Mi è capitato per caso, pochi giorni fa, di trovarmi fra le mani il libro di Ivan Illich “Nemesi Medica” scritto e pubblicato mezzo secolo fa. Stavo riordinando, appunto, le scartoffie impilate sulla scrivania della mia camera da letto che regolarmente Perla, la più corposa dei miei tre gatti, riesce a scompigliare all’alba di ogni giorno facendone precipitare alcune e costringendomi ad alzarmi ancor prima che possa suonare la sveglia, peraltro impostata alle ore 4,57 per via del mio inconsueto ritmo circadiano, simile a quello di una gallina. La copertina è sgualcita, dal bordo spuntano segnalibri, alcune pagine riportano appunti al margine e sono contrassegnate da pieghe, le cosiddette “orecchie”: cerco di sistemarle, ma, istintivamente mi soffermo alla pagina 93 e leggo:” Quanto più la vecchiaia diventa soggetta a servizi d’assistenza professionale, tanta più gente viene spinta in istituti specializzati per gli anziani, mentre l’ambiente di casa, per quelli che resistono, si fa sempre più inospitale”. Siamo alla Parte seconda del libro intitolata “La iatrogenesi sociale” con sottotitolo “La medicalizzazione della vita”.
Sfoglio il libro avanti e indietro cercando la definizione che l’autore attribuisce al termine “iatrogenesi sociale”. La trovo a pag. 49: “[…] parlerò di iatrogenesi sociale, intendendo con questo termine tutte le menomazioni della salute dovute appunto a quei cambiamenti socio-economici che sono stati resi desiderabili, possibili o necessari dalla forma istituzionale assunta dalla cura della salute. La iatrogenesi sociale insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili […] e addirittura abolendo il diritto di salvaguardarsi. La iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, un prodotto industriale […]”.
Sono parole forti che mi risuonano come un avvertimento; non posso far a meno di pensare ai danni provocati dalle disposizioni normative ritenute indispensabili per affrontare questo drammatico periodo segnato dalla pandemia da Coronavirus.
Mi imbatto, a caso, alla pagina 86, capitolo intitolato “L’imperialismo diagnostico” e leggo: ”La burocrazia medica suddivide gli individui in quelli che possono guidare l’automobile, quelli che possono assentarsi dal lavoro, quelli che possono fare il soldato […]”. E, aggiungo io, in quelli con tampone per la ricerca del virus Sars- Cov-2 positivo e in quelli negativi. Con tanto di certificazione medica allegata.
Non riesco a staccare gli occhi dal libro, scorro velocemente lo scritto, più con il cuore che con la mente e rimango colpita da altre frasi che non ricordavo più, considerato che sono passati parecchi anni dalla mia lettura integrale del testo. Illich riflette sull’organizzazione della società protesa a medicalizzare i periodi di rischio delle diverse fasi della vita, dalla nascita alla morte, ben diversa dal rito, breve per quanto drammatico, richiesto dagli stregoni della tribù Azandé per segnare il passaggio di un membro da uno stadio della sua salute al successivo, rito che peraltro metteva in luce le forze generatrici della comunità e l’importanza degli aspetti culturali per la preservazione della salute. “La supervisione medica permanente fa di tutta la vita una serie di periodi di rischio, ciascuno dei quali richiede una tutela speciale. Dalla culla all’ufficio e dal Club Mediterranée al letto di morte, ogni fascia di età è condizionata da un ambiente il quale definisce la salute per conto di coloro che segrega”. Prosegue il filosofo con modalità che definirei piuttosto corrosive, mentre il verbo “segregare” mi riporta alla situazione pandemica attuale.
Chissà cosa direbbe il filosofo antropologo se fosse ancora vivo!? Probabilmente si sta rivoltando nella tomba, penso io, perché la deriva, iniziata molti anni fa, sta prendendo una piega intollerabile per la dignità dell’essere umano.
Le situazioni che sto vivendo, per un motivo o per l’altro, pongono l’accento sulla controproducente assurdità di un’organizzazione socio-sanitaria basata sulla separazione tra gli individui e nella quale l’individuo stesso è reso inabile in specifico rapporto all’età. Quest’ultime parole sono presenti alla pag. 89 dell’edizione in mio possesso di “Nemesi Medica” e seguono una frase che riporto integralmente che dovremmo sempre tenere a mente, anche se può apparire addirittura caustica. Eccola: “Tra il parto e il termine estremo, questo fascio di interventi biomedici trova la sua migliore collocazione in una città che sia costruita come un utero meccanico […]. L’esempio più ovvio quello dei vecchi, vittime di cure impartite per una condizione incurabile”. Preciso che l’autore ironicamente fa riferimento alla cura intesa come terapia medica e alla vecchiaia come malattia, non al prendersi cura, che è sempre possibile in qualsiasi condizione si trovi un individuo.
La burocrazia medica sovrasta ogni decisione e l’organizzazione che ne consegue non sgarra di un millimetro. Le istituzioni preposte alla verifica e controllo delle norme imposte minacciano sanzioni, ritiro delle autorizzazioni e convenzioni, emarginazione dal sistema; il “razionale economico” supera di gran lunga il ragionamento clinico, che dovrebbe essere basato da millenni su scienza e coscienza, e la ruota della vita, con il suo carico di sofferenza, disagio ma anche gioia e speranza, si inceppa, poi si ferma, a volte riparte di colpo, lentamente o accelera vorticosamente, per poi arrestarsi di nuovo e così via. In modo apparentemente casuale. La sua irregolarità crea incertezza, confusione, disorientamento e miete molte vittime, in primo i pazienti, quelli più anziani, quelli ai quali noi medici abbiamo appiccicato l’etichetta di malattie, spesso concomitanti, che necessitano di farmaci specifici per ciascuna etichetta, farmaci a vita, anzi “salvavita” che non possono essere mai abbandonati e l’ora di assunzione deve essere spaccata al secondo altrimenti perdono di validità. Per poi meravigliarci se, dopo un evento acuto, il vecchietto di 99 anni muore a seguito di emorragia digestiva imponente dopo 30 anni di assunzione di Aspirina o di qualsiasi altro anticoagulante, seppur in associazione con gli irrinunciabili protettivi gastrici.
Sarò più esplicita. Non parlo di coloro che accedono ai pronto soccorso dei nostri Ospedali per sintomi correlati all’infezione dal virus Sars- Cov-2 e necessitano di ricovero nei reparti Covid, ordinari o nelle terapie intensive o sub- intensive a seconda della gravità della malattia, ma di coloro che acquisiscono la positività del tampone molecolare nel corso del percorso diagnostico- terapeutico ospedaliero per altre patologie mediche o chirurgiche o traumatiche, talvolta proprio sul finire del percorso stesso, invalidando tutto ciò che si era precedentemente stabilito: il rientro nel proprio luogo abitativo o la prosecuzione della cura, finalizzata al recupero funzionale, in istituti a minor intensità assistenziale o, ancor peggio, l’interruzione del percorso ospedaliero, come succede in caso di necessità di interventi chirurgici specialistici. Questi pazienti che non sono affatto una eccezione, anzi rappresentano, secondo la mia esperienza, la maggior parte dei casi, sono destinati all’isolamento, difficile da attuarsi al proprio domicilio, per gli stessi motivi imposti dalla norma. Per lo più si tratta di persone con una età anagrafica che la burocrazia colloca nella fascia di anziani, autonomi e ancora produttivi, per usare un termine caro al governatore della mia regione, persone che gradirebbero conservare la loro produttività, a vantaggio di tutti, anche dopo l’evento intercorrente acuto. Ma ci sono anche quelli che, mi verrebbe da dire sfortunatamente, non hanno ancora compiuto i fatidici 65 anni, per i quali le cose si complicano ulteriormente. E’ proprio così, perché i decisori della mia regione, una delle più anziane di tutta Italia, se non di tutta l’Europa, hanno previsto , con normativa speciale approntata ad hoc, le RSA per post-acuti Covid, le cure intermedie ospedaliere geriatriche con posti a singhiozzo un po’ Covid, un po’ non Covid, gli Hotel covid e le navi per quelli autosufficienti asintomatici, dimenticandosi che esistono i pazienti con disabilità temporanee o permanenti collocabili nell’età adulta o giovanile che auspicherebbero essere trattati come gli altri e soprattutto, nel caso la pandemia impedisca il completamento del percorso terapeutico da positivi, di essere destinati ad una struttura che possa garantire per lo meno una assistenza appropriata , quindi implicitamente dignitosa, in attesa della negativizzazione del tampone. Considerato che spesso i sintomi dell’infezione Sars- Cov-2 sono minimi o addirittura assenti, mentre le possibili complicanze derivate dall’interruzione del percorso terapeutico della patologia di base, comprensive di quelle psicologiche, possono cambiare il futuro della loro vita.
Così la continuità assistenziale, la giustizia sociale, l’etica professionale se ne vanno a farsi friggere.
E Enrico, nato nel 1969, assistito da sempre dalla sorella per un lieve handicap e arruolato nel progetto comunale “Vita indipendente” si trova ingarbugliato in una situazione assurda in quanto, dopo il suo ricovero avvenuto circa 3 mesi fa per una riacutizzazione dell’ artropatia e dermatite psoriasica che si porta addosso da parecchi anni, ha presentato una serie di problemi gravi subentranti uno dopo l’altro, tra cui la scabbia norvegese, infezioni batteriche varie e una pericolosa dislocazione di protesi d’anca. La terapia medica ha permesso la guarigione dalla scabbia e dalle infezioni, ma il problema ortopedico impone l’intervento chirurgico, per di più giudicato piuttosto complesso. Ma, ahimè,il riscontro occasionale di un tampone per la ricerca del Coronavirus, risultato positivo, scombina ogni cosa: non si può più trasferire in Ortopedia, bisogna isolarlo fino a che non si ottenga la guarigione virologica dall’infezione, seppur asintomatica e l’ unica destinazione possibile è un centro post-acuti Covid che, pur essendo in tutto e per tutto equiparato sulla carta ad una RSA, è strutturato in modo tale da rendere accettabile, se non gradevole, la permanenza anche a persone più giovani, autosufficienti o non. Ma non è finita: Enrico si negativizza, può essere operato, ma il reparto ortopedico non ha disponibilità di posti a breve e, nel contempo, il paziente non ha più diritto a proseguire la degenza presso il centro, con lo spauracchio della Corte dei Conti, né può rientrare a domicilio per l’incapacità della società di offrire assistenza continuativa ad un paziente che non è in grado di alzarsi dal letto.
Ed ecco che, in periodo pandemico, il detto “Il vecchietto dove lo metto?” pare essere soppiantato da altri: il cardiopatico, il traumatizzato, il disabile, soprattutto se non sono vecchietti, dove li metto?
L’alternanza dei tamponi, un po’ positivi e un po’negativi fa girare la testa e inceppa la ruota. Inoltre la rigidità delle norme, nonché la ristrettezza della mentalità odierna, complici le scarse soluzioni alternative predisposte dalla politica, sempre più confusa e ambigua, rendono piuttosto discutibili le scelte intraprese, nelle diverse circostanze. E sottolineo che il termine scelte è del tutto improprio in questo contesto.
Ritardi, disagi, avvilimento, sprechi di risorse pubbliche, solo per elencare alcune tra le conseguenze inevitabili di questo approccio burocratico ad un problema di salute, sono all’ordine del giorno e l’etica della cura quotidiana non trova più basi su cui appoggiarsi.
È questa la iatrogenesi sociale di cui parla Ivan Illich? Mi chiedo.
O forse il mio carattere ribelle ed un tantino anarchico, mi impedisce di comprendere fino in fondo, soprattutto per le scarse risorse economiche, che non si poteva fare diversamente?
La ruota dei miei pensieri incomincia a girare vorticosamente, devo chiudere il libro, distogliere la mente e concentrarmi su qualcosa di positivo, che mi faccia scorgere la luce in fondo al tunnel.
Penso a Grace, Rosy e Angel che sono state accolte con grande entusiasmo da tutti i residenti di Casa Morando, annoiati e afflitti dal lungo periodo di reclusione imposto dalla pandemia. Li hanno distratti dalla monotonia della vita di comunità, limitata nell’animazione e nelle feste e privata dei consueti e numerosi incontri con amici e parenti, sono state capaci di farli sorridere e i vecchietti, a loro volta, le hanno riempite di coccole, le stesse che avrebbero voluto ricevere.
Eccole mentre razzolano per la prima volta nel cortile.
Ed ecco Rita e Piero intenti ad accarezzarle e a farsele amiche.
Le oche, se non conoscono, possono essere aggressive e devono essere addomesticate da piccole. È quindi necessario impegnarsi per arrivare all’obiettivo di una buona convivenza.
Angel, l’anatroccola inseparabile dalle due, è un po’ più timida e paurosa, ma col tempo capirà che nessuno vuole farle del male.
Mi viene in mente di proporre ad altre strutture per anziani l’addestramento di oche come valido ed efficace antidoto alle iatrogeniche disposizioni anti-Covid, ma blocco all’istante questo bizzarro pensiero.
Forse la mia passione per gli animali e la natura in genere, mista ad una buona dose di stanchezza, mi sta facendo andare fuori dal seminato.
È meglio che mi fermi qui.