Mentre stavo riordinando le cartelle sul mio p.c., mi sono imbattuta in una vecchia presentazione dal titolo “Vivere l’urgenza” di cui mi ero dimenticata l’esistenza. D’istinto ho aperto il file e, scorrendo velocemente la prima parte che trattava l’evoluzione della medicina nel corso dei secoli, sono rimasta particolarmente colpita dalle diapositive che evocano l’epidemia di peste nel medioevo ed i danni che ne conseguirono
La caccia ai colpevoli, le accuse agli ebrei di avvelenare i pozzi, le processioni dei flagellanti con l’inevitabile diffusione del contagio, la fuga incessante di notai e medici dalle città, insomma la paura della devastazione della morte aveva indubbiamente il sopravvento e le reazioni della gente ne erano una conseguenza.
Il confronto con la pandemia da coronavirus è inevitabile: il mondo cambia, ma i fattori umani rimangono inesorabilmente invariati nel tempo. Ricerco allora un’altra mia vecchia presentazione sulla relazione medico-paziente, cavallo di battaglia di quando lavoravo in emergenza- urgenza. La mia attenzione si sofferma sulla sua evoluzione, dal paternalismo all’autodeterminazione dei cittadini, sul consenso informato ed il concetto di responsabilità professionale ed un groviglio di pensieri mi attorciglia la mente.
E’ indubbio che la relazione medico-paziente, già sofferente per la supremazia tecnologica e scientifica rispetto ai fattori umani, abbia subito un’ulteriore sferzata in questo periodo di pandemia in cui paradossalmente la comunicazione, ampliata a dismisura, ha finito per essere inefficace e addirittura fuorviante. Senza considerare che se la relazione tra esseri umani è importante, per non dire essenziale, per promuovere la salute psichica e fisica nonostante le avversità e la malattia, i principi sui quali si basa non sono affatto gli stessi in emergenza o in cronicità e così le decisioni da intraprendere sia nel singolo individuo che nella comunità.
E già, in emergenza il rapporto medico paziente è caratterizzato da un alto grado di asimmetria, fino a costituire un rapporto di forza, istituzionale. Ed il rischio dell’asimmetria non è affatto irrilevante, né per il medico né per il paziente. Il primo infatti tende a spostare il rapporto di forza dalla “persona” alla “malattia”, il secondo rischia di sentirsi “parte lesa” e non allearsi al medico. Inoltre c’è da considerare che, anche se il grado di pericolosità della malattia è modesto, la persona è emotivamente scossa e, non di rado, la sua lucidità e quella dei suoi familiari è offuscata.
E’ proprio così, l’etichetta Covid positivo appiccicata alla persona, di qualunque età e ceto sociale, ha di fatto annullato ogni possibilità di condivisione di un percorso sanitario e assistenziale personalizzato e omologato l’intera categoria dei contagiati all’isolamento forzato, non certo fiduciario, spesso in sedi ben lontane dal domicilio abituale.
Le persone più abbienti, in genere autonome o con rete familiare consistente capace di sopperire alle carenze assistenziali istituzionali, sono talvolta riuscite a trovare soluzioni alternative per ridurre il disagio della permanenza nelle cosiddette Aree Sanitarie Temporanee costruite ad hoc, ma per i tanti vecchi che popolano la Regione Liguria non è stato lo stesso. E non solo per motivi sanitari e assistenziali legati al Covid e alla co-morbilità, ma piuttosto per la fragilità nella sua accezione più ampia, in particolare sociale: tra questi gli anziani che vivevano soli, pur con qualche acciacco, spesso in zone lontane dai centri urbani o quelli , e non sono pochi, in condizioni economiche precarie e persino i senza fissa dimora.
Ebbene la relazione, la tanto auspicata alleanza terapeutica è svanita nel nulla: difficili se non impossibili i colloqui col paziente, con i conoscenti, con gli assistenti sociali, persino il confronto con i sanitari quando necessario, insomma una cascata di situazioni scomode per tutti che inevitabilmente ha prodotto i suoi effetti, non sempre riparabili.
Mai come in questo periodo ho sentito piangere al telefono amici e familiari! Eppure ho lavorato anni e anni in Pronto Soccorso e non sono state poche le brutte notizie, quelle che hanno il sapore dell’inaccettabile, che ho dovuto comunicare. La disperazione per non poter essere vicini ai loro cari, tener loro la mano, incitarli alla guarigione, assisterli nei momenti più difficili e accompagnarli alla morte con dignità e rispetto, oltre che la fiducia in coloro che hanno fatto il possibile per salvarlo.
Non dobbiamo dimenticare mai che la relazione è terapeutica e tanto più una persona ha bisogno di aiuto, tanto più è in grado di percepire la qualità della relazione.
Perché, come sostiene Giorgio Bert, se la malattia è un problema biologico, il malato è una persona e nell’esperienza soggettiva della malattia , nel vissuto individuale (illness per gli anglosassoni) è racchiuso un universo di senso privarsi del quale impoverisce la possibilità di comprensione e di intervento da parte della scienza medica.
E non servono le stanze degli addii “per non andarsene da soli”, per citare il titolo di un articolo uscito sul Secolo XIX in data 18 gennaio , per la presentazione, con tanto di foto, della stanza allestita al Policlinico San Martino a disposizioni dei parenti dopo il decesso dei loro cari. L’articolo, a mio parere, è davvero sconfortante e a peggiorare il tutto, come in una macabra farsa, è un refuso nel sottotitolo: “Una ex sala operatoria a disposizione dopo i decessi dei parenti”.
Dove andremo a finire? Mi chiedo sconcertata e triste.
Mi accorgo poi che la stessa frase in inglese “Covid-19: where do we go from here?” è riportata sull’autorevole rivista scientifica The Lancet nell’editoriale dell’ultimo numero 2021, citato nell’articolo , pubblicato sul Blog Salute Internazionale, “La scienza e la politica” di Pietro Dattolo, Presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze.
Il sottotitolo non lascia dubbi all’interpretazione: “In questa pandemia la scienza ha fatto il suo dovere, mentre la politica ci sta portando al disastro”.
La scienza ha prodotto i vaccini, ma i leader politici non sono riusciti a trovare gli accordi per una distribuzione equa a livello mondiale sicchè le disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri si sono amplificate a dismisura. Ciò ha permesso alla variante Omicron di avere la meglio e accanirsi proprio contro le Nazioni che avevano fatto il pieno di vaccini, come gli USA, in cui la copertura vaccinale è la più bassa tra i paesi industrializzati per l’ ostilità contro i vaccini che si è venuta a creare, in nome della libertà individuale e della libertà d’impresa.
I motivi di questo apparente paradosso sono tutti politici, spiega l’autore dell’articolo, ma la politica appartiene agli esseri umani e non può prescindere da quei fattori (chiamati appunto “umani”) che motivano i nostri comportamenti .
A mio parere, il venir meno del principio di autonomia dell’intera comunità non è stato affatto irrilevante nel determinare a cascata le reazioni che tutti conosciamo, mettendo gli uni contro gli altri, enfatizzando le divergenze di opinioni, generando confusione e sfiducia, alimentando un clima di conflittualità dal quale si fa fatica ad uscire.
Ma la salute, come la pandemia è globale e, secondo la teoria della complessità, è una proprietà emergente che non si spiega con la somma dei singoli elementi che la determinano, perché la salute non riguarda solo la medicina ma la vita, con tutte le sue infinite sfumature.
E’ prevalso da parte della politica il metodo “Divide et impera”, ignorando i diritti di ogni individuo in relazione ai farmaci, vaccini, diagnostici, dispositivi di protezione e dimostrando il completo fallimento del programma di cooperazione a favore dei paesi più poveri.
E non c’è tanto da meravigliarci se nel sistema complesso in cui siamo immersi, la voce più grossa è stata quella dell’Economia perché da sempre le altre leggi che lo governano, l’etica e l’equità , hanno avuto maggiore difficoltà ad esprimersi. La diapositiva sottostante, che per infinite volte ho riportato nei corsi di “Primo soccorso aziendale” diretti ai cittadini, rappresenta questo concetto.
E’ facile trovare spazi strutturati e tecnologie se si hanno i soldi per acquisirli, mentre è molto più impegnativo far crescere le altre due voci, organizzazione e professionalità, semplicemente perché sono inerenti agli esseri umani con tutti i loro pregi e difetti, le loro emozioni, i loro limiti, le loro capacità.
Non dobbiamo dimenticare che il finanziamento della medicina preventiva discende dalla politica, mentre quello della medicina d’emergenza discende dalla morale.
La pandemia da coronavirus e il susseguirsi delle sue varianti ha paradossalmente unito prevenzione e acuzie sia nel singolo individuo che nelle comunità ed ha drammaticamente evidenziato l’importanza dei determinanti della salute.
Due anni di pandemia non ci hanno insegnato nulla, conclude Pietro Dattolo nell’articolo sopra citato.
Io voglio essere più ottimista, credere nell’essere umano e pensare che prima o poi il coronavirus ci abbia insegnato a riflettere affinché “ scienza e coscienza” possano correre insieme dandosi la mano.