L’epidemia di infezioni da Coronavirus, capace di monopolizzare pagine di giornali e social, mi ha aiutato a capire come sia difficile, per la pressoché totalità degli esseri umani dotati di intelletto, navigare nell’incertezza.
Quante volte, nel corso della mia vita professionale e non solo, i pazienti o i loro familiari, ma anche gli amici, i miei stessi parenti mi hanno rivolto domande del tipo: “Ce la farà a superare la malattia?- In quanto tempo?- Potrà fare quello che faceva prima? – Oppure rimarrà invalido per sempre? – Nel caso sarà capace di adattarsi al cambiamento?” e così via, tante e tante altre ancora.
Eh sì! L’essere umano ha bisogno di certezze e, tanto più la situazione è carica di drammaticità, tanto più ha bisogno di ancorarsi a punti fermi , che gli permettano di scegliere o per lo meno orientarsi tra il sopravvivere o il morire.
Ricordo lo strazio di una madre che, subito dopo aver appreso che il figlio maggiore, appena adolescente, era annegato, pietrificata su una sedia del vecchio pronto soccorso dove lavoravo, non meno di 30 anni fa, continuava a scrollare ripetutamente le spalle mormorando tra sé: “Intanto ho un altro figlio!”.
Ed ecco che mi vengono in mente altre drammatiche situazioni, vissute negli anni in cui mi toccava per senso di responsabilità la gestione del lutto, quando le persone affrante, non riuscendo a trovare dei punti fermi a cui ancorarsi, finivano per non credere, per negare la realtà in cui si trovavano immersi inaspettatamente, reagendo nei modi più svariati per sopportare i soffocanti bagagli di dolore.
Un padre, messo di fronte ad un trauma acuto del figlio di appena due mesi, che, seppur in condizioni gravissime, era stato intubato per essere trasferito all’ospedale Pediatrico Gaslini, in elicottero, continuava a sostenere che suo figlio era morto ma io non volevo comunicarglielo per illuderlo inutilmente, mentre per la madre la preoccupazione più grande era cosa dire alla sorellina di 5 anni.
Situazioni difficili, alle quali non si è mai preparati , che non possono essere affrontate attingendo al sapere della scienza, ma solo offrendo e soffrendo ciò che ci detta la coscienza.
Era domenica 8 marzo, quando scrissi queste poche righe, poi, come la maggior parte di tutti noi, sono stata sommersa dal dilagare incessante del virus con corona, come lo definisce Roberto Piumini, ed ora riprendo a scrivere, con un sentire diverso, legato, forse, ad una cresciuta consapevolezza dell’imprevedibilità della vita.
Ebbene sì, il Coronavirus mi ha toccato da vicino perché un caro amico e collega, pediatra di mio nipote, sta lottando da giorni tra la vita e la morte con un tubo in gola nella Rianimazione del San Martino di Genova. E mia figlia, il compagno e il piccolo Tommaso, di soli 9 mesi, sono in quarantena fino a domani, per aver fatto visita al pediatra l’ultimo giorno in cui ha lavorato. Stanno bene, ma la preoccupazione emerge forte ed è solo in parte mitigata dalla ragione. Con Vittorio, in gravi condizioni, anche un altro medico, da pochi mesi in pensione dall’ospedale, che abita a qualche centinaio di metri da casa mia.
Mi attacco ai numeri. Il Secolo XIX riporta che il 7,8 % dei decessi in Italia ha un’età compresa tra 60 e 69 anni e Vittorio compirà 67 anni il 30 aprile e, che io sappia, non ha nemmeno patologie pregresse o concomitanti. Mi rassicuro, ripetendo nella mente che 82,2 è un numero ben più grosso di 7,8: può e deve farcela. Ma un istante dopo, ho la sensazione che il mio stato d’animo non sia affatto cambiato, è stato solo distratto dal calcolo matematico.
Mi torna in mente la canzone di Bacco “… del doman non v’è certezza” che ho sempre interpretato come un inno alla vita, a godersi la giovinezza che fugge via ancor prima che tu possa accorgertene, a cogliere l’attimo, “carpe diem”, come si suol dire per essere felice. Ora la stessa frase mi risuona in modo diverso, mi fa sorridere amaramente e l’accento si posa sull’ imprevedibilità del domani e sulla complessità del mondo in cui viviamo.
Il mondo è un sistema complesso, lo sono gli organismi viventi, le organizzazioni sociali, la salute e, come tali, sottostanno alle regole della complessità: capacità di adattamento e auto-organizzazione e la coesistenza di determinazione e imprevedibilità.
Non dovremo dimenticarcelo mai.
E allora? Ecco che i numeri svaniscono dalla mia mente, il cuore si fa piccolo e l’ansia del futuro, quello imminente, quello che fino a pochi giorni fa ritenevo che fosse prevedibile, per lo meno programmabile, diventa tangibile.
Il convegno del 9 maggio a Viterbo si terrà? Quello sul quale avrei parlato di anziani, una occasione per portare la mia esperienza al servizio degli altri, esperienza di cui sono tanto orgogliosa. “Gli anziani oggi, tra fragilità e risorse. E domani?” ecco il titolo della relazione. Grossomodo avevo in mente la scaletta degli argomenti che avrei trattato, riportando sì i numeri del cambiamento demografico, ma sottolineando il clima attuale, caratterizzato da quella che Tom Kitwood chiama psicologia sociale maligna alla base del famigerato ageismo, clima che porta a considerare i vecchi come un elenco di patologie associate, talvolta in numero superiore a 10 e, di conseguenza, ad aumentare i posti letto nelle strutture per anziani, sempre più necessariamente medicalizzate, per curare le malattie croniche e/o riacutizzate di cui sono affetti.
Nella fascia di età compresa tra gli 80 e i 90 anni, i decessi per Covid-19 sono il 43,8% e la maggior parte di questi hanno 3 o più malattie croniche associate al punto che qualche luminare, all’inizio dell’epidemia, declamava a gran voce che nessuno in Italia sarebbe morto per il coronavirus come unica causa, per rimangiarsi la parola, pochi giorni dopo, con l’inesorabile avanzare del contagio e di conseguenza della letalità.
Per le decisioni inerenti alla salute dell’intera comunità, i dati statistici ed epidemiologici sono fondamentali, non ci piove, ma per i singoli individui che temono per i loro cari servono a ben poco, tutt’al più sono un labile ancoraggio quando il calcolo delle probabilità di farcela risulta favorevole.
Io vedo Vittorio in un letto di rianimazione, vedo Adriana, la cardiologa, vedo il nonno dell’amica di Monica, solo per citare persone in carne ed ossa da me conosciute, non dei numeri e questa dolorosa certezza esaspera l’incertezza e l’imprevedibilità della sorte che a loro toccherà.
Ne usciranno? Come e quando?
Non so rispondere, ma sono convinta che dire semplicemente “Non lo so”, con umiltà e compassione, da parte di chi sceglie una professione di aiuto all’altro, possa perlomeno, se non lenire, evitare di aggravare la sofferenza di coloro che sono colpiti da un evento drammatico inaspettato.
E così i media, in tutte le situazioni d’emergenza, devono stare molto attenti alle parole, dosandole ad una ad una, evitando di anteporre certezze a ciò che di fatto non si conosce e quindi non può essere prevedibile, perché le reazioni dell’individuo e dell’intera collettività non sono affatto scontate e gli effetti che si possono generare, in primo la sfiducia nelle istituzioni, porta inevitabilmente a disattendere se non addirittura disprezzare le raccomandazioni impartite con tutti i danni che ne conseguono.
A proposito di comunicazione, trovo che la filastrocca sul coronavirus dello scrittore bresciano Roberto Piumini, che prima ho citato, sia molto bella e capace di spiegare l’epidemia in modo rigoroso, senza trasmettere ansia, non solo ai bambini ma anche a tutti noi.
Ve la propongo con l’augurio che si avveri il sogno citato nell’ultima strofa.
Che cos’è che in aria vola?
Che cos’è che in aria vola?
C’è qualcosa che non so?
Come mai non si va a scuola?
Ora ne parliamo un po’.
Virus porta la corona,
ma di certo non è un re,
e nemmeno una persona:
ma allora, che cos’è?
È un tipaccio piccolino,
così piccolo che proprio,
per vederlo da vicino,
devi avere il microscopio.
È un tipetto velenoso,
che mai fermo se ne sta:
invadente e dispettoso,
vuol andarsene qua e là.
È invisibile e leggero
e, pericolosamente,
microscopico guerriero,
vuole entrare nella gente.
Ma la gente siamo noi,
io, te, e tutte le persone:
ma io posso, e anche tu puoi,
lasciar fuori quel briccone.
Se ti scappa uno starnuto,
starnutisci nel tuo braccio:
stoppa il volo di quel bruto:
tu lo fai, e anch’io lo faccio.
Quando esci, appena torni,
va’ a lavare le tue mani:
ogni volta, tutti i giorni,
non solo oggi, anche domani.
Lava con acqua e sapone,
lava a lungo, e con cura,
e così, se c’ è, il birbone
va giù con la sciacquatura.
Non toccare, con le dita,
la tua bocca, il naso, gli occhi:
non che sia cosa proibita,
però è meglio che non tocchi.
Quando incontri della gente,
rimanete un po’ lontani:
si può stare allegramente
senza stringersi le mani.
Baci e abbracci? Non li dare:
finché è in giro quel tipaccio,
è prudente rimandare
ogni bacio e ogni abbraccio.
C’ è qualcuno mascherato,
ma non è per Carnevale,
e non è un bandito armato
che ti vuol fare del male.
È una maschera gentile
per filtrare il suo respiro:
perché quel tipaccio vile
se ne vada meno in giro.
E fin quando quel tipaccio
se ne va, dannoso, in giro,
caro amico, sai che faccio?
io in casa mi ritiro.
È un’ idea straordinaria,
dato che è chiusa la scuola,
fino a che, fuori, nell’aria,
quel tipaccio gira e vola.
E gli amici, e i parenti?
Anche in casa, stando fermo,
tu li vedi e li senti:
state insieme sullo schermo.
Chi si vuole bene, può
mantenere una distanza:
baci e abbracci adesso no,
ma parole in abbondanza.
Le parole sono doni,
sono semi da mandare,
perché sono semi buoni,
a chi noi vogliamo amare.
Io, tu, e tutta la gente,
con prudenza e attenzione,
batteremo certamente
l’antipatico birbone.
E magari, quando avremo
superato questa prova,
tutti insieme impareremo
una vita saggia e nuova.