Nel corso della mia vita mi sono sempre interrogata sul significato della parola “limite”, tante volte sentita nominare in ambito familiare, fin dagli anni della mia fanciullezza. Nonna Rosina è stata indubbiamente determinante con i suoi detti e proverbi, calati sempre a fagiolo nelle situazioni più disparate. Non le sfuggiva nulla ed ogni rimprovero o ammonizione per qualche comportamento che non le andava a genio, e, più raramente, anche qualche lode, era l’occasione per insegnare a me e a mio fratello, vicini in età, qualcosa sul senso del vivere comune, una sorta di lezione di educazione civica. Oltretutto ci azzeccava sempre, guidata dal buon senso, anche in campi non certo di sua competenza come quello sanitario. Quando, con una sola occhiata cupa, pronunciava la seguente frase: “Hai la faccia che non mi piace … covi!” immancabilmente, nell’arco di alcune ore, a me o a mio fratello saliva la febbre o capitava qualche altro inconveniente.
“C’è un limite a tutto” l’ho sentito dire mille volte da nonna Rosina.
Il limite alla pazienza, alla sopportazione, alla tolleranza risuonava nelle nostre menti bambine come un avvertimento, un invito a cambiare rotta, a non insistere su atteggiamenti non graditi, dal momento che il limite, inteso come confine da non oltrepassare, era stabilito dalla nonna stessa.
Il limite alla disubbidienza, all’arroganza, alla pretesa, alla cocciutaggine, pur essendo comunque un avvertimento, ci insegnava, ripensandoci con sguardo adulto, ad assumere la responsabilità di ogni nostra azione valutandone le possibili conseguenze per non sconfinare nel terreno altrui e magari avere la peggio.
Insomma, dai oggi, dai domani, mi è stato ben inculcato il concetto che un limite esiste per tutto e per tutti e che se è possibile demarcare il confine tra ciò che è punibile o sanzionabile e non in alcune circostanze, come ad esempio il codice della strada, ben più difficile è stabilire regole standardizzate quando il limite fa riferimento alle relazioni tra esseri umani.
Sta di fatto che, in questo periodo pandemico, in cui la mia vita è stata ed è tuttora assorbita da rilevanti impegni e responsabilità professionali, nei pochi spazi in cui i miei pensieri scorrono liberamente, questi ricordi di fanciullezza sono riaffiorati nella mia mente, commisti ai soliti interrogativi che rivolgo a me stessa, con forse meno ingenuità rispetto al passato, ma conservando un certo stupore che rasenta a volte l’incredulità.
Trovo un po’ di consolazione scorrendo veloce il libro di Remo Bodei intitolato appunto “LIMITE” e riesco a cogliere, pur con i limiti della mia ignoranza filosofica, alcuni spunti di riflessioni che mi possono essere di aiuto concreto nelle scelte professionali che devo affrontare quotidianamente, oltre che di supporto psicologico nell’accettare la grande variabilità dell’animo umano.
“Fino a che punto posso inoltrarmi nel raggiungere i miei obiettivi o nell’esaudire i miei desideri?”
“Dove si trova, se si trova, la linea di demarcazione tra il buono e il cattivo, tra il lecito e l’illecito?”
Queste domande, che sento vive dentro di me, sono riportate al Cap. III - Imparare a distinguere, pag 115 dell’edizione Il Mulino 2018, domande che, secondo Bodei, sono destinate a non avere risposte convincenti e univoche in quanto nell’epoca odierna “siamo di fronte a un vero e proprio politeismo dei valori, a uno scontro tra posizioni per principio incompatibili, sebbene di fatto normalmente conciliate grazie a sottintesi e, talvolta, tortuosi compromessi pratici. Il punto è che – una volta usciti dai binari della tradizione, in base ai quali è la trasgressione stessa a dettare la misura dello scarto rispetto alla norma – non si può più contare né su saldi punti di riferimento, né su netti criteri di giudizio.” Aggiunge poi che, se non è stato facile rispondere a tali questioni neppure nel passato, “oggi la difficoltà è conclamata a causa dell’inflazione delle possibili soluzioni. In mancanza di regole oggettive o intimamente condivise, gli individui sono pertanto sempre più indotti ad adattarsi ad una paradossale morale provvisoria permanente”.
Ebbene, queste frasi, a mio parere, si collocano a pennello nell’emergenza pandemica da Coronavirus che ha semplicemente acuito una tendenza alla dismisura che non solo ha riguardato la natura, ma anche rovesciato, sul piano etico, il modello della filosofia classica, basato sugli ideali della temperanza, come sostiene Orazio che riassume il principio di ogni condotta con queste parole “Vi è una misura nelle cose, vi sono precisi confini oltre i quali e prima dei quali non può consistere il giusto”. Tutto ciò lo troviamo a pag. 99-100 del libro di Bodei. Più avanti, nel paragrafo “Vietato vietare” dello stesso capitolo Bodei scrive : “[…] i limiti da rispettare non cessano di esistere e non smettono di interrogare le coscienze, ponendole di fronte al conflitto tra assolutezza e relatività delle norme, tra la loro origine divina e umana o tra il miope interesse personale e l’esigenza, spesso sopita, di maggiore lungimiranza e apertura verso gli altri. Proprio perché la morale, al pari del diritto, è una faticosa, fragile e mutevole costruzione umana, essa deve essere difesa dalle prevaricazioni, dagli abusi e dal caos”.
E non è tutto. Bodei aggiunge che non esiste uno spazio omogeneo di verità morali, ma uno spazio complesso, caratterizzato da una pluralità di valori specifici a rete, entro i quali muoversi sinapticamente per collegarli a contesti più ampi. Parla di una complessità che intreccia l’universale con il particolare, l’uno con il molteplice e cita Tolstoj in Resurrezione che asserisce che “[…] ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre sé stesso”.
Non vorrei apparire presuntuosa ma, nel mio ruolo professionale che svolgo ormai da quasi due anni, inerente l’emergenza Covid, mi sento quotidianamente intrappolata tra le maglie di una rete invisibile in cui le uniche sinapsi possibili avvengono sulla base della solidarietà, del coraggio, della tolleranza, della compassione che condivido con coloro che, come me, toccano con mano la sofferenza fisica e psichica di chi è colpito dall’infezione del fatidico Sars-Cov- 2, gravata a volte a dismisura dalle disposizioni normative per evitare il diffondersi del contagio. Impenetrabili mi risultano le maglie della rete nei confronti di una burocrazia rigida, inflessibile, indifferente, oserei dire disumana, sempre pronta a porre ostacoli ad ogni proposta basata sul semplice buon senso, ritardando o addirittura impedendone la realizzazione.
Questo a mio parere è inaccettabile perché se emergenza è, lo è per tutto e non si può quando conviene fare di tutte le erbe un fascio e quando non conviene appellarsi a ferree regole alle quali non è possibile trasgredire seppur ritenute all’univoco ingiuste o per lo meno inappropriate al contesto.
Su questo devo ammettere di essere irremovibile: le norme che amministrano la nostra società ( e per norme intendo le delibere istituzionali a vari livelli, le modalità di approvvigionamento delle risorse, i rimborsi economici, le procedure dei trasferimenti, i criteri per accedere ai servizi disponibili e tanto altro ancora) siano del tutto incapaci di stare al passo con l’emergenza, peraltro declamata sventolando la bandiera dell’etica oltre che della scienza, incapaci di articolarsi nella comprensione di casi particolari, che non sono affatto rari, incapaci di ridurre sofferenze inutili ed evitabili, sprechi di risorse umane ed economiche. Insomma, in sintesi estrema, capaci solo di andare contro tendenza togliendo la speranza ai cittadini e minando la fiducia sociale, elemento imprescindibile per il bene della comunità.
Bodei, al paragrafo intitolato” Limiti esistenziali” sottolinea che oggi, rispetto al passato, esistono molti più confini cancellati o incerti: sfumano le differenze tra le età della vita e tendono ad eclissarsi o a perdere di solennità alcuni riti di passaggio come, ad esempio, quelli che segnavano la transizione degli individui dalla fanciullezza all’età adulta. Resiste la festa dei quindici anni delle ragazze nei paesi latino-americani e solo ora ne colgo appieno il significato simbolico, essendone venuta a conoscenza per il fatto di aver sposato un argentino . Confesso che, a suo tempo, mi è parsa addirittura come una usanza barbara e, con una buona dose di stolta sfacciataggine, non ho risparmiato critiche per le cospicue spese che comportava alle quali non rinunciavano neppure le famiglie meno abbienti.
Il contesto culturale gioca indubbiamente un ruolo fondamentale nel benessere individuale e deve essere considerato nelle scelte strategiche che la società promuove. Su questo non ci piove.
L’incerta divisione ormai intervenuta tra le tre canoniche età della vita (giovinezza, maturità, vecchiaia) è spiegata dal filosofo dal fatto che la giovinezza, complice l’ insicurezza economica, si prolunga oltre i termini tradizionali, dall’altro perché la vecchiaia si sforza di mimare una vitalità che non possiede. I figli e i nonni conquistano maggiore importanza, reale e simbolica, a scapito dei padri e più in generale delle persone di mezza età, ponendo con maggiore evidenza il problema del ricambio generazionale e della ridistribuzione delle risorse.
Un problema, questo, che è emerso in modo forte in questi ultimi due anni, in cui le RSA o più in generale le strutture residenziali degli anziani sono state oggetto delle attenzioni della politica allo scopo di difendere i vecchi, sia potenziando le misure di sicurezza per evitare il contagio, tamponi a raffica e isolamento, sia privilegiando la scelta di vaccinarli per prima. In generale non c’è alcun dubbio che le misure adottate siano state efficaci in termine di riduzione della mortalità, ma, se consideriamo altri parametri, come, ad esempio, la qualità della vita, possiamo affermare la stessa cosa? Quanti vecchi, riscontrati positivi al tampone nelle circostanze più svariate, spesso a seguito di accessi al Pronto Soccorso per traumi o altri inconvenienti non gravi, hanno perso la loro autonomia, o addirittura la vita, per l’isolamento prolungato nonostante il decorso dell’infezione da Sars- Cov- 2 fosse asintomatico o quasi? Il tutto senza considerare l’allontanamento forzato dal loro habitat, la mancanza di affetti, la solitudine, la perdita della motivazione di vivere.
È proprio così perché il tampone la fa da padrone su tutto il resto, è come l’asso che prende tutto quando si gioca a briscola.
Le persone positive, seppur asintomatiche per l’infezione da Coronavirus, non possono accedere a servizi considerati differibili, percorsi diagnostici per traumi o malattie concomitanti non di rado all’esordio, radioterapia, chemioterapia, riabilitazione neuromotoria, cardiologica e così via. Patologie altre che salgono agli onori della cronaca solo per il peso che hanno sulla prognosi di coloro che risultano contagiati dal coronavirus, senza affatto considerare che tale peso potrebbe essere ridotto se fossimo in grado di assicurare cure appropriate basate sulla prevenzione, sull’ anticipazione e accuratezza diagnostica e sulla tempestività d’intervento. Per raggiungere al meglio questi obiettivi anche nel periodo emergenziale in cui ci troviamo è indispensabile, da un lato, la stretta alleanza tra personale sanitario, pazienti e familiari, dall’altro la fattiva collaborazione tra ospedali, pronto soccorso, istituti riabilitativi, servizi residenziali e domiciliari.
Ebbene, in linea generale, ritengo che tutti gli aspetti valoriali che sottendono le relazioni tra i professionisti della cura stiano crescendo sempre di più assumendo un ruolo fondamentale nel superare questo drammatico momento storico. Peccato che crescano a dismisura, è proprio il caso di dirlo, anche gli aspetti meramente burocratici, peraltro imprescindibili in una società, che non fanno alto che mettere i bastoni tra le ruote proprio alla realizzazione di quel bene comune che si vantano di tutelare.
Ma questo è solo un mio parere.
Ebbene, devo ammettere che, dopo questo saltare di palo in frasca, ho perso il senso del limite e addirittura mi interrogo sulla sua esistenza.
Mi viene in mente un altro detto popolare “Non c’è limite al peggio”, ma subito rifuggo dai pensieri negativi e torno la solita inveterata ottimista.
Ci saranno tempi migliori, speriamo solo di poterli godere.