Una volta c’erano gli Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficienza, cosiddetti IPAB, organismi di diritto pubblico istituiti con regio decreto n. 2841 del 1923, che, negli anni, hanno subito numerosi interventi di riforma di pari passo con l’evolversi dello stato sociale e del sistema assicurativo mutualistico.
Questa la definizione di Wikipedia che riporta come premessa alla loro storia l’art. 1 della Legge 17.07.1890: “a)di prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto di malattia;b)di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere, od in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico”.
A quell’epoca l’assistenza sanitaria e sociale era svolta dalle cosiddette Opere Pie, a carattere prevalentemente religioso ed era indirizzata e limitata a poche categorie vulnerabili, come fanciulli abbandonati, malati di mente ed alcuni portatori di handicap. Tali enti agivano in modo del tutto autonomo e fuori controllo, utilizzando per lo più ingenti patrimoni frutto di lasciti.
Già negli anni compresi tra il 1861 e 1896, subito dopo l’Unità di Italia, numerose commissioni d’inchiesta avevano portato alla luce problemi diffusi, abusi di gestione, mancanza di trasparenza e di sistemi contabili, corruzione nella gestione dei patrimoni immobiliari, sicché era emersa la necessità di sottoporre questa assistenza privata al pubblico controllo, obbligando le Opere Pie a compilare bilanci, statuti , registri che permettessero la vigilanza da parte di istituti designati dallo Stato. Tuttavia tali disposizioni risultarono di fatto ben poco efficaci, mentre la successiva legislazione, cosiddetta legge Crispi, regio decreto del 17/07/1890, regolamentò in maniera più chiara e univoca l’organizzazione amministrativa di tali enti.
Nel periodo successivo, fino al 1945, l’assistenza privata erogata da tali istituti subiva un vero e proprio processo di assorbimento da parte dell’ente pubblico, mentre durante la Repubblica si assisteva ad un procedimento opposto, di de- pubblicizzazione ed alla loro trasformazione in forme associative private, quasi un ritorno alle origini. Protagoniste di tale conversioni sono state le Regioni che, a seguito del DPR 24.07.1977 n. 616 hanno assunto tutte le competenze relative al settore socio-assistenziale.
Si arriva così al D.lgs. n. 207/01 che prevede per gli ex-Ipab il passaggio da personalità giuridica di diritto pubblico a quello privato, conferendo ad essi una serie di benefici nonché tutti i negozi funzionali al perseguimento dei propri scopi istituzionali e all’assolvimento degli impegni assunti in sede di programmazione regionale tra cui costituire società o fondazioni per svolgere attività strumentali a quelle istituzionali e per provvedere alla manutenzione del proprio patrimonio.
Attualmente le Fondazioni, i Consorzi, le Aziende pubbliche di servizi alle persone (Apsp) ex-IPAB sono inquadrati in un modello aziendale dove assumono sempre più una connotazione autonoma e originale di persona giuridica con una presenza al proprio interno di membri di nomina pubblica, comunale e regionale, e soprattutto sono orientate verso forme ibride solo in parte riconducibili al terzo settore, anche se lo stesso è in continua evoluzione.
Ebbene, cambiano i nomi degli enti, cambiano gli organismi di controllo, cambiano i decisori regionali e comunali, cambiano i membri eletti del consiglio di amministrazione, ma quello che più rende originali questi enti rispetto alle aziende socio-sanitarie è lo statuto, obbligatorio fin dal 1890, che deve contenere le norme fondamentali per il funzionamento delle istituzioni in conformità alle volontà espresse dal fondatore, in particolare le finalità da perseguire. E lo statuto è assolutamente vincolante, non può essere modificato nei suoi principi sostanziali, ma solo aggiornato e adeguato all’evoluzione dei tempi e della normativa vigente.
Ed ecco che il mio pensiero va ancora una volta a Casa Morando, che, a seguito del riordino delle Istituzioni Pubbliche, con D.G.R. 1552 del 5/12/2003, è passata da Ente di Assistenza e Beneficienza IPAB al regime giuridico di diritto privato, con denominazione “Fondazione Antonio Morando”.
Lo Statuto firmato in data 20 luglio 2005, fa, come è giusto che sia, riferimento allo statuto originario e così recita all’Art. 1 “[…]in ossequio alle disposizioni di ultima volontà del Sig. Gerolamo Antonio Morando, è stato istituito in Chiavari un Ente di Assistenza e Beneficio Pubblico, sotto il nome di Fondazione Antonio Morando, eretto in ente morale con lo stesso Regio decreto di approvazione dello statuto in data 1942.
La Fondazione aveva lo scopo di aprire in Chiavari un ritiro decoroso ove trovassero ospitalità, con vitto e alloggio, Signore e Signori del Comune di Chiavari, appartenenti a famiglie agiate o già tali di detta città, di buona condotta e buoni costumi, non affetti da malattie in atto, per cui dovessero essere sottoposti a trattamenti curativi che, per vecchiaia ed altra causa, non fossero più in grado di procacciarsi decoroso impiego ed occupazione e che per il passato loro personale e delle loro famiglie (queste impossibilitate a dare loro aiuto) fossero andate mal volentieri a cercare ritiro presso altri Enti congeneri costituiti in Chiavari.
Il numero dei posti gratuiti era stabilito dal Consiglio di Amministrazione in relazione ai mezzi di cui disponeva la Fondazione. ..”
L’art. 2 : Scopi istituzionali riformula gli obiettivi alla luce dell’ordinamento attuale delle strutture residenziali per anziani:
“ La Fondazione Antonio Morando opera senza fini di lucro, ha personalità giuridica di diritto privato, opera con autonomia statutaria e gestionale e persegue scopi di utilità sociale, sempre nel pieno rispetto dei principi morali enunciati dai fondatori […]”
E ancora: “ Al fine del raggiungimento degli scopi statutari la Fondazione si impegna a:
a) gestire una residenza protetta per anziani autosufficienti di sesso femminile e maschile;
b) ampliare l’utenza della Residenza Protetta
c) istituire un centro diurno o comunità alloggio per anziani;
d) rivolgere l’assistenza anche ad anziani provenienti dal circondario, zone limitrofe ed altre regioni.
Ma come si fa a conciliare gli scopi statutari della fondazione e la conservazione del patrimonio con gli incessanti cambiamenti che lo stato sociale e sanitario impongono e che la pandemia da Coronavirus ha reso intollerabili?
Nonna Rosina, nella sua saggia e onesta semplicità, mi ha insegnato che “non bisogna mai fare il passo più lungo della gamba” e questo concetto ha accompagnato tutte le decisioni, personali e professionali che ho intrapreso nel corso della vita.
Allo stesso modo la Fondazione ha sempre proceduto a piccolissimi passi, con tante difficoltà ed anche qualche scivolone all’indietro a seguito di fatalità non previste, perseguendo l’obiettivo di rendere Casa Morando accogliente e protettiva per ciascuna persona che la abita che non è, né più né meno, che il volere del benefattore.
“Tra regole e vita” è il titolo di un intervento di Maria Grazia, la Direttrice, presentato al convegno “Dialogo sulla vecchiaia del III millennio”, svoltosi a Lavagna (GE) nel 2015, due parole antitetiche che complicano ed ostacolano ogni progetto finalizzato al benessere individuale e che il periodo emergenziale ha reso ancor più scottanti e inavvicinabili.
Norme, legate alla pianificazione dei distretti socio-sanitari, ai requisiti strutturali di autorizzazione al funzionamento, ai vincoli ambientali e patrimoniali, alla suddivisione delle strutture residenziali a seconda del grado di assistenza sanitaria da erogare con obbligo di dotazione di operatori qualificati in numero prestabilito in base al servizio. Alle quali si sono aggiunte le disposizioni anti –coronavirus, mascherine, guanti, distanziamento, tamponi , vaccinazioni, aree buffer, isolamento ed altro ormai ben noto, il tutto mescolato a autocertificazioni, privacy , sicurezza ecc. ecc.
Ma quello che più di tutto ha ben poco a che vedere con la vita delle persone, carica di incertezza e imprevedibilità, è la suddivisione in fasce stereotipate degli ospiti residenti in base alla loro presunta disabilità nel preciso istante e contesto in cui vengono valutate.
A farla da padrone è infatti la scheda AGED (Assessment of Geriatric Disabilities), adottata dalla Regione Liguria fin dal 1990, come “strumento” operativo per misurare il tipo e il livello di bisogno assistenziale con modalità obiettive e indipendenti dall’osservatore. Una necessità più che comprensibile dopo il riconoscimento, avvenuto nel 1985, del diritto alla partecipazione del Sistema Sanitario Nazionale alle spese per le cure sanitarie extraospedaliere di anziani e disabili, fino ad allora a carico dei privati o dei comuni per i cittadini indigenti. Oggi è possibile utilizzare anche su supporto informatico la scheda Aged Plus, una scala con 37 voci che riguardano lo stato cognitivo comportamentale, il nursing tutelare, il nursing infermieristico, le attività riabilitative e la stabilità clinica, che deve essere aggiornata ogni 3 mesi, secondo le direttive, e presentata in visione ad ogni controllo ispettivo.
Infatti il punteggio Aged consente l’identificazione della fascia assistenziale dell’anziano e della retta sanitaria che sarà erogata al servizio che lo ospita: le persone con punteggio AGED superiore a 16, definite con l’odioso appellativo di NAT (non autosufficienti totali) sono avviati alle RSA, mentre quelli con punteggio inferiore a 10 possono essere ospitati nelle Comunità Alloggio. Tra 10 e 16 si collocano le persone con un grado parziale di non-autosufficienza ( NAP) che possono essere accolte nelle Residenze Protette. Come è evidente a tutti, almeno lo spero, tale valutazione trascura gli aspetti della massima autonomia potenziale dell’anziano che può essere conseguita solo superando le problematiche legate alla persona, spesso di ordine psichiatrico, ma anche e non ultime per importanza, quelle socio-ambientali.
E questo è il principale motivo per cui l’ Aged non ha mai goduto della mia simpatia.
Devo riconoscere però che in periodo pandemico la scheda ha perso parte del suo potere discriminatorio ed è caduta in disuso, soppiantata dai test antigenici rapidi e dai tamponi molecolari per la ricerca del fatidico Sars- Cov-2 che interpretano in modo eccellente il dualismo cartesiano di cui il mondo odierno è impregnato.
Ritornando alla rigida differenziazione delle strutture per anziani adottata dalla Regione Liguria , Casa Morando è stato piuttosto fortunata perché nel 2009, vai a sapere per quale svista o altra ragione, è stata autorizzata al funzionamento come Residenza Protetta per n. 25 ospiti non autosufficienti , cioè con punteggio Aged superiore a 16. Se, da un lato, a seguito di tale documento che definirei contradditorio, la Fondazione ha dovuto far fronte ad impegni economici per gli opportuni adeguamenti strutturali e di personale, dall’altro ha garantito la permanenza “a vita” dei residenti che, pur etichettati autosufficienti all’ingresso, hanno presentato nell’inesorabile scorrere degli anni la perdita della loro autonomia. Esempi di “lungodegenza”, per usare un altro termine odioso, in Casa Morando ce ne sono stati parecchi: Safena è stata residente per 23 anni, Sandra 14, Germana 18, Fortuna dai 94 ai 104 anni e mezzo, solo per fare qualche esempio che ricordo a memoria. Safena, poco prima di raggiungere l’ambita meta dei 100 anni, era stata protagonista di un singolare episodio: era stata trovata a letto nelle ore diurne ad un controllo dei carabinieri del Nucleo NAS e questi avevano lamentato il fatto che una residenza protetta non avrebbe dovuto ospitare una persona con necessità assistenziali così elevate, sicché bisognava trasferirla. Dove non si sa. Nessuno ha osato proferir verbo e tanto meno sottolineare che la centenaria era allettata solo dal giorno precedente il loro arrivo. Poche ore dopo Safena si è addormentata per sempre nel letto su cui aveva riposato per ben 23 anni e la storia ha potuto avere un lieto fine.
Resta il fatto che doversi aggrappare alla buona sorte per far combaciare le regole imposte con la dignità della vita e della morte, mi sembra una evidente testimonianza di quanto la ruota del sistema si inceppi con troppa facilità e in troppe circostanze. Infatti potrei scrivere un intero libro riportando episodi paradossali che mi sono capitati nel corso della mia vita professionale, ai quali è stato possibile ovviare esclusivamente appellandosi al soprannaturale. D’altra parte la preghiera, nelle sue varie forme, come sostiene l’Antropologo Antonio Guerci , avvalendosi di dati documentali certi, è il primo farmaco al mondo. Ed è pure priva di effetti collaterali.
Insomma, il discorso è sempre lo stesso: la medicalizzazione della vita, la burocratizzazione e la monetizzazione del sistema che infarciscono di norme a costi elevati la vita stessa a partire dalla nascita fino alla morte, il fallimento, almeno questo è il mio parere, dell’integrazione tra il sociale e il sanitario, conducono inevitabilmente a separare, aggregare, isolare, sequestrare, emarginare gli individui a seconda della categorie di appartenenza e a frammentare l’individuo stesso utilizzando parametri che nonna Rosina definirebbe “scriteriati”. E l’umanizzazione delle cure, declamata a gran voce, va a farsi friggere.
Proporrei di adottare il termine di “animalizzazione” delle cure in quanto sarebbe opportuno prendere esempio proprio dagli animali che dimostrano grande sensibilità nei confronti di coloro che hanno bisogno di aiuto, anche appartenenti ad altra specie senza chiedere nulla in cambio o accontentandosi di una carezza o di qualche pezzetto di pane stantio. I social sono intrisi di immagini e video che lo testimoniano. Come Grace, Rosy e l’inseparabile Angy che ci emozionano giorno dopo giorno per la relazione che in pochissimo tempo sono riuscite a instaurare con i nostri vecchi, allietati e divertiti alla sola vista del loro buffo ondeggiare e starnazzare nel cortile.
Sono certo che il Sig. Antonio Gerolamo Morando , il fondatore, sia orgoglioso di quanto è stato fatto e stiamo facendo affinché le sue volontà siano rispettate e questa è la cosa più importante.
È stata forse una casualità o chissà se ci ha messo lo zampino qualche energia nascosta, ma sono stata ritratta con Grace in braccio, nell’intento di somministrarle l’antibiotico per una infezione ad una zampa, proprio accanto alla foto del benefattore.
Mi chiedo spesso, come se lo chiedeva nonna Rosina: “Non è che si stava meglio quando si stava peggio?”
Oggi ci sono tanti mezzi e strumenti a servizio dell’uomo, ma se manca la solidarietà, la tolleranza, la visione globale, se manca la passione, l’amore, il cuore, la vita si svuota del suo intrinseco significato e diventa sopravvivenza piatta e priva di emozioni.
Questo non deve succedere, mai.
Si stava meglio quando si stava peggio?
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: I vecchi e il medico di Rosanna Vagge