Domenica 6 dicembre 2020
Ho deciso di concedermi una giornata di riposo, credo di averne proprio bisogno dopo mesi in cui non riesco a staccare la mente dalla pandemia Covid, dagli incessanti impegni lavorativi, ma soprattutto dalla preoccupazione di come andremo a finire.
Essendo da sempre convinta che la motivazione sia la forza trainante della vita, cerco di evitare i momenti di sconforto e di avvilimento sostituendoli con pensieri positivi oppure, e questo mi viene ancora più facile, con rabbia e voglia di azione, tanto più violenta quanto più la problematica è di natura valoriale. Mi viene voglia di appiccare il fuoco a destra e manca, per distruggere o purificare, chissà, come fossi in preda ad un delirio di onnipotenza ma, vi rassicuro, fino ad ora sono riuscita a contenere questo mio lato oscuro, ed al massimo ho distrutto le presine da cucina, non accorgendomi che erano troppo vicine al fuoco acceso sotto la pentola. Confesso anche che essere chiamata Che Guevara o definita rivoluzionaria anarchica, come non pochi fanno, non mi disturba affatto, anzi lo considero un vanto.
Sto aspettando Bianca, la mia quarta nipotina, concepita in piena pandemia. L’annuncio del suo arrivo è stato dato il 2 giugno scorso, in occasione del primo compleanno del fratellino Tommaso ed ora ogni giorno è buono per nascere, ma con un limite dettato dalla prevenzione del rischio: sabato 12 dicembre.
E già, il concetto di rischio assilla il mondo odierno in modo sempre più pregnante. Rischio inteso come la possibilità che si verifichi un fatto negativo e non certo di àlea, che può essere definita come una sorta di scommessa verso ciò che è incerto, come illustra la diapositiva sottostante, tratta da un intervento dell’antropologo Felice Di Lernia, che ho presentato ad un corso di formazione sul rischio clinico.
La società del rischio rende estremamente complesse le decisioni nei singoli sistemi funzionali (politica, diritto, scienza, economia) e, se non bastasse produce la sospensione della pratica del cambiamento. Lo sostiene Niklas Luhmann nel suo libro intitolato appunto “Sociologia del rischio”.
Una previsione che mi desta una certa preoccupazione, considerato che il libro è stato pubblicato nel 1991, e che mi induce a presupporre, se è vero ciò che asserisce, quanto il rischio aggiuntivo e non prevedibile correlato alla pandemia Covid possa paralizzare ancora di più il cambiamento.
Un cambiamento a mio parere indispensabile, per il quale da sempre lotto con tutti i mezzi che ho a disposizione, indirizzato soprattutto a porre un freno allo strapotere della medicina che conduce alla medicalizzazione della vita ed alla mercificazione della salute.
Dalla nascita alla morte tutto deve essere previsto e organizzato, concretizzando la frase del sociologo tedesco riportata nella diapositiva: “Il futuro è sempre di più descritto con il concetto di rischio”.
Come possono le persone accettare l’incertezza e l’imprevedibilità della vita?
In un futuro, peraltro, paradossalmente sempre più incerto e imprevedibile per mano dell’uomo, della corruzione, dell’ipocrisia, del conflitto di interessi, della logica di un mercato sempre più spietato che non lascia spazio al rispetto dell’intero pianeta.
Mia nonna Rosina direbbe, mi par di sentirla, con il suo accento marchigiano: “Male voluto non è mai troppo” o la variante “Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”, cosa che mi irritava non poco quando arrivavo dolorante per qualche ferita da eccesso di vivacità, ma, comprendo ora, quanto fosse importante inculcare ad un bambino il senso di responsabilità che sembra sempre più venir meno a favore della ricerca incessante di un capro espiatorio.
È sempre colpa di qualcuno o di qualcosa e ciò induce, per logica conseguenza, a comportamenti difensivi da parte di ogni individuo oltre al tentativo di eliminare quel qualcosa o quel qualcuno che è additato come colpevole.
L’ enorme crescita delle innovazioni tecnologiche che è avvenuta negli ultimi decenni, ha inasprito, se si può usare questo termine, la dicotomia Cartesiana tra mente e corpo, fisicità e spiritualità, frammentando ciò che è indivisibile e perdendo di vista l’intero a favore del dettaglio. In poche parole, l’obiettivo salute, che raccoglie il tutto e non solo una parte, è andato a farsi friggere.
La deriva era già in atto da tempo, non possiamo nasconderlo. Il Coronavirus ha fatto semplicemente traboccare il vaso colmo di acqua, comportandosi come l’ultima goccia ed evidenziando in modo clamoroso le disuguaglianze, le iniquità, le disonestà e le ipocrisie del mondo intero, senza alcuna eccezione.
Tornando a Bianca, quando è nato il mio primo figlio, Franco, esattamente 41 anni fa, non si faceva ancora l’ecografia, il termine della gravidanza era previsto alla fine del nono mese, calcolato in base all’ultima mestruazione e la data prevista del parto era collocata più o meno a metà delle 3 settimane di margine di cui la natura dispone. Il corredo era di colore neutro, bianco o giallino, qualche capo azzurro in chi osava di più, bandito il rosa e il detto “Maschio o femmina quello che sia, viva Gesù, viva Maria” andava alla grande. Le previsioni del sesso erano basate sulla forma della pancia, più o meno a punta e, in quanto al parto, si faceva riferimento alle fasi lunari. Esami del sangue durante la gravidanza? Ben pochi e riservati soprattutto alle persone con patologie già note per evitare le complicanze più gravi, come la temuta gestosi gravidica. Insomma l’attenzione era rivolta alla persona e non standardizzata in nome del rischio, inteso ovviamente come pericolo e non di ciò che è aleatorio. Quest’ultimo termine sembra essere diventato inaccettabile per il paradigma culturale dell’era post moderna.
Ora la gravidanza non è più di 9 mesi, ma di 40 settimane, sui siti web trovi tutti i dettagli della crescita del feto giorno per giorno e la data del parto è codificata in base ai parametri ecografici, capaci di misurare ogni millimetro del corpo e calcolarne il peso; sono offerti gratuitamente, sempre che il medico curante non sbagli la sigla da apporre sul ricettario rosso, esami del sangue, translucenza nucale, screening del diabete gestazionale, senza contare quelli invasivi come l’amniocentesi e la villocentesi, da riservarsi a casi specifici. Con minime differenze tra un centro nascite e l’altro le procedure sono standardizzate: indipendentemente dalle fasi della luna, dopo 40 settimane + 1 o + 2 ha inizio il monitoraggio e, se le contrazioni non arrivano, arriva invece a breve l’induzione con fettucce o flebo.
Le cose si complicano ulteriormente in questo periodo, perché oltre ai consueti rischi, si aggiunge lo spauracchio del risultato del tampone al virus Sars- Cov- 2, tampone che, quando la gravidanza giunge al termine, viene ripetuto ogni settimana in quanto risulta essere determinante per il parto, dal momento che la maggior parte degli Ospedali non dispone di sale a norma per accogliere le partorienti positive. Elisa, mia figlia, ha scelto prudenzialmente l’Ospedale Pediatrico, Covid free o presunto tale, fino ad ora le è andata bene, sempre negativa, ma deve ancora sottoporsi ad un altro tampone e ad un altro monitoraggio per cui l’apprensione rimane elevata.
Domenica 13 dicembre 2020
È arrivata Bianca, alle 15,01 del 10 dicembre.
La natura è stata provvidenziale, Bianca non ha aspettato la luna nuova del 14 dicembre ed ha anticipato di due giorni la data stabilita per il ricovero e l’induzione del parto; si è inoltre guadagnata la stanza singola, non essendo stato ancora disponibile il referto del tampone di Elisa, eseguito, su programmazione, poche ore prima del parto. Così tutti abbiamo potuto tirare un bel sospiro di sollievo, attraverso la mascherina.
È la mia quarta nipotina, è sana e bella: sono felicissima.
Ma non stiamo esagerando?
In nome del rischio, fissiamo regole standardizzate e con margini ristretti di ogni situazione che riguarda la nostra vita, dimenticandoci ciò che è indivisibile e non misurabile: il benessere di ogni individuo.
“C’ È BISOGNO DI AFFETTO” leggo sulla testata di Corfole, Corriere del Levante, del dicembre 2020.
Come sottotitolo riporta: “Un ospedale ha riconosciuto l’importanza della vicinanza dei propri cari: riprese le visite dei famigliari nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Cisanello di Pisa, anche per i pazienti Covid, ovviamente con tutte le precauzioni del caso”.
Mia nonna Rosina, la cui cultura scolastica si è fermata alla terza elementare, direbbe, storcendo il naso: “Hanno scoperto l’umidità nei pozzi?”
Certo che c’è bisogno di affetto, di empatia, di rispetto delle scelte e dei valori che ognuno di noi conserva nel proprio cuore e che permangono, ancor più radicati, quando l’intelletto ci abbandona.
La maggior parte dei nostri anziani che ci hanno lasciato dopo giorni e giorni di allettamento in Ospedale, trasferiti da un reparto all’altro o nelle strutture Covid, pur assistiti nei bisogni primari e curati con farmaci, non sono morti per infezione da Sars -Cov-2, ma per la perdita della voglia di vivere, abbandonati e privati dei loro affetti e di ogni motivazione.
Di questo ne sono convinta, ne sono convinti i miei giovani collaboratori e pressoché la totalità di coloro che, a vario titolo, gravitano nel mondo sanitario.
Il più grande errore nel trattamento delle malattie è che ci sono medici per il corpo e medici per l’anima, anche se le due cose non dovrebbero essere separate” sosteneva Platone 2400 anni fa.
Forse mi giudicherete arretrata, ma la penso proprio così.
E mi associo all’appello del collega Antonio Panti, medico di famiglia fiorentino, oggi in pensione, che dice ”Occorre un sussulto organizzativo che coniughi rispetto e sensibilità umana con prudenza e buon senso”.
Finora il Coronavirus non ci ha insegnato proprio niente, penso sconfortata, ma subito mi appare nella mente la piccola Bianca e mi torna il sorriso.
Andiamo avanti.