Maria è relativamente giovane, ha solo 74 anni, ma la vita non le ha concesso molti spazi.
E’ sola al mondo da tempo, troppo tempo, le sue origini sono umili, il suo carattere disinvolto e creativo, le piace girovagare per la città, senza una meta. D’altra parte, senza soldi, che meta può avere? E’ aiutata dai servizi sociali, abita in un piccolo appartamento dalle precarie condizioni igieniche perché a Maria non piace pulire la casa, né fare da mangiare. In passato faceva la sarta ed era abituata a parlare con i clienti, a misurare gli abiti, a suggerire loro le modifiche da effettuare, insomma a relazionarsi con la gente. Ora che non cuce più, per problemi di vista, e che le è stata applicata l’etichetta di deterioramento cognitivo, per inseguire il suo desiderio di socializzare è costretta a rivolgersi ai passanti, chiedendo loro qualche notizia, qualche curiosità locale. Ma, ahimè, un giorno cade, per strada: riporta solo lievi contusioni, ma è sufficiente per essere trasportata al pronto soccorso, ricoverata per accertamenti, in attesa che i servizi sociali la collochino in una sede più conveniente. L’opportunità è dietro l’angolo e l’affare è fatto: cosa è meglio per lei di una RSA convenzionata con il comune e con l’ASL ? Che importanza ha se non si considerano affatto i suoi desideri? E che dire della prevenzione con tutte le sue facce: primaria, secondaria, terziaria e quaternaria ? Non è forse prevedibile che una signora di 74 anni, in condizioni economiche precarie, sola, con un po’ di artrosi e osteoporosi che va tanto di moda, e anche con un pizzico di deterioramento mentale che non si nega a nessuno, possa inciampare in un gradino di un marciapiede sconnesso di una qualunque città della nostra penisola, anche se sita nel pianeggiante litorale e finire a gambe per aria? Prima o poi ? E se pensiamo all’efficienza, alla spesa, ai conti pubblici, oggi più che mai, in un’epoca di tagli su tagli?
Eppure, ogni tanto, l’incastro ad hoc succede e la tempestiva integrazione tra i servizi sociali e sanitari, ospedale e territorio appare in tutto il suo splendore rendendo onore alle capacità di programmazione delle nostre istituzioni. Anziana in condizioni sociali economiche precarie – ricovero di 3 giorni in ospedale per acuti a seguito di caduta accidentale in strada senza complicanze – sistemazione definitiva in RSA accreditata- nomina di un amministratore di sostegno scelto dal comune per la tutela degli interessi di Maria. Tutto funziona perfettamente.
Dietro le quinte
Quando Maria si trova legata ad una carrozzella in un salone capace di contenere tavoli da pranzo per 72 persone, contando solo gli ospiti, poltroncine e divanetti per la animazione, televisione, musica e qualche armadio e mobiletto di arredo, ci si accorge che qualcosa non funziona. Maria si arrabbia, si agita, chiede perché, cosa ha mai fatto per essere legata in questo modo; vuole sgranchirsi le gambe, fare qualche passo, andare in bagno. Poi rivolgendosi agli operatori e tirando con forza la cintura pelvica di “protezione” urla “ Non sono una delinquente, questa è una galera, liberatemi da questi legacci! Mi fate morire di crepacuore!” Gli operatori tentano di dissuaderla sostenendo, secondo un copione indelebilmente impresso nelle loro menti, di attenersi alle indicazioni del medico o dell’infermiera e comunque che è per il suo bene, così non cade. Se cade la responsabilità è loro, naturalmente, così come ogni nefasta conseguenza. Se muore di crepacuore la responsabilità è di Maria, non loro. Questo fa la differenza. Concedetemi una piccola parentesi: la morte per crepacuore esiste, eccome ed è classificata tra le cause di morte naturale. Io avrei qualche dubbio, non sull’esistenza del crepacuore, ma sul fatto che si tratti di morte naturale. Per me è morte iatrogena.
Così conosco Maria, entrata in residenza il pomeriggio precedente. I nostri sguardi si incrociano fugacemente, Maria è ancora in preda all’agitazione, alla rabbia, ma Maria coglie la mia solidarietà, sì, deve essere questo sentimento che fa scattare all’istante quell’empatia che ti rende più semplici le cose, ma solo se è vera, se sentita nel cuore. Mentre la rassicuro sulla buona fede degli operatori, assumendomi la responsabilità di una prescrizione mai data e presentandomi come il direttore medico della struttura riabilitativa in cui era entrata, per bontà delle istituzioni, per recuperare dalla caduta, le mie mani, quasi senza rendermene conto, sganciavano la fatidica cintura, cosiddetta di “protezione”. “Sei un angelo venuto dal ciel per liberarmi” mi ha subito detto e così è nata la nostra amicizia.
Sono passate alcune settimane e Maria cammina, aiutandosi con un girello nei tratti più lunghi, sale e scende dai piani con l’ascensore, insomma girovaga tra i pochi spazi, al chiuso o all’aperto, di cui la residenza dispone cercando di iniziare a parlare del più o del meno con le persone che incontra, soprattutto operatori o familiari, perché gli altri ospiti, come spesso succede, almeno in Liguria, sono restii a intavolare conversazioni tra di loro, nella convinzione che non ne valga la pena. Del resto è ben noto i vecchi non vogliono stare nelle case di riposo, proprio perché sono tutti vecchi. E come dar loro torto?
Io resto l’amica del cuore, il suo angelo custode, al quale riserva le sue confidenze più intime.
Ed ecco il suo racconto, trascritto con le sue parole.
Dedicato al primo ed unico grande amore: D’Urso ( con D, apostrofo Urso) Michele
E’ stato il mio primo grande amore. Ero andata dal Capo Sarto, che fa le divise militari alla Scuola delle Telecomunicazioni di Caperana per aiutarlo a cucire e mi sono messa a parlare con un signore. Io ero giovanissima e anche il signore, che mi ha detto di essere un sottufficiale di Marina. Era bello, di statura media piuttosto robusto ma non grasso, capelli bruni, occhi castani chiari. Abbiamo parlato del più e del meno e ci siamo innamorati l’uno dell’altro all’istante . Quasi subito ha voluto conoscere la mia famiglia. Mio papà era morto tanti anni prima, in guerra. Della famiglia rimaneva mia mamma, mio fratello più grande e sua moglie, mia cognata. Michele abitava a La Spezia e non era possibile vederci spesso, ma prestissimo, abbiamo iniziato a parlare di matrimonio. Mi ha regalato l’anello di fidanzamento che conservo ancora gelosamente: un anello d’oro con un brillantino, piccolo, ma con una bella luce.
Poi Michele è stato trasferito a Taranto e, con la morte del padre, ha dovuto aiutare e seguire la famiglia, originaria di Avellino, composta anche da una sorella che ho sentito per anni, ma ora non più. In un secondo tempo è morta anche la madre e si è ammalata di circolazione la mia per cui non potevo lasciarla e gli incontri diventavano impossibili per la troppa distanza. La promessa di matrimonio così è sfumata senza che noi lasciassimo di amarci.
Io non so più dov’è, so che era diventato maresciallo maggiore e non si è mai più sposato. Il ricordo mi procura malinconia. Lo vedrei volentieri, ma, nello stesso tempo, puoi ben pensare cosa potrebbe succedere: tanta, tanta tristezza.
E’ uscita dalla sala medica, con un’ espressione malinconica, ma serena, mi ha ringraziato.
Avrei voluto annotare questa esperienza sul diario clinico, ma non ne ho avuto il coraggio.
POST SCRIPTUM
Cosa mi porto a casa? (dal congresso di Slow Medicine)
“Predica Berto! Non deve esistere per Slow Medicine”. L’ho scritto due anni fa, frutto di una mia riflessione a seguito del primo congresso nazionale della neonata associazione al quale avevo partecipato con grande curiosità e entusiasmo .
Sono di guardia, come allora, appena rientrata da Torino, dove si è svolto nella bella sala del Piccolo Regio il secondo congresso nazionale e posso pensare, seppur con qualche inevitabile interruzione.
Cosa mi porto a casa? Ecco, mi viene in mente questa domanda, fatta da qualcuno a Franca, rappresentante di Altro Consumo … e poi, a ruota, mi vengono in mente le parole di un certo Signore, rappresentante di una Fondazione sociale, al quale avevo chiesto a titolo gratuito una sala convegni per la presentazione dell’Associazione I Fili : “ Stringi, stringi … cosa si porta a casa la gente?”. Sì, aveva detto proprio così, chiudendo ed aprendo le mani a pugno davanti al petto. Non essendo chiaro che cosa si portava a casa la gente, aveva negato non solo la gratuità della sala, ma pure il patrocinio. “ Sarà, semmai, per la prossima volta! Non abbiamo lavorato insieme e non vi conosciamo” . Della serie: “Prima vedere cammello …”.
Come si fa a biasimarlo? Non è forse in perfetta linea con le leggi del mercato? Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me. Basta metterci d’accordo sul valore, e la cosa è fatta. Semplice e lineare.
Ma, partiamo dall’inizio. Le somme si tirano dopo.
Della prima tavola rotonda dal titolo “Un’alleanza per una slow medicine. I professionisti, i cittadini, i giornalisti” non ho annotato nulla, ma Amelia Beltramini, giornalista di Focus ( Magica Amelia per il popolo di face book) la sentivo in sintonia col mio modo di pensare che si traduce, almeno lo spero, nel mio modo di essere e nel mio modo di fare. Bella, solare, sincera, speranzosa, concreta. Ha parlato dell’inesistenza di un giornalismo scientifico per così dire “di qualità”, di quanto siano poco pagati i giornalisti e dei conflitti di interessi, presenti e vincolanti, sempre e ovunque. Anche Franca Braga mi è piaciuta. Persone slow, da sempre, perché essere slow non vuol dire pagare la quota associativa di Slow Medicine né fare parte del gruppo face book. Lo era anche Vicentini alcuni secoli fa.
Di Gianfranco Domenighetti , che, insieme a Sandra Vernero, ha parlato del “Progetto Fare di più non significa fare meglio” ho annotato alcune frasi nei miei appunti: “La relazione dominante è ancora di tipo paternalistico ( 80% ca) soprattutto al sud dell’Europa e siamo ben lontani da quel minimo di educazione clinica indispensabile per rendere possibile l’alleanza. Il coinvolgimento dei pazienti ha buone probabilità di rimanere un MITO.”Questo il succo del suo pensiero. Chiarezza, concretezza, trasparenza, come sempre.
Marco Bobbio ha aperto la tavola rotonda dal titolo ”Perché è meglio non fare troppi esami?” elaborando, in senso clinico, le stesse perplessità di Domenichini ( così l’ho presentato alla mia amica Silvia, sorprendendomi di non arrossire per la gaffe). E’ difficile spiegare a un paziente che l’angioplastica è salvavita nell’angina instabile, mentre non è di dimostrata efficacia nell’angina stabile, senza considerare tutte le variabili che caratterizzano il malato e il medico nella loro unicità. Mi sono piaciute soprattutto le seguenti affermazioni rivolte ai medici: “Non c’è niente di peggio che fare un esame per tranquillizzare il paziente” e “Il riflesso oculostenotico” che è quello di intervenire con angioplastica sempre e comunque non appena si vede un restringimento di una coronaria. Quel che succede dopo, poco importa.
Corrado Bibbolino ha riportato dei dati poco confortanti e indiscutibili in quanto dati: “ Oltre 100 milioni di esami in Italia. Più aumentano gli apparecchi, più aumentano gli esami. A Roma 44% di in appropriatezza in radiologia.”
Davide Petruzzelli, presidente di una associazione no profit “La lampada di Aladino”, che su internet si presenta così “Una struttura dove non si cura il cancro, ma le persone che vivono l'esperienza del cancro” ha di nuovo ribadito la necessità da parte di tutti di porsi delle domande prima di fare esami come ad esempio:”Quante probabilità ho, in uno screening, di trovare un tumore che non si sviluppa e mi obbliga a sottopormi ad altri esami ?” Con la triste constatazione che: “Il 68” delle donne crede che lo screening riduca l’insorgenza del tumore al seno”.
Infine Luca Aimetti, medico di medicina generale di Torino ha parlato, riguardo ai pericoli prescrittivi (definizione che mi appartiene, non citata nel congresso)di “ ansia personale del medico, richiesta di oggettività da parte di tutti, autoreferenzialità …” concludendo con la frase “Solo se cooperiamo creiamo valore”.
Arriviamo così al dopo pranzo con la tavola rotonda “Scegliere le cure con saggezza” coordinata da Roberto Satolli che esordisce sottolineando che il movimento slow , di per sé controcorrente, come quello dei salmoni, non può non essere trascinato nella direzione del flusso dominante.
Porcile Gianfranco di Green Oncology parla di RESILIENZA e trasforma il più popolare detto attribuito a chi ha integrità morale da vendere a caro prezzo “Mi spezzo, ma non mi piego” nell’esatto contrario “Mi piego, ma non mi spezzo”, da interpretarsi come la capacità di far fronte a eventi stressanti riorganizzando la propria vita. Compromesso sì, ma finalizzato alla qualità di vita nonostante le avversità. Con questa spiegazione, ci può stare.
La relazione di Marco Trabucchi mi ha lasciato senza parole, o meglio senza risposte alle domande che mi ha scatenato , risposte che non ho trovato neanche leggendo il suo articolo pubblicato sulla rivista “La parola e la cura” sul tema della crisi nel welfare. Alle mie orecchie sono giunte le seguenti espressioni che diligentemente ho annotato nei miei appunti: “ Come muoversi? Punto primo: collocare l’intervento terapeutico nell’ambito dell’aspettanza di vita” E mi scatta la prima domanda: “Come si calcola l’aspettanza di vita?”. Poi sento questa frase, pronunciata con voce possente: “A me interessa meno l’aspetto etico” e mi scatta la seconda domanda: “ Ma l’etica non è parte impregnante e integrante di ogni scelta?” . Con questi “pensieri riflessi” mi viene difficile seguire il senso del discorso per cui decido di scrivere le parole che risuonano con maggior forza nella mia mente, certa che sarei riuscita a riordinarle in un secondo tempo. Eccole, nell’ordine cronologico di come sono state pronunciate:” Centralità della funzione ( vi risparmio la terza domanda riflessa)- disease- disability- interventi inutili – sprecare- mettere in testa agli operatori- centralità del luogo di cura ( altra domanda)- centralità della formazione ( altra domanda) “ e poi ancora, questa volta quasi battendo i pugni sul tavolo: “Mettiamoci in testa che il paziente continua a cambiare – assessment multidimensionale – dimensione tempo: passato-futuro – non lo rispetto ( credo si riferisse al paziente)- interventi coordinati – evitare la frammentazione delle cure- ” Il tutto in un solo fiato (che suoni la tromba in un’orchestra? La mia ennesima domanda). Ha concluso con una affermazione che mi ha lasciato perplessa al punto che non sono riuscita a completare la frase: “La vera scienza è sobria. L’obiettivo fondamentale è …”. Ebbene sì, non ho capito, mi è sfuggito, insomma non lo so. Come vedete le domande sono infinite. Ah, dimenticavo! La prima parte del discorso era contrassegnata da NOI( forse riferito a plurale maiestatis) e VOI( forse riferito al movimento slow). Trattandosi di un relatore invitato a un congresso di Slow Medicine finanziato anche dai partecipanti che hanno pagato iscrizione, spese di viaggio, pernottamento, colazione, pranzo e cena, mi sembrava per lo meno carino, accorciare le distanze piuttosto che sottolinearle. Forse è meglio così. Se questo è essere slow, mi ritiro subito a vita privata.
Poi è la volta di Giusi Pintori che esordisce dicendo che non ha slides, il file si è danneggiato, ma precisa che forse è meglio così, essendo lei in rappresentanza dei pazienti e non solo di quelli affetti da idrosadenite, ma di tutti coloro che devono fare i conti con la malattia e riconquistare il loro benessere. “Con le slides avrei scimmiottatoi medici …” ha usato proprio questo termine, indubbiamente provocatorio, ma , pronunciato in quel modo, con l’accento che solo i sardi sanno dare , un timbro di voce ammiccante accompagnato da un sorriso che lasciava trasparire un miscuglio di emozioni , tradiva di più la voglia e la speranza di una relazione vera tra il mondo della medicina e quello della vita, piuttosto che sottolinearne le differenze. Ha precisato quanto l’errore o il ritardo di diagnosi del medico, nella pratica quotidiana, potesse essere accettato, ma non gli errori procedurali e metodologici. Ha parlato di consumatori passivi di informazione e della necessità di concretezza per creare alleanze vere con le associazioni di pazienti. Poi ha chiesto che le persone in sala, presenti al congresso in quanto pazienti, alzassero la mano: 4-6, forse qualcuno in più, dal palco si vedeva male, comunque meno di 10. Numero piuttosto deludente e non solo per Giusi che le rappresentava . Almeno io la penso così: che ci sia da fare di più, cose diverse e in modo diverso . Chissà che cosa ha pensato il mio “stimolatore di domande” al quale non interessa l’aspetto etico?
Tra le domande del pubblico trascritte sui foglietti che le hostess si apprestavano a portare sul palco ne è uscita una che chiedeva ai relatori perché non fossimo capaci di fermarci di fronte ad un avanzare costante e tumultuoso della scienza e della tecnologia. Per primo Trabucchi, con tono perentorio ha espresso il suo pensiero che qui sintetizzo:” Pigrizia – incapacità di studiare – bisogna che cambi lo stile di fare medicina”. A questo puntoSatolli, forse per alleggerire una certa aria di conflittualità tra le parti, ha parlato della Ferrari, tutta luccicante, ma senza freni., accennando anche al divario sempre esistente tra quello che si dice e quello che si fa, insomma “Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare”. Poi , per stemperare ancora un po’ l’ambiente, ha raccontato una barzelletta: “Sapete quale è la differenza tra il medico e Dio ? E’ che Dio non crede di essere un medico”.
Finalmente arriviamo all’ultimo tema: “Aspetti di etica, di comunicazione, di relazione”. Giorgio Bert la fa da padrone, parla di lacrime, di commozione, di gioia, di dolore e di cipolla, lacrime che hanno la stessa composizione chimica e non è possibile sapere dalla sola composizione chimica perché la persona piange: bisogna chiederglielo. Così distingue i due mondi, quello ripetibile, della scienza, quello irripetibile, della vita, della narrazione. Il primo lineare, con rapporti di causa – effetto; il secondo circolare, legato alla relazione. La metafora è di effetto, ma mi convince solo in parte, mi appare riduttiva, un po’ troppo semplicistica rispetto alla sacralità intrinseca dell’argomento trattato: il pianto. Anche Silvia Stagnaro, mia compagna di liceo scientifico, mi esprime le sue perplessità rispetto alla ripetibilità della scienza, al rapporto causa-effetto, ma non ho tempo di pensare, altrimenti perdo il treno. Più tardi, non so per quale strana associazione di idee, mi viene in mente il mio amore per la matematica e, in particolare, gli studi di funzione, per la soddisfazione di trasformare dei numeri, delle parentesi e simboli vari, in qualcosa di concreto da poter riportare su un grafico. Se non sbaglio le vie per arrivare a risolvere il rebus, se così lo vogliamo chiamare, sono diverse (devo chiedere a mia sorella che è insegnate di matematica) e le linee sono arzigogolate con curve e controcurve, se non proprio circolari, mentre la linearità a cui si riferisce Giorgio fa più pensare a una linea retta, a un trattino, come quello che si mette per indicare il rapporto causa-effetto, o semplicemente al 2+2 fa 4 e nient’altro che 4. Comunque sia, Giorgio è Giorgio: il suo fascino è incontestabile, almeno per me.
E’ la volta di Spinsanti che parla del vizietto dell’etica, quello di oggettivare i comportamenti: buono quindi slow, cattivo quindi fast . Poi proietta una diapositiva “Bisogna resistere con scelte quotidiane consapevoli” e cita la frase tratta dal libro “Il Niente importa” di Safran Foer : “E’ difficile negare che le nostre scelte quotidiane plasmino il mondo”. Fin qui posso essere d’accordo. Anche su una sorta di sintesi finale in cui cerca di tradurre, in atti concreti gli aggettivi attribuiti dal movimento slow alla medicina:
1. Farò il tuo bene (medicina SOBRIA)
2. Ti coinvolgerò nelle decisioni (medicina RISPETTOSA)
3. Non ti lascerò anche se non hai mezzi ( medicina GIUSTA)
Poi presenta una diapositiva con su scritto: “ Mangiare è un atto agricolo ( Wendell Berry) – Curarsi è un atto politico ( Slow medicine)”. Che non ci sia un si di troppo? Mi fa notare Riccardo Ierna. Curarsi? Cioè il verbo riflessivo, curare se stesso un atto politico? Le parole hanno un senso o no? Mi chiedo. Quando mi curo faccio politica? Mah, forse sono solo stanca. Meglio piantarla lì, non me ne voglia Silvana Quadrino per il taglio impietoso che infliggo al suo discorso conclusivo: la relazione toglie certezze e che la comunicazione è una scommessa. D’altra parte, Silvana, un po’ te lo sei meritata per aver impedito di sforare, anche per pochi secondi, il tempo attribuito ai relatori annunciando con spietata indifferenza gli ultimi 2 minuti, oltre i quali doveva giungere inevitabilmente la parola fine.
Come tirare le somme, detto in altri termini casa mi porto a casa?
1. Nel mondo lineare del ripetibile, del 2+2 =4 posso affermare che le poche certezze che avevo sono sfumate via. Insomma che nella realtà dei fatti la linearità non esiste, nemmeno il trattino che divide il rapporto causa - effetto; detto in altri modi 2+2 raramente e solo casualmente fa 4.
2. Nel mondo circolare della relazione, le certezze non ci sono mai state, quindi resta confermata la difficoltà di tutto, difficoltà estrema, d’altra parte come si fa a codificare ciò che è giusto, ciò che è saggio, ciò che è appropriato, ciò che è rispettoso. Per tali ragionamenti più complessi rimando a “Predica Berto”.
Non penserete per caso che ho fatto un viaggio a vuoto?
Neanche per sogno.
Mi porto a casa la complicità affettuosa di una vecchia, proficua amica, Silvia Stagnaro, con la quale ho condiviso due bellissime mezze giornate, il sorriso onesto e curioso di Riccardo Ierna che mi ha permesso di dare un volto ai suoi intelligenti commenti che di tanto in tanto compaiono su face book, la bellezza di Silvia Costantini e il loro dolcissimo modo di amarsi, la concretezza di Franca Braga, gli occhi spiritosi e magici di Amelia Beltramini e poi i baci, gli abbracci, i sorrisi, i saluti affettuosi degli amici che quotidianamente si interrogano su quello che fanno, che dicono, che pensano . Perché se è vero, come dice Giorgio, che la relazione è circolare, la bella relazione crea come una corrente d’aria, calda se hai freddo, fredda, se hai caldo che ti circonda, ti avvolge e ti fa davvero stare bene. E perché no, il fatto di poter pensare a voi e raccontare ad altri amici, che non hanno potuto partecipare al congresso, come Lidia Goldoni, quello che è avvenuto ( per me) e che sto scrivendo. Grazie Slow Medicine, per darci questa opportunità. Dove andremo non si sa … ma il percorso certamente lo faremo insieme: e il percorso è lento e faticoso.