“Curare la cura”: mi piace …. ma come si fa? E se si trovasse il modo di stilare una sorta di protocollo, di algoritmo per curare la cura… come si fa a divulgarlo, a insegnarlo, affinché tutti possano trarne beneficio?
Non so da che parte cominciare, ma sono certa che sia necessario, anzi indispensabile, così provo a riflettere.
Da anni si parla di continuità assistenziale, di ospedale e territorio, di integrazioni socio sanitarie; le cure si dividono magistralmente per intensità, alta, bassa, intermedia, non mancano certo le professioni che gravitano intorno al mondo della salute e della malattia, sempre più numerose, le diverse specializzazioni, le tecnologie, i farmaci, le strutture, gli spazi . Ma allora …. Cos’è che non va? Perché non si riesce a passare dal dire al fare?
Penso agli anziani, alla loro fragilità, alle case di riposo che li accolgono, alle valutazioni multidimensionali e mi vengono in mente tutti gli episodi ai quali ho assistito, negli anni, che dimostrano in maniera inequivocabile quanto sia ancora il divario esistente tra le buone intenzioni della società e la capacità di trasformarle in fatti concreti. Certo, i casi individuali sono spesso difficili, le circostanze ingarbugliate e confuse, talvolta è necessario aguzzare l’ingegno, pernsarne una più del diavolo, come si è consueti dire, per tentare di porre rimedio a situazioni complesse. Questi casi dovrebbero però essere l’eccezione, non la regola e …invece … è prassi comune, scegliere la strada più comoda, più semplice, per mettere una pezza istantanea che, si sa bene, serve a ben poco, se la stoffa non regge. Pezza dopo pezza, non c’è proprio più niente da rammendare. E comunque con il tessuto pezzato non ci si ripara dal freddo.
Penso a Germano, di soli 69 anni, al quale è stata messa l’etichetta di morbo di Pick per l’insorgenza di demenza associata a atrofia frontale che, nel giro di pochi mesi, l’ha reso incapace di fare qualunque cosa, se non quello di occuparsi della raccolta differenziata dei rifiuti che, dopo averli accuratamente divisi, gettava negli appositi contenitori a pochi metri da casa sua, con minuziosa precisione e costanza. Germano aveva iniziato a comportarsi in modo strano da circa un anno, ma gli episodi erano saltuari e attribuiti, di volta in volta, a distrazione, stanchezza, morale basso. Poi, di punto in bianco, l’intera famiglia fu coinvolta in un vortice tale da essere incapace di uscirne con le proprie forze e da dover richiedere l’intervento delle istituzioni preposte ad aiutare i cittadini in situazioni difficili.
Grazia e Germano, originari del Veneto, da 5 anni si erano trasferiti in Liguria per aiutare Silvia, la figlia, infermiera dell’ASL addetta ai prelievi domiciliari, sposata con due ragazzini in età scolare. Poi la malattia di Germano.
Ed ecco che famiglie normali, con un buon livello culturale e inserimento sociale, stabili economicamente, sono costrette a vagare da una istituzione all’altra per capire almeno a chi rivolgersi, ottenere un indirizzo, un percorso, per poter affrontare l’immediato futuro, anche solo arrivare al giorno dopo. Richieste, ricette, prenotazioni, moduli di diverso colore e forma, che si concretizzano in visite mediche, esami diagnostici, valutazioni, il tutto con relativi trasferimenti, disagi, la stagione calda che avanza, la malattia che si aggrava. Poi un episodio, apparentemente banale, interrompe l’inconcludente monotonia della sequenza: esami - prescrizioni - farmaci. Germano ha la diarrea.
Un giorno, poi l’altro e l’altro ancora, il disagio diventa intollerabile. A nulla servono i fermenti lattici, gli antibiotici intestinali e nemmeno i pannoloni, anche quelli più sofisticati , con la mutandina a rete per evitare gli arrossamenti della cute. Germano, con il suo instancabile sorriso, privo della minima preoccupazione di quanto sta accadendo dentro di sé e nel mondo che lo circonda, vaga, con la sua diarrea, di stanza in stanza, nudo o vestito, che importa, affaccendato in azioni che è un eufemismo definire inoperose, mentre l’esasperazione della famiglia avanza con furore irrefrenabile. Non resta che il Pronto Soccorso, la cui mission è quella di “rispondere ai bisogni soggettivi ed oggettivi della popolazione con interventi tempestivi, adeguati e ottimali a pazienti giunti in ospedale in modo non programmato per problematiche di urgenza e di emergenza”. La risposta non è proprio tempestiva e nemmeno ottimale, comunque, secondo la valutazione del medico di guardia, Germano non necessita di ricovero ospedaliero, deve far ritorno a casa, con la diarrea. Al medico curante il compito di far passare la diarrea; a Grazia quello di rincorrere il marito e pulire la casa. Cosa c’è di più semplice ? “A ognuno il suo”.
Silvia è un’infermiera, si rende conto della disperazione della madre che non riesce ancora a comprendere, accettare, elaborare la sofferenza che si sviluppa, in modo dirompente, in tali circostanze ed ha una sola certezza: Grazia non riuscirà a sopportare a lungo la preoccupazione, la paura, oltretutto deve anche essere operata, a breve, per una recidiva di distacco retinico. Cosa fare se non chiedere aiuto? Ma a chi? Al curante? Il medico aveva fatto tutto quello che era possibile: aveva diligentemente compilato le richieste di esami, di visite specialistiche, le ricette per i farmaci, aveva avviato le pratiche per l’invalidità civile, cosa altro avrebbe potuto fare? Ai servizi sociali? Li aveva già contattati nel recente passato e la risposta dell’assistente sociale era stata quella di allargare le braccia. Un ricovero di sollievo in RSA? Già chiesto, ma la lista era infinita e il responsabile aveva arricciato il naso e scosso la testa, come per dire di perdere ogni speranza. E poi mancava l’invalidità, la valutazione dello stato patrimoniale, non aveva nemmeno l’amministratore di sostegno e, per di più, a complicare la situazione, Germano era sposato con Grazia da molto tempo, ma in seconde nozze. Era vedovo della prima moglie, con una figlia della quale negli anni aveva perso ogni traccia. Silvia era figlia di Grazia e del suo primo marito, morto in giovane età, sicché Germano era il padre che l’aveva accudita e cresciuta, a tutti gli effetti, era il padre al quale destinava tutto il suo affetto e la sua dedizione, era pure regolarmente sposato con sua madre, ma non era il padre in senso anagrafico e giuridico.
Germano è ancora in Pronto Soccorso e Silvia non sa più che pesci prendere, ha bisogno di un minimo di tempo per riflettere, per organizzarsi e affrontare la situazione: ha un marito, due figli che vanno a scuola, una madre disperata, un padre demente con un problema emergente, forse banale, ma capace di rendere la situazione ingestibile e, per di più, deve decidere su un eventuale trasferimento nella città di origine per motivi di lavoro. Esausta si rivolge a una residenza per anziani, privata, che possa accoglierlo direttamente dal Pronto Soccorso per il periodo necessario per tamponare questa spiacevole circostanza ed evitare il peggio. Il costo non è trascurabile, 113 euro al giorno, ma è già tanto che ci sia il posto e che la direzione accetti di accoglierlo. “Minimo un mese” esclama la direttrice, sventolando la carta dei servizi ma, data la circostanza, si dichiara disposta a fare anche un po’ di sconto, se in camera doppia: solo 100 euro. Come si può pretendere di più? Eccomi rimbalzata la palla, nel mio ruolo di responsabile sanitario: devo solo accertarmi che il paziente sia in condizioni cliniche stabili e possa essere accolto in una RSA di mantenimento. Alla collega del Pronto Soccorso, intenzionata a dimetterlo perché “non ha niente” mi rivolgo così: “ Se non ha 2 di potassio puoi mandarlo, sperando che non arrivi in struttura troppo tardi, per non sconvolgere gli operatori. Lo vedremo domani mattina”. Germano entra in struttura alle 22,30 con la diarrea stabile da 20 giorni. Il potassio è 3,2 mEq/L. Accordi rispettati, non ci piove. I globuli bianchi sono più di 14.000, ma di questi non si è parlato.
Lo conosco il giorno seguente: è gentile, sorridente, sereno, esprime parole di apprezzamento sulla struttura dove è stato condotto, convinto di essere ricoverato in un reparto ospedaliero. Sto al gioco, cogliendo una fugace strizzata d’occhio della moglie, e mi presento. Mi dice subito,con fierezza, di aver fatto parte della Brigata paracadutistica Folgore. I suoi racconti sono coinvolgenti al punto che si avvertono le emozioni del lancio, del volo, dell’atterraggio, emozioni forti che Germano riesce a trasmettere perché questa è la sua realtà, l’unica che conta davvero. Nel sottofondo, Grazia scuote la testa, dolcemente, con un sorriso appena accennato, e il suo è un gesto d’amore, di orgoglio e rassegnazione allo stesso tempo. Perché Germano nella “Folgore” non c’è mai stato. Era un tecnico radar dell’esercito, da sempre appassionato di paracadutismo. Ora il suo sogno si è finalmente avverato.
Mi chiede se è possibile abbassare le sponde del letto, ”così mi sento costretto e non posso alzarmi per andare in bagno, in caso di bisogno” sussurra con tono puerile. A questa richiesta dalla logica ferrea non posso far altro che accondiscendere. Così Germano può liberamente fare da sé, anche se in modo non troppo canonico e pochissimo apprezzato dagli operatori: usufruisce del bagno della camera adiacente alla sua e, nel tentativo di rimediare alla forza prorompente del suo intestino, disegna le pareti con materiale organico poltaceo e pure maleodorante.
Passano poco più di 24 ore e l’addome di Germano si distende, è teso e all’ascoltazione è possibile apprezzare borborigmi con timbro metallico. Non ci resta che inviarlo in Pronto Soccorso precisando che è entrato solo il giorno precedente, proveniente dallo stesso Pronto Soccorso e che necessita di valutazioni più approfondite. Questa volta, dopo radiografie, ecografie, di nuovo gli esami di laboratorio e la visita chirurgica la diagnosi è “occlusione intestinale, sospetto volvolo del sigma in paziente con grave decadimento cognitivo istituzionalizzato”, quindi la conclusione: “Si rinvia in struttura. Terapia consigliata: Movicol 2 bustine al giorno” Dimenticavo: “ […] fino alla risoluzione del quadro clinico”. Il giorno seguente ancora, l’addome è sempre più teso e devo intervenire con l’aiuto di un collega chirurgo in pensione per avere la certezza del ricovero ospedaliero. Lo ottengo dopo diverse telefonate, tra il supplichevole e il minatorio, piccoli escamotage concordati con i colleghi più comprensivi, messaggini vari fino a notte avanzata, il tutto condito con una relazione di invio in Pronto Soccorso, della serie “Scripta manent, verba volant” che, proprio per questo, non ho il coraggio di fotocopiare e allegare alla cartella.
Dopo circa una settimana di ricovero in Chirurgia, in cui il quadro occlusivo si risolve senza ricorrere all’intervento, l’ospite istituzionalizzato è rinviato in residenza. Finalmente può proseguire la sua permanenza in RSA a 113 euro al giorno, 100 con lo sconto.
Passa un mese e Germano, convinto di essere malato, si piazza a letto e non si alza più. Aspetta pazientemente di guarire per tornare a casa: ancora una volta il ragionamento non fa una piega. Per convincerlo è necessario inventarsi il trasferimento in un reparto di convalescenza architettando un cambio di stanza e di piano, del tutto fortuito, ma decisamente provvidenziale. Ora sì che può togliersi il pigiama, lavarsi, vestirsi, passeggiare lungo i corridoi, mangiare in salone, chiacchierare con gli altri pazienti, in attesa di un qualcosa che ha già dimenticato. Meglio così.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se i suoi tessuti non avessero retto all’allettamento protratto, se si fosse piagato, anchilosato o fossero intervenute altre complicanze. In fondo un mese non è poi così corto. Un mese a 100 euro al giorno.
Per quanto riguarda il futuro non oso avanzare alcuna ipotesi.
Anni fa, quando lavoravo in ospedale in emergenza, avevo scritto una lettera ai vertici delle istituzioni preposte alla salvaguardia della salute dei cittadini, lettera che non era piaciuta affatto.
Quanta ingenuità! Rileggendola mi sento nei panni di Michele, il protagonista del romanzo di Niccolò Ammaniti “ Io non ho paura” e sorrido.
Ecco alcuni punti:
“[…] Oggi la sanità è cambiata: il medico ha perso parte della sua autonomia, è schiacciato da un sistema che privilegia burocrazia, forma, tecnologia e lo allontana sempre di più dal malato. […]
Quello che è avvertito pressoché all’unanimità è una corsa sfrenata per apparire, apparire e basta, una totale confusione di competenze e di ruoli, una ferrea cultura di attribuzione della colpa piuttosto che della condivisione di responsabilità, un disinteresse per i veri bisogni della gente e per quali siano le migliori risposte da attuare. Nei momenti più tristi ho avuto l’impressione che noi, medici ospedalieri dipendenti, fossimo considerati come semplici pedine di un complesso gioco di cui non è concesso conoscere le regole e in cui gli animatori non considerano o non conoscono affatto la gioia, la soddisfazione, la motivazione , la stima, la fiducia, come pure la sofferenza, la paura, la solitudine, la morte. La morte, inevitabile conclusione del nostro ciclo vitale, ma purtroppo talvolta drammatico risultato di errori, colpe o scelte inadeguate.”.
Prima mi occupavo di criticità in ospedale, ora mi occupo di cronicità nel territorio, ma cosa è cambiato? Oggi, come allora, si parla di efficienza, efficacia, umanizzazione, ottimizzazione delle risorse, obiettivi, verifiche, indirizzi. Parole, belle parole che non trovano alcuna possibilità di tradursi in fatti concreti se non si interiorizzano concetti come competenza e responsabilità che sono alla base di qualunque organizzazione di qualità.
Ed io sono cambiata? Oggi, come allora, certa dell’inevitabilità della morte, mi interrogo sul significato di morte naturale e di morte iatrogena e sono sempre più convinta che:
“ […] Dobbiamo percorrere un’altra strada, indubbiamente faticosa e lenta, ma sicuramente più redditizia per l’essere umano in quanto tale. E’ la strada dell’onestà, della lealtà, del rispetto, della morale.
E’ questa e solo questa la formula magica per guarire la sanità.”.