Non l’avrei mai detto, e nemmeno mi è mai passato per la mente che potesse succedere, e invece è accaduto e pure con una rapidità sorprendente.
Mi riferisco a Luciana, l ‘unica zia ancora in vita, la più giovane, che porta il mio stesso cognome e che non so bene per quale motivo, forse più per l’amicizia che ci unisce piuttosto che per la differenza di età di soli 15 anni, ho sempre chiamato con il nome di battesimo e mai zia Cicci come fa il resto della mia numerosa famiglia.
Luciana da poco più di un anno non c’è più con la testa, il suo cervello si è atrofizzato e immensi spazi vuoti lo distaccano dalla teca cranica. Si è visto bene alla TAC e alla RMN, immagini che hanno lasciato di stucco la cerchia di amici medici e chirurghi con i quali eravamo soliti passare piacevoli serate conviviali, seppur dilazionate nel tempo per gli impegni di ognuno di noi, serate che il primo lockdown ha cancellato per sempre.
Il suo aspetto giovanile non è stato assolutamente scalfito, tanto meno la sua performance fisica che, immaginando una curva gaussiana di quelle che si costruiscono per definire il range di normalità, si collocherebbe senza dubbio al punto più elevato. Luciana, ex atleta di ginnastica artistica quando ancora il talento valeva ben più dell’allenamento e ti permetteva di raggiungere mete ambite senza esagerati impegni, cosa impensabile ai giorni d’oggi (infatti era stata scelta per gli europei) univa alla capacità dinamica, una vivacità intellettuale che le ha permesso di partecipare a imprese non affatto comuni.
Nel 2005, all’età di 69 anni, ha preso parte alla spedizione scientifica tra gli allevatori di renne della penisola di Jamal nella Siberia Occidentale.
“Quando hanno visto il mio passaporto, non ci credevano. E poi ho scoperto che il più vecchio del gruppo di ricercatori ha 20 anni meno di me”, mi aveva detto compiaciuta e non affatto spaventata poco prima della partenza.
Ottima conoscitrice della lingua russa, ha viaggiato molto nell’Unione Sovietica, ha conosciuto intellettuali, scrittori, artisti e sciamani, ha collaborato a progetti, al gemellaggio tra scuole dell’obbligo italiane e scuole del Distretto autonomo dei Nency ed ha scritto numerosi articoli, relazioni di viaggio e traduzioni dal russo sulle riviste “Il Polo” e “Slavia”. L’intera famiglia, composta dal marito Luciano ed i due figli, quando ancora non avevano raggiunto l’età scolare, si era avventurata in roulotte per poter girare il vasto territorio russo per più di 6 mesi allo scopo di soddisfare la curiosità intellettuale che univa entrambi i membri della coppia e approfondire la conoscenza della cultura di quei popoli. Luciano era un grande uomo, ma purtroppo la sua salute precaria lo ha portato via all’età di appena 60 anni , dopo un lungo e travagliato periodo di sofferenze, sicché il suo unico libro, scritto con tanta passione e precisione documentale: “P.A. Stolypin: una vita per lo zar”, è stato pubblicato solo dopo la sua morte.
Ma non è tutto, perché Luciana ha anche scritto e curato la traduzione di libri tra cui “Leggende della Lapponia” e “Miti e leggende sugli sciamani siberiani”, “Siberia” , “La gemella ritrovata”, “Il maestro svelato. Bulgakov riemerge dalla Lubjanka”, “Le 8 tribù ed altre storie”, “Popoli artici e subartici – dalla penisola di Kola alla Cukotka” e persino una favola per bambini , pensata e finita in poco più di 10 giorni nel non lontano 2017: “Amina e la foca monaca”.
Nulla poteva far prevedere un epilogo del genere.
Anche dal punto di vista clinico, l’unico fattore di rischio era la tendenza all’aumento dei valori di colesterolemia che tuttavia rimanevano contenuti con l’osservanza di una corretta alimentazione ed una buona attività fisica quotidiana. Anni fa si era sottoposta ad una coronarografia per un dolore toracico suggestivo di cardiopatia ischemica, poi l’angioplastica e tutto era andato a posto. Era solerte nell’eseguire i controlli sanitari prescritti, ma esigeva di conoscerne il motivo e mai assumeva farmaci senza sapere a cosa servissero. Avvertiva forte l’esigenza di quell’alleanza terapeutica di cui tanto si discute nei nostri tempi , alleanza che non può prescindere dalla fiducia e stima reciproca.
Poi la caduta con frattura della spalla destra, avvenuta nella primavera del 2019 e la temporanea perdita dell’autonomia. Luciana deve essere aiutata dai figli, non solo per quanto riguarda l’igiene personale e il vestirsi, ma anche per la spesa e cucinare, in quanto vive sola in una casa di campagna indipendente con spazi esterni e scale ovunque, accessibile in auto dopo una impervia salita lunga un centinaio di metri, non proprio comoda ai servizi. Ci vorrà circa un mese per il recupero, troppo per la tolleranza di Luciana, che nel contempo scopre di avere un piccolo nodulo sulla mammella destra, lato della caduta, e mi chiede consiglio. Cerco di rassicurarla, che sia legato al trauma, tipo un piccolo ematoma non riassorbito? In quel momento, avrei voluto fare come gli struzzi, ma l’essere medico mi ha imposto di consigliarle di procedere con altre indagini per accertare la natura del nodulo.
La sentenza non tarda ad arrivare: carcinoma della mammella.
Gli specialisti sostengono che in considerazione delle dimensioni del tumore e della valutazione del linfonodo sentinella nonché dell’età (Luciana è ottuagenaria nonostante ne dimostri 15 di meno) non sarà necessaria la chemio o la radio, ma occorrerà procedere con l’intervento chirurgico che con buone probabilità sarà limitato all’ asportazione di un solo quadrante piuttosto che dell’intera mammella. La prognosi è buona, anzi ottima e, entro un ragionevole lasso di tempo, non richiede particolare urgenza.
Luciana è preoccupata, come è giusto che sia. Pur pianificando con il medico curante il percorso diagnostico necessario , non sembra affatto convinta di quanto le si propone ed inizia a fare domande che diventano sempre più ripetitive, alcune logiche, altre banali o addirittura futili, rivolte a me ed ai suoi figli, Cinzia e Raoul, domande che non si addicono ad una persona colta e intelligente dal pensiero critico piuttosto sviluppato.
Passano i giorni e l’atteggiamento di Luciana non è mai costante: preoccupazione, disagio, avvilimento, rabbia, tristezza, rassegnazione, persino qualche nota di euforismo lasciano tutti coloro che le vogliono bene piuttosto spiazzati. Si direbbe che sia infastidita, più che dalla prognosi della malattia in sé, dalla paura di perdere la libertà di scegliere e decidere autonomamente il da farsi e che la sequenza di eventi, dal trauma alla spalla alla diagnosi di neoplasia, le abbia procurato una sorta di depressione reattiva che rifiuta di accettare per via del suo carattere, forte e volitivo. In più il fatto che l’organo colpito sia la mammella, simbolo della femminilità, rende il tutto ancora più inaccettabile per una come lei: le avrebbero deturpato il corpo la cui fattezza è ancora molto ben conservata.
Comunque, seppur con alcune titubanze, Luciana completa il percorso diagnostico e, dopo aver richiesto un secondo parere nel privato, sceglie il chirurgo a cui affidarsi che opera nell’ospedale pubblico dell’ASL di appartenenza.
Siamo ai primi di giugno del 2019. Luciana ha in programma di scrivere altri libri, ma tutta la sua attenzione si focalizza sul seno destro aggredito da un mostro e, all’insaputa di tutti, dopo aver rinviato di alcune settimane l’ingresso in Ospedale, scrive una lettera al chirurgo prescelto in cui gli comunica, con garbata seduzione, di aver deciso di non operarsi, almeno per il momento, ma, qualora avesse cambiato idea, la scelta sarebbe ricaduta su di lui e nessun altro.
Lo comunica all’intera famiglia: è felice, persino euforica, come se si sia tolta un rospo dallo stomaco. Precisa che non è un no assoluto, ma ha bisogno di riflettere, di provare a fare qualche tentativo per ottenere la regressione del nodulo, rivolgendosi anche ad esperti della medicina alternativa. La conversazione è pacata e convincente e in me prende sempre più forza l’ipotesi che sia la non accettazione di quanto le è successo a condizionare il suo sconvolgimento psicologico, certamente passeggero.
Dal punto di vista clinico, la tipologia del tumore può permettere un periodo di attesa, monitorando ovviamente l’evoluzione, per cui accettiamo di buon grado la sua decisione, incrociando le dita.
Passano altri 3 mesi e Luciana ci rassicura che il tumore sta regredendo.
Ma non è così.
Il controllo ecografico dimostra inequivocabilmente la crescita della neoplasia: non si può più aspettare e la mammella destra deve essere asportata in toto con tutti i linfonodi del cavo ascellare.
Mi tornano a mente le parole di nonna Rosina: “Negare l’evidenza è brutta cosa!”
Siamo ad ottobre e Luciana viene operata dal chirurgo prescelto secondo quanto stabilito e senza complicanze, in tempo utile per permetterle di partecipare alla conferenza organizzata in una biblioteca di Milano, in occasione di una fiera del libro, per presentare il suo testo “Le 8 tribù” alla presenza dell’amico antropologo Antonio Guerci.
Questa foto, tratta da un mio breve video, che la inquadra mentre dialoga con gli studenti sulla popolazione siberiana, è l’ultima testimonianza di Luciana, nelle sue piene facoltà mentali. La performance non è ottimale, ammette lei stessa, ma è stata appena operata e qualche defaillance, soprattutto psicologica, ne è la logica conseguenza. Ne parliamo al ritorno in auto, insieme ad Antonio, la rassicuriamo, a breve certamente si riprenderà.
Invece Luciana , con una velocità sorprendente, dimentica tutto quanto sta facendo, minuto dopo minuto, e ciò la porta ad uno stato di confusione e di agitazione: se esce a piedi, non si ricorda più cosa avesse in mente di fare, se prende l’ auto, non ricorda dove l’ha parcheggiata, commette errori su errori nelle mansioni quotidiane, cancella dalla sua mente le visite dei figli e nipoti che si fanno via via sempre più frequenti, quasi quotidiane, rifiuta l’assunzione dei farmaci. Qualunque cosa le si proponga per ovviare alla perdita della memoria a breve termine risulta fallimentare, come è successo con l’appuntamento per la vaccinazione anti-Covid, annotato sul calendario. “Perché c’è scritto vaccino alle 9 all’Auditorium San Francesco?” ha ripetuto migliaia di volte fissando pensierosa quella inspiegabile frase e portandomi allo sfinimento, oltre che ad una sofferenza che ho avvertito fisicamente. Chissà se anche a me potrà succedere la stessa cosa? “I geni non sono acqua” diceva nonna Rosina ed io sono la figlia di uno dei suoi fratelli. L’unica cosa che ricorda bene è la menomazione del suo corpo, quella cicatrice, quegli orribili punti di sutura che non riesce proprio a sopportare.
“È solo una crisi esistenziale. I test parlano chiaro”, aveva diagnosticato uno stimato amico neurologo al quale Luciana si era rivolta per un parere, accorgendosi che qualcosa stava cambiando in lei. La pandemia non era ancora scoppiata e Maurizio aveva consigliato a Luciana di continuare a partecipare alla vita sociale, agli incontri organizzati dalle associazioni culturali, a scrivere e tradurre ciò che era di suo interesse, per distrarsi da quanto le era successo sul piano fisico, ma l’isolamento forzato ha impedito tutto ciò, contribuendo (questo è il mio parere) all’involuzione della sua corteccia cerebrale con perdita progressiva della memoria a breve termine e non solo.
Gli interrogativi che di lì in poi mi sono frullati nella mente sono aumentati di pari passo al manifestarsi , sempre più prepotente, degli effetti del venir meno delle funzioni cognitive di Luciana, come quello di confezionare la torta di riso senza prima cuocerlo o di gettare nella spazzatura kili di prugne accuratamente lavate e sbucciate per fare la marmellata, nel breve intervallo di tempo in cui la figlia, con la quale aveva condiviso ore di lavoro, si era dovuta assentare. Al rientro Cinzia l’aveva rimproverata, pur pentendosi l’istante successivo di non essere riuscita a trattenersi e Luciana, mortificata, era scoppiata a piangere: la sua intenzione era di riassettare la cucina, come aveva sempre fatto, un comportamento del tutto normale e prevedibile.
Infatti Luciana non è cambiata nel carattere: la sua determinazione, la necessità di autonomia e di indipendenza, la libertà di decidere cosa fare e la pretesa di non chiedere aiuto, soprattutto ai figli, ebbene tutto questo è rimasto intatto. Così come sono rimaste intatte le emozioni che avverte forti e incontrollabili in ogni momento della sua esistenza: vergogna, disagio, confusione, disorientamento, solitudine, avvilimento e paura che purtroppo prevalgono su quelle positive che sembrano attenuarsi col passare del tempo. Luciana, abituata a vivere sola, è più tranquilla tra le mura domestiche, si sente protetta, penso io, mentre, quando ne è al di fuori, qualunque piccolo imprevisto la getta nello sconforto e la paura si trasforma in panico.
Pochi mesi fa è caduta dalle scale e si è recata da sola in auto al Pronto Soccorso. Per fortuna sono riuscita a rispondere ad una sua chiamata in cui si lamentava del protrarsi dell’attesa per la visita: “Sono caduta, ma ho solo un po’ di dolore alla schiena per la botta, qui non mi fanno niente e allora me ne vado. Cosa dici, posso farlo?”. Questa la sua domanda, assolutamente logica e prevedibile per come è lei. In realtà la botta le aveva procurato fratture multiple costali ed un ematoma rifornito del dorso, per cui alla fine è stata ricoverata per monitorare l’evoluzione del quadro clinico, a rischio di emotrasfusioni e addirittura di intervento chirurgico.
Una volta dimessa, la proposta di trascorrere un periodo di convalescenza in casa dei figli, un po’ da uno e un po’ dall’altro, così come quella di ospitare in casa propria, almeno per i primi tempi, una persona che la aiutasse (e sorvegliasse), sono risultati fallimentari. “Io non voglio nessuno in casa mia, faccio da sola” queste le sue parole pronunciate con tono perentorio.
Ma anche questo atteggiamento di Luciana non è frutto del deterioramento cognitivo, ma dell’inalterata percezione di sé stessa e del senso della vita che permane nel contempo in cui la mente si indebolisce e inizia a perdere le capacità di comprendere e analizzare il contesto.
Questo il mio triste pensiero.
Se in tutto ciò c’è un fondo di verità, quello che è più sconcertante è la difficoltà o addirittura l’ impossibilità di trovare soluzioni che rendano la vita accettabile sia per chi è colpito da questa devastante malattia, sia per coloro che devono prendersene cura. L’unico risultato scontato è che la sofferenza aumenta, giorno dopo giorno e si moltiplicano le spese economiche gravando sui singoli e sulla società intera.
Le istituzioni sanitarie offrono visite specialistiche che sono importanti per formulare una diagnosi e la prognosi conseguente, per la prescrizione dei farmaci con relativo piano terapeutico, per ottenere l’invalidità e l’esenzione dal ticket, per consigliare il percorso più idoneo da intraprendere a seconda delle situazioni, ma tutto ciò assume uno scarso rilievo riguardo al mantenimento di una qualità di vita dignitosa sia per il malato che per i familiari.
Se “il convento passa questo” , come diceva Rosina, non ci resta che un’unica soluzione per lenire la sofferenza: attendere che il peggioramento dello stato cognitivo della persona da assistere raggiunga un livello tale da attenuare l’impatto, spesso non gradito, di scelte che altri impongono a chi è colpito demenza.
C’è un’altra cosa che non riesco a togliermi di mente: è possibile che eventi traumatici importanti, di quelli che cambiano la vita, tanto più se non sono accettati, abbiano un ruolo non affatto marginale nel determinare l’atrofizzarsi della corteggia cerebrale da cui dipendono le nostre funzioni cognitive?
Non so rispondere, ma sono convinta che una più accurata attenzione e riflessione sull’integrità e indivisibilità di ogni individuo il cui cervello non comprende solo la corteccia, ma il sistema limbico, l’ippocampo, l’amigdala, il sub talamo e ben altro che hanno a che fare con le emozioni e con gli istinti primari di sopravvivenza, possa aiutare sia il medico che il care-giver nel difficile compito del prendersi cura dell’altro, al di là di ogni etichetta di malattia.