di fuori del ruolo di paziente sono classificati come una forma di devianza.”.
Più avanti al capitolo Cure indipendenti dai valori? prosegue così : “ Paradossalmente la medicina occidentale, che ha sempre affermato di voler tenere separato il proprio potere dalla religione e dalla legge, l’ha ormai esteso al di là di ogni precedente. In alcune società industriali la classificazione sociale è stata medicalizzata a tal punto che ogni devianza deve avere un’etichetta medica. L’eclissi della componente morale dalla diagnosi medica ha così conferito all’autorità asclepiea un potere totalitario. Si è difeso il divorzio della medicina dalla morale con l’argomento che le categorie mediche, a differenza di quelle giuridiche e religiose, poggiano su fondamenti scientifici non soggetti a giudizio morale. L’etica sanitaria è stata occultata in un reparto specializzato che aggiorna la teoria alla pratica effettiva […]. L’impresa tecnica del medico vanta un potere esente da valori […]. L’affermazione che l’attività terapeutica sarebbe indipendente dai valori è ovviamente un nefasto nonsenso e i tabù che hanno fatto scudo alla medicina irresponsabile cominciano a crollare”.
Se ci fermiamo solo un attimo a riflettere, ci rendiamo conto che queste forti parole esprimono in modo inequivocabile il tranello in cui siamo caduti. L’apoteosi è stata raggiunta nel mondo dei vecchi, la società si è organizzata per escluderli dedicando loro strutture specifiche a diversi livelli di intensità assistenziale: comunità alloggio, residenze protette, residenze sanitarie assistenziali .
Sempre nello stesso capitolo dedicato alla medicalizzazione della vita, Ivan Illich afferma: “La classificazione medica giustifica l’imperialismo dell’omogeneizzato industriale sul latte materno e dell’ospizio per vecchi sull’angolo di casa. Facendo del neonato un paziente da tenere in clinica finché non se ne certifichi la buona salute, e definendo il lamento della nonna un bisogno di terapie anziché di comprensivo rispetto, l’impresa medica crea non soltanto una legittimazione dell’uomo-consumatore formulata in termini biologici, ma anche nuove spinte verso una escalation della megamacchina.”. E ancora: “ La morte in ospedale è ormai endemica […]. La morte non assistita dalla presenza medica diventa sinonimo di ostinazione romantica, di privilegio o di disastro. Il costo degli ultimi giorni di un cittadino è aumentato, si calcola, del 1200 per cento con un ritmo molto superiore a quello dell’assistenza sanitaria in generale.”.
E tocca così un argomento a me molto caro, quello della morte naturale, evento che rischia di scomparire per essere sostituito dalla morte iatrogena. Preciso, per non essere fraintesa, che attribuisco al termine iatrogeno un significato più estensivo, comprendente non solo la morte conseguente ad un atto sanitario in generale, ma anche quella che avviene in contesti fortemente medicalizzati.
Il ricordo va subito a Silvia, protagonista di tanti racconti, che è morta nel silenzio della notte, nel letto dell’ospizio sul quale riposava da oltre 15 anni, con accanto il fratello Canzio, di 30 anni più giovane e raggomitolata ai piedi del letto Vittoria, la gatta rossa di Casa Morando. Si è spenta all’età di quasi 99 anni senza alcuna apparente ragione, se non il fatto di essere satura di vita. Solo allora Vittoria è scesa dal letto, con noncuranza , come se il suo compito di accompagnarla fosse terminato. Nessuna lacrima. Solo un saluto e un ringraziamento sommesso da parte di tutti per aver avuto l’opportunità di assisterla con serenità durante l’ultimo passaggio. Non è forse questa la morte naturale che tutti vorremmo avere?
Sarà pure una visione romantica, ma morire a 100 anni con tubi infilati in ogni orifizio, la maschera d’ossigeno, i suoni degli apparecchi medicali che registrano il respiro ed i battiti cardiaci, intercalato dallo stridore acuto degli allarmi, con solo accanto camici bianchi, frettolosi e asettici, credo che sia un’immagine che piaccia a ben pochi. A me non piace affatto.
Tornando al quesito iniziale, essere vecchi, sia a casa propria, sia in casa di riposo, non significa essere malati. Su questo non transigo proprio.
Certamente si può avere l’influenza o la polmonite o qualsiasi altra malattia o trauma a 4 mesi di vita, come a 40 anni o a 100, ma l’inesorabile proseguire nel tempo, di per sé, non può essere considerato sinonimo di malattia, altrimenti si genera una confusione tale da minare la soddisfazione di vivere e il senso stesso che ognuno di noi dà alla vita.
Si è persa l’idea dell’invecchiamento come processo naturale di ogni individuo con tutte le defaillance che comporta e, paradossalmente, si trascurano alterazioni funzionali o organiche che ben poco hanno a che vedere con l’età anagrafica, spesso correggibili utilizzando un po’ di sano buon senso. Prima fra tutte l’anemia che, se è comprensibile che a 100 anni, se non altro per la ridotta performance fisica, sia meglio tollerata che a 20, non si capisce perché anche nell’età più avanzate non debba essere prevenuta e corretta con una alimentazione equilibrata, con il supporto di ferro o vitamine o , se è il caso, anche con farmaci , prescritti ad hoc, a seguito della diagnosi ipotizzata, se non è possibile accertarla.
Il sangue di Fortuna conteneva 14,5 gr/dl di emoglobina quando si è rotta il femore, all’età di 104 anni compiuti. Eppure aveva da sempre privilegiato una alimentazione monotematica, ricca di latte e latticini, era diabetica e faceva insulina, anche se, a suo parere, l’insulina non era una medicina e non faceva esami di laboratorio da almeno 10 anni. Fortuna stava bene, era soddisfatta di essere ancora in questo mondo, nonostante la morte della figlia, 60 anni prima, esclamava spesso con vanto la sua età impuntandosi, di tanto in tanto, sul numero di anni che seguivano alla parola cento: a volte erano cento e …. tre, a volte cento e … quattro, a volte cento … e cinque. In una occasione, per un eccesso di orgoglio, ostentò di avere addirittura 203 anni. Che sia la motivazione ad incidere sul contenuto nei globuli rossi della tanto importante emoglobina?? O viceversa? Forse sì, forse no, poco importa: un caso aneddotico non ha nulla a che vedere con la medicina basata sulle prove di efficacia.
Comunque sia […]quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato[…], complice all’epoca odierna, la cosiddetta medicina difensiva può succedere che gli anziani residenti nelle case di riposo siano sottoposti a prelievo ematico di routine ogni 6, 12 mesi, quello che sia, e i risultati, quelli che siano, siano diligentemente inseriti nella cartella sanitaria, senza spendere un solo attimo di pensiero del perché e percome il referto riporti quei numeri. Unica eccezione quando i numeri sono clamorosamente distanti dal range definito di normalità. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la prevenzione e tanto meno con l’anticipazione di diagnosi.
Il concetto è sempre lo stesso: se nella nostra mente prevale l’dea che l’invecchiamento, con tutte le magagne che comporta, sia assimilabile al decorso di una malattia cronica invalidante, il comportamento di ognuno di noi, non solo dei professionisti della salute e quello collettivo della società si focalizzerà sull’assistenza del difetto ritenuto maggiormente responsabile della perdita di quella o di quelle specifiche funzioni che verranno, se possibile, sostituite. Semplice rapporto di causa-effetto. Incontinente: pannolone. Smemorato: farmaci per la memoria. Irritato: farmaci sedativi. Non cammina: carrozzina. Non mastica: pappone e così via, senza scendere nei particolari più prettamente sanitari.
Se la vecchiaia è simile ad una malattia e come tale va affrontata, logica conseguenza è che le case di riposo siano pensate e costruite ad immagine e somiglianza degli ospedali e non come luoghi di vita.
Ma come si fa ad essere felici in ospedale ? Mi chiedo.
Il mio pensiero vola a Rosanna Benzi, mia coetanea e concittadina. La sua voglia di vivere, la sua lucida determinazione, la sua capacità di essere di aiuto agli altri nonostante un’esperienza così drammatica, ha accompagnato la mia fanciullezza e forse ha lasciato un’impronta indelebile sul mio modo di vedere la disabilità. Me l’ero immaginata in tanti modi, ma mai come un viso sorridente che spuntava da un enorme scafandro, sicché, quando, molti anni dopo, mi apparve in una fotografia reale, ne rimasi colpita in modo brutale.
Avevamo fatto visita ai bambini poliomielitici ricoverati all’Istituto Gaslini, accompagnati dalla maestra, nel corso delle elementari, ma Rosanna non l’avevamo conosciuta. Ricordo invece con chiarezza una bambina distesa nel letto con una gamba corta e stretta, più simile ad una stecca piatta di legno che ad un elemento anatomico, che mia aveva accolto con un sorriso e con una generosità d’animo alla quale non avevo saputo rispondere per imbarazzo e sofferenza.
Rosanna Benzi e, così anche gli altri bambini in quell’epoca, non avevano scelta: erano stati sfortunati, la collettività stava facendo il possibile per aiutarli e li mostrava al mondo rendendo loro merito.
A distanza di poco più di 50 anni, i bambini fanno visita ai vecchi nelle case di riposo, a Natale o Pasqua e in poche altre occasioni.
Questo pensiero mi rattrista profondamente e mi chiedo: i nostri vecchi hanno scelta?
Per quanto le situazioni non siano paragonabili, la risposta, di primo acchito, è no, non hanno scelta, né se sono ricchi, né se sono poveri. Altri scelgono per loro e, tra le possibilità che il mondo odierno offre, scelgono con il loro metro di valutazione in base alla visione di ciò che è ritenuto valido, giusto, conveniente. Spesso la soluzione comporta inevitabilmente emarginazione e sostituzione.
Ci sono due frasi che coincidono con il mio pensiero che ha scritto la sociologa Mary Marshall nel suo libro “Il lavoro sociale con l'anziano: regole di esperienza per l'assistenza e la promozione sociale “.
La prima sostiene che c’è “una sottile linea che divide il vedere ogni singola persona nella sua unicità e vederla invece come un membro di un gruppo che ha dei problemi in comune”, e la seconda afferma che “la costruzione dell’immagine degli anziani, che elaboriamo partendo da un piano individuale viene riflessa, quasi in un gioco di specchi, su quello sociale”.
In altre parole il pensiero sottostante orienta il nostro comportamento e, per logica conseguenza, se si pensa che la vecchiaia sia una malattia, si utilizzeranno tutti gli strumenti in nostro possesso per contrastarla, dalle medicine alle indagini diagnostiche più sofisticate; le case di riposo saranno considerate fac simili dei reparti di lungo degenza riservati ai malati cronici; i momenti di svago, come quello di respirare all’aria aperta, fare un po’ di ginnastica, una semplice passeggiata o trastullarsi con un cane o avere in grembo un gatto, saranno considerati terapia e, come tali, limitati allo stretto periodo di somministrazione, in pratica, una o due volte alla settimana.
Tutto ciò, a mio parere, è delirante, oltreché ingiusto e irrispettoso.
Lo dice bene il grande amico antropologo Antonio Guerci nel suo libro : “Dall'antropologia all'antropopoiesi: breve saggio sulle rappresentazioni e costruzioni della variabilità umana” ( Milano, Lucisano, 2007 ) nella frase che qui riporto:
“Qualunque politica d’intervento sociale, dalla più minuta alla più radicale, assume come sua base sostanziale un assunto naturalistico, ovvero culturalistico, si fonda su una precisa visione dell’uomo, del suo essere al mondo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, e agisce di conseguenza.”.
Non mi resta quindi che urlare a gran voce il mio pensiero e adoperarmi, per il resto della mia vita, a non scendere mai al minimo compromesso su questo concetto: la vecchiaia non è una malattia e nemmeno le assomiglia. ( vedi vignetta di Giannelli da Il corriere della sera)