Lo chiamerò Ubaldo, attribuendo, per la prima volta, un nome di fantasia, perché la storia che sto per raccontare è una storia vera ed è una di quelle che fanno male, che sollevano pensieri scottanti, che mettono per così dire il dito nella piaga.
Una piccola ustione oggi, una più grande domani, ecco che la mia pelle è tutta una cicatrice. Ora basta, devo imparare ad avvicinarmi al fuoco con una tuta ignifuga.
Ubaldo ha 70 anni, troppo pochi per meritare l’istituzionalizzazione “a vita” , ma la sorte non l’ha certo favorito: a poco più di 60 anni è stato colpito dal morbo di Parkinson che gli ha reso impossibile mantenere il lavoro e l’abituale stile di vita. Ubaldo infatti ha una personalità intraprendente, con un pizzico di stravaganza, ha sempre condotto una vita sregolata, in giro per il mondo, con il suo lavoro di rappresentanza , è stato sposato, poi divorziato, ha una figlia che vive altrove e con la quale ha perso i contatti da oltre 20 anni.
Ubaldo odia il suo compagno di vita chiamato Parkinson: ha girato parecchi specialisti, ha provato diverse terapie che gli procuravano più effetti collaterali che benefici ed è caduto in una profonda disperazione perché non ce la fa proprio a tollerare che le sue gambe non rispondano più ai suoi comandi, tremino, si blocchino per poi partire all’improvviso quando meno te lo aspetti . Per di più, di tanto in tanto, crolla a terra, senza apparenti motivi, e si risveglia in Pronto Soccorso o in un letto di ospedale contornato da facce attonite, spaventate: quelle della compagna, degli amici, delle infermiere, dei medici. “ Sig. Ubaldo , ancora tra noi? Cosa ha combinato questa volta? Ma come ! Non si ricorda nulla? “ Proprio a lui doveva capitare, a lui che amava i viaggi, che ha potuto apprezzare la libertà e arricchirsi di emozioni ogni val volta scopriva spazi nuovi, volti nuovi, espressioni nuove, diverse, intricanti, vitali. Così Ubaldo ha perso il lavoro, i soldi e la voglia di vivere.
L’ amica che l’aveva accolto in casa non sapeva più che pesci prendere, non sapeva come assumersi la responsabilità di un uomo malato, al quale non era legata da alcun vincolo riconosciuto dalla società civile, se non l’affetto, che di punto in bianco perdeva coscienza, poi si svegliava e iniziava a delirare: crisi epilettica? Svenimenti? Isterismo? La seconda etichetta di malattia risultava incerta, indefinita e così altrettanto indefiniti risultavano il percorso diagnostico, la terapia e la prognosi. Insomma una spada di Damocle appesa sulla testa di Ubaldo, di Giuseppina ( anche questo è un nome di fantasia) e di tutte le persone vicine. Che altro fare se non disperarsi e rivolgersi ai servizi sociali?
In occasione dell’ennesimo ricovero di Ubaldo, circa due anni fa, Giuseppina si è decisa a segnalare il disagio socio economico in cui versava il suo compagno ed ha chiesto aiuto, anche in considerazione del fatto che il vincolo di amicizia non è riconosciuto dalla legislazione. Ed ecco che prontamente ed eticamente l’aiuto è arrivato: dall’ospedale per acuti alle cure intermedie , da queste all’RSA ospedaliera e quindi all’RP/RSA privata convenzionata con l’ASL e il Comune di Residenza. Tempo di percorrenza: 4 mesi. Etichette applicate: decadimento cognitivo ( titolo), morbo di Parkinson (sottotitolo), episodi di perdita di coscienza di diagnosi incerta (corollario).
E così conosco Ubaldo e, come altre volte mi è successo, appare ai miei occhi inaspettato rispetto a quanto potevano far prevedere le etichette applicate alla sua persona. Certo i segni del Parkinson erano evidenti, si appoggiava al girello con fatica, era impacciato all’inizio del passo , accelerava di colpo e così via, ma quello che mi ha colpito di più era l’espressione del suo volto, le sue smorfie di sofferenza e insofferenza di tutto ciò che lo contornava, di sfiducia, di rabbia, di intolleranza e di impotenza nei confronti della piega che aveva preso la sua vita. Non ricordo le parole o l’atteggiamento che usai per fare una piccola breccia nel muro di disperata rassegnazione che aveva innalzato intorno a sé , ma so di esserci riuscita: è nata una relazione di cura fondata sulla comprensione , sulla fiducia, su una, seppur fievole speranza ( che sia questa l’empatia?) , insomma un qualcosa che va oltre le parole e i comportamenti e che permane nel tempo.
Il perché Ubaldo si fosse meritato l’etichetta di “decadimento cognitivo” non risultava in modo chiaro e trasparente dalla documentazione clinica, al di là di un punteggio 12/30 del Mini Mental State Examination eseguito nel periodo che faceva seguito agli eventi critici. Pensai che i miei colleghi avessero ritenuto necessario dare rilievo a questo titolo , piuttosto che al Parkinson, per agevolare l’inserimento in una struttura residenziale, date le condizioni socio economiche di grave disagio del paziente. Ma questa motivazione “ di comodo” non avrebbe dovuto comportare la prescrizione di un farmaco specifico contro l’Alzheimer che notoriamente non si sposa bene con i farmaci contro il Parkinson. I colleghi dovevano esserne convinti, della diagnosi di Alzheimer, poi modificata in demenza a corpi di Lewy, comunque sia di una demenza a carattere evolutivo che giustificasse l’unica soluzione possibile, la reclusione a vita in un istituto. E con questi pensieri mi sono guadagnata l’ingresso nel vortice della centrifuga che, questa volta, più di altre, ruotava a ritmi elevatissimi. La storia clinica, confortata dal racconto di Giuseppina, faceva più pensare a occasionali stati allucinatori e confusionali ( definizione citata dal Sabatini Coletti alla voce delirio) . Ma il delirio è passeggero, ha un inizio e una fine, è cosa ben diversa dalle demenze. Ubaldo, subito dopo l’apertura della breccia, mi aveva confessato che non gli interessava più vivere perché non tollerava la malattia e il tipo di vita a cui era costretto, ma non sapeva come fare, era impotente anche di fronte alla possibilità di farla finita. Un ragionamento logico che cozza contro una diagnosi così importante come l’Alzheimer. Gli somministrai nuovamente il test per lo stato cognitivo solo per avere un appiglio alla sospensione del farmaco specifico, ( e mi costò non poco, data la mia intrinseca difficoltà a fare ciò che non mi convince): il test risultò 28/30, ma non mi sorprese affatto perché generalmente sono di manica larga. Sempre nell’ottica di utilizzare le stesse armi dei colleghi per avvalorare le mie contrastanti ipotesi, gli somministrai anche il GDS ( test per la valutazione della depressione nell’anziano) che risultò catastrofico e così potei prescrivere su consiglio di uno specialista fuori del giro, una terapia antidepressiva.
Ubaldo, Giuseppina ed io, soli e incompresi di fronte ad una società intera. Unico conforto: quello di una giovane collega, Antonia ( si tratta sempre di un nome di fantasia).
La società ha infatti assolto mirabilmente il suo dovere istituzionale: ha trovato una sistemazione “dignitosa” ad un cittadino malato, caduto in disgrazia, con disabilità gravi, bisognoso di cure e di assistenza continua garantendogli persino una modesto salario mensile per le piccole spese personali. Il costo globale per la società è di oltre 3000 euro al mese, ma il servizio è garantito.
Ubaldo, con le sue etichette, si barcamena , tra alti e bassi, all’interno della struttura che gli è stata concessa: a volte discute animosamente con il compagno di stanza, a volte si irrita con Giuseppina perché non è presente quanto la vorrebbe, a volte se la prende con sé stesso per la malattia che non gli permette libertà di movimento, ma si è adattato agli orari, al pannolone e ha imparato ad aspettare sempre qualcosa, seduto su di una sedia o una poltrona, un divano, un letto, tra pareti pallide, interrotte solo nel salone da pranzo da qualche quadro dai colori sfumati. Attende paziente di essere aiutato ad alzarsi dal letto, a vestirsi e lavarsi, attende l’ora dell’accompagnamento in bagno, del cambio pannolone, del pranzo, dell’arrivo di Giuseppina , e poi della merenda, della cena e di nuovo dell’ accompagnamento a letto che avviene con puntualità impressionante sempre non oltre le 18 e 30. Unica interruzione alla monotonia di questa vita è il sopraggiungere di un evento acuto ed è successo: per due volte è stato ricoverato per perdita di coscienza con convulsioni che hanno reso finalmente applicabile l’etichetta di comizialità e hanno imposto l’aggiunta di altri farmaci per prevenire ulteriori attacchi. In occasione del secondo ricovero, quasi per magia, la diagnosi di demenza di Alzheimer, si trasforma in demenza a corpi di Lewy per cui si raccomanda la prosecuzione del farmaco specifico precedentemente prescritto con tanto di piano terapeutico, farmaco in realtà mai assunto, in quanto l’avevo sospeso l’anno precedente.
Ci vuole un istante ad aggiungere un farmaco e a perpetuarlo per tutta la vita e farmaco dopo farmaco la lista si allunga fino a coprire ogni casella disponibile del piano terapeutico in formato A4 . Ci vuole invece tanto tempo, a volte è necessaria la vita intera, per sospenderne uno o semplicemente rimodularlo, tenerlo di riserva per altri momenti. Così, nonostante i farmaci o, forse proprio a seguito dei troppi farmaci ( che tristezza!), Ubaldo, dal marzo scorso, cade rapidamente in uno stato depressivo, quello che comunemente si chiama esaurimento nervoso. Incomincia a “dar di matto” prima durante la notte, poi anche di giorno , con conseguenze tali da dare pieno credito alle etichette precedentemente applicate ed a permettere che a queste se ne sovrapponga una nuova, indelebile, quella dell’irreversibilità. Una notte è sceso dal letto, si è tolto il pannolone, ha urinato ovunque ed è caduto sul pavimento bagnato dalla sua stessa urina, poi se l’è presa con il vicino di stanza e con gli operatori che cercavano di rabbonirlo. Aggressività, alto rischio cadute, ingestibilità, ce ne è abbastanza per convincere il medico di struttura a prescrivere le sponde “di protezione” al letto e, per evitare che siano scavalcate, anche le cinture di “contenzione” ( questa volta uso il termine appropriato). Di male in peggio. Me ne accorgo 10 giorni dopo, su sollecitazione di Antonia che mi segnala che Ubaldo non tollera la costrizione, è avvilito, umiliato, vuole morire; non riesce a riposare neppure un minuto sentendosi immobilizzato, piange, supplica, poi la rabbia prevale sugli altri sentimenti e se la prende con qualunque cosa e con chiunque gli capiti a tiro. Con un blitz riusciamo a sospendere le contenzioni: è il 23 marzo. Non so se sono state le attenzioni o la rimodulazione della terapia o semplicemente la fortuna, ma Ubaldo riesce a ritrovare quell’adeguatezza comportamentale sufficiente ad evitare ulteriori interventi limitativi della sua libertà, già così gravemente compromessa.
Pochi giorni fa, chissà per quale ragione, Ubaldo ha un’altra crisi di nervi che scatena l’inevitabile circolo vizioso: farmaci aggiuntivi, cintura di contenzione al letto, avvilimento, umiliazione, totale perdita della poca autonomia residua. Antonia mi avverte dell’accaduto, ma come fare a fermare il circolo vizioso, quando tutto lo staff di operatori, insufficiente e poco preparato, in alleanza con la direttrice dell’istituto, ha un’ attitudine inveterata all’utilizzo di questi mezzi? E quando la prescrizione assume sempre e comunque carattere permanente? E non c’è formazione che tenga perché “non c’è peggior sordo di colui che non vuol sentire”!?
Non resta che agire con astuzia e, oltre a verificare la correttezza della documentazione inerente il consenso all’utilizzo dei mezzi di protezione/costrizione, sottolineare la responsabilità di chi le prescrive e la necessità di giustificare e definire in termini temporali l’esistenza di uno stato di necessità. Quindi, in qualità di responsabile sanitario, mi sono sentita il dovere di riportare, su un canovaccio di nessun valore giuridico, le raccomandazioni relative ai confini tra lecito ed illecito, nel caso specifico ed in generale, richiamando le linee guida già esistenti correlate degli ultimi report sui rischi avversi tratti dalla letteratura.
E’ scoppiato il finimondo. Le parole illecito, costrizione lesiva della dignità della persona, dissenso sono risultate deprecabili e accusatorie nei confronti dello staff. E colui, anzi colei che aveva osato scriverle altrettanto deprecabile e indegna, meritevole di essere isolata, dissuasa e possibilmente emarginata . Ho rischiato insomma il licenziamento e questa volta, seppur la posta in palio sia di scarsa rilevanza sul piano economico, non so se l’avrei accettato sul piano morale. A stento sono riuscita a contenere una crisi di nervi non dissimile da quello che viene abitualmente definito stato di agitazione psico- motoria.
Per raggiungere un compromesso e in assenza di alternative sostenibili in quel contesto , non restava che appellarsi ad Ubaldo, che si era rifiutato di apporre la firma del consenso , ma anche quella del dissenso.
L’approccio non è stato facile, ero troppo ferita anche io, ma questo mi è servito per essere scrupolosa e prudente. Ho scelto di parlare con il cuore esplicitando la mia sofferenza a vederlo così a disagio, ma cercando di non toglierli quel barlume di speranza che non può essere cancellata mai, in nessuno e per nessun motivo. Mi ha detto che gli mancava l’affetto, che si sentiva in carcere, che non ce la faceva più e voleva morire. Quando parlo con il cuore mi è difficile riportare fedelmente la sequenza delle domande e le conseguenti risposte. Gli ho parlato delle regole, a volte sgradevoli, ma difficili da superare soprattutto quando si condividono spazi ristretti e lui annuiva. Mi ha confessato che non si sentiva di mangiare insieme agli altre 70 ospiti, nel salone, che gli si sarebbe chiuso lo stomaco, poi, con un sorriso sarcastico ha aggiunto: “A meno che non mi servano un piatto di salmone affumicato”. Poi ha tirato fuori Emingway, ma l’ho fermato subito, dicendogli che le sue abituali battute, che diventavano particolarmente amare e sottili nei momenti di maggior sofferenza e disagio, potevano essere drammaticamente mal interpretate. Infine gli ho chiesto di firmare il consenso per le cinture di contenzione al letto per soli 3 giorni, in modo da evitare possibili cadute, ridurre le preoccupazioni del personale e permettere ai nuovi farmaci di fare il loro effetto. Ubaldo ha firmato il consenso alla cintura al letto, dichiarandomi, come era successo altre volte, la massima fiducia e ripetendo, a bassa voce: “ Tre giorni, dal 9 all’11”. Trattativa conclusa, ma che dolore! E dopo? Oggi ne abbiamo 12, stasera non avrà le contenzioni, cosa succederà ? Non mi resta che ricorrere al farmaco più utilizzato al mondo: la preghiera.
Luglio 2013: Ubaldo è morto
Ebbene sì, sono passati poco più di due mesi e, nonostante le cure, preghiera compresa, il cuore di Ubaldo ha cessato di battere.
Da giorni aveva la bava alla bocca, non manteneva più la posizione seduta, non parlava, non si alimentava, insomma aveva chiuso con il mondo. Noi medici non abbiamo mai smesso di curarlo, di somministrargli i farmaci prescritti dagli specialisti per fargli accettare la malattia e la disabilità, di infondere liquidi per evitare la disidratazione, di mantenere le protezioni meccaniche per evitare che cadesse dal letto, di controllare assiduamente la pressione arteriosa, la temperatura corporea, i battiti cardiaci, la saturazione d’ossigeno. Io non ho mai smesso di pregare. Nonostante tutto Ubaldo non ce l’ha fatta o meglio, dovrei dire, Ubaldo ce l’ha fatta perché è riuscito a morire. Morte naturale, come riportato sulla scheda ISTAT: Parkinson, comizialità , demenza mista (Alzheimer, Lewy, aterosclerosi). Ce n’è abbastanza per giustificarla.
Ma io non riesco a togliermi dalla mente un pensiero: è questa la morte naturale? Non si tratta forse di morte iatrogena?
E mentre rifletto vertiginosamente, mi domando: a che serve continuare a chiamarlo Ubaldo? Non merita , forse, di essere ricordato con il suo vero nome? Credo di sì. Anche perché è un bel nome. Il nome di un grande maestro: Giorgio.