Anche quest’anno sono stata invitata ai corsi di cultura di Chiavari in qualità di docente e il titolo che mi è stato proposto per la prima lezione ,”Nonni e nipoti oggi: una relazione speciale di crescita reciproca”, tocca una tematica che mi sta particolarmente a cuore, sia perché sono orgogliosa di essere nonna per ben tre volte, sia per il fatto che mi piacciono i vecchi e i grandi vecchi, capaci di sorprendermi ogni giorno per quello che sanno trasmettere.
Non credo proprio che qualcuno possa nutrire dubbi sul fatto che nonni e nipoti o più in generale vecchi e bambini, siano in grado di sviluppare una relazione speciale di crescita, ma oggi, con il cambiamento demografico e la crisi economica e morale che coinvolge la società intera e sovverte la struttura delle famiglie, è ancora possibile investire risorse affinché questa relazione sia mantenuta, se non implementata? È una domanda che mi desta grande preoccupazione.
Si dice che l’esperienza insegna e quindi non posso far altro che pensare alla mia infanzia, parliamo di poco più di mezzo secolo fa, quando ben pochi erano i nuclei familiari che non ospitavano in casa una persona anziana.
Nonna Rosina, infatti, rimasta vedova precedentemente la mia nascita, ha vissuto con la mia famiglia fino alla mia adolescenza, influenzando considerevolmente il mio pensiero sull’invecchiamento, come più volte ho espresso nei miei precedenti scritti.
Era una donna forte, volitiva, capace, intelligente, nonostante non avesse potuto andare a scuola oltre la terza elementare perché doveva pascolare le pecore. Mi ha insegnato a lavorare a maglia, fin da piccolissima, e mi sgridava perché muovevo tutto il braccio per indirizzare il filo sul ferro, anziché il solo dito indice. D’altra parte era stata abituata a risparmiare da sempre, su tutto, e con 4 figlie in soli 8 anni e la guerra in atto, anche la minima energia spesa male aveva un grande significato. Ricordo il suo sguardo, serioso, ma mai minaccioso, quando io e mio fratello, facevamo qualcosa che non le andava a genio, come quello di sprecare il cibo, in particolare scartare il bordo delle crostate privo di marmellata o di scegliere le mele più belle anziché consumare prima quelle “taccate”, come diceva lei. Quando era esasperata dalla nostra vivacità, tirava fuori il mestolo di legno e ci rincorreva minacciando di colpirci con gesti plateali, ma noi velocemente ci infilavamo sotto il letto e non uscivamo fino a che non si fosse calmata. Quando proprio non ne poteva più della nostra disubbidienza, la nonna decideva che eravamo stati “stregati” e ci toglieva il malocchio mormorando una strana formula mentre noi dovevamo stare immobili - e questo era il problema più grosso- con un piatto colmo d’acqua sulla testa dove faceva scivolare ad una ad una delle gocce di olio. Osservava poi il piatto, a volte ripeteva il rituale perché non era convinta, ma , alla fine, riusciva sempre a toglierci il malocchio o almeno così ci diceva. Ebbene, nonostante accettassimo questa antica pratica in maniera del tutto irriverente e, più grandicelli, dimostrassimo un evidente scetticismo, ricordo che, almeno per alcuni giorni successivi, diventavamo davvero più ubbidienti e, nonostante ci sforzassimo di essere “bastian contrari”, finivamo per essere più accondiscendenti e tolleranti alle richieste. Chissà che non fossimo davvero stregati!
Insomma devo ammettere di essermi sempre sentita una privilegiata per aver avuto l’opportunità di vivere con nonna Rosina che mi ha insegnato ad apprezzare le differenze tra gli esseri umani e a conoscere le tradizioni della campagna di confine tra le Marche e la Romagna, dove era nata e vissuta fino a che non si era sposata con un ferroviere della sua stessa zona e si era trasferita a Genova.
D’altra parte 60-70 anni fa era piuttosto comune che le famiglie accogliessero in casa parenti anziani, nonni, zii o bisnonni , soprattutto se colpiti da qualche disabilità che impediva loro di vivere autonomamente.
Rita, la mia compagna di classe fin dalla prima elementare, originaria di Noto, viveva con nonna Sara da quando non era stata più in grado di camminare, forse, penso ora, colpita da un ictus cerebrale. Era sempre seduta su una sedia e sbiascicava parole in siciliano che io non capivo, ma era molto cortese e concludeva sempre chiedendomi di mia sorella minore, Grazia, che chiamava “a picciridda”.
Marirosa aveva in casa la bisnonna invalida e Paolo conviveva con nonno Zeffirino, un omone molto alto nonostante fosse incurvato dal tempo di cui ricordo soprattutto il rumore che faceva picchiando il bastone sul pavimento ad ogni passo, quando si avvicinava per controllare i nostri giochi.
I miei nonni paterni, invece, vivevano in casa propria situata dalla parte opposta della città per cui li vedevo più raramente ed avevo un po’ di soggezione, soprattutto del nonno Angelo che era piuttosto burbero. Ma quando nonna Seba, ancora giovane, è rimasta vedova -io allora avevo 9 anni- è stata accolta da una dei suoi 5 figli ed ha contribuito fino a tarda età alla cura dei nipoti.
Allora gli ospizi, che erano in numero limitato, accoglievano anziani più o meno autosufficienti che non avevano altre possibilità di dimora e, generalmente, per loro stessa scelta, mentre le persone affette da patologie gravi e disabilitanti che non avevano un supporto adeguato nell’ambito familiare, finivano nei reparti ospedalieri di lunga degenza , dove giacevano in un letto fino alla morte.
C’ è poi un’altra considerazione da fare, che non è affatto di poco conto. L’età anagrafica dei nonni era decisamente più bassa. Rosina è diventata nonna a 47 anni, l’ultima nipote, mia sorella Grazia, è nata quando lei aveva 62 anni e a poco più di 70 anni, epoca in cui era già diventata bisnonna e noi tre nipoti eravamo sufficientemente autonomi, ha lasciato la mia famiglia per andare a convivere con Ottaviano, un suo “spasimante” di vecchia data, che aveva dovuto attendere la propria vedovanza, nonché il consenso dell’amata, per raggiungere il suo obiettivo.
Pur sentendone la mancanza, l’ intera famiglia aveva accettato la sua scelta con rispetto e senza alcun pregiudizio e Ottaviano, pugliese con tanto di accento nonostante fosse da anni vissuto in Liguria, era stato accolto con grande affetto e stima. Rosina, come l’avevamo conosciuta, era una specie di maresciallo in divisa che impartiva ordini e pretendeva che fossero eseguiti alla perfezione, per cui vederla nei panni di innamorata, suscitava una piacevole tenerezza in tutti noi. Sapevamo inoltre che, pur essendo nata in centro Italia, non manifestava particolare simpatia per i meridionali e per i sardegnoli (così li chiamava) e quando le facevamo notare che la regione Puglia era al sud di Italia, sosteneva che Ottaviano era nato a Brindisi e non a Bari e che quindi non aveva nulla a che vedere con il meridione. Noi scoppiavamo a ridere e lei, dotata di una buona dose di ironia, rideva con noi.
Quando, già adulta, le presentai il mio secondo compagno argentino e le dissi che ero incinta di due gemelle, mi chiese subito se avevamo messo in conto il fatto che potessero nascere di colore, dal momento che la discendenza fa strani scherzi e a volte si saltano delle generazioni , sosteneva. Nonostante Carlos le avesse mostrato l’albo di famiglia, in cui i bambini apparivano tutti biondi e con gli occhi chiari credo che si convinse che non fossero di pelle nera solo dopo che nacquero Enrica e Elisa che purtroppo non hanno potuto godere dell’affetto di nonna Italia, mancata precocemente quando avevano appena 2 anni, ma ricordano con grande simpatia la bisnonna, vissuta in pieno possesso delle facoltà mentali fino a 95 anni di età.
Mai mi preoccupai di questo suo pregiudizio a sfondo razzista, esplicitato a parole senza il minimo astio, quasi per gioco, e soprattutto mai tradotto in comportamenti concreti.
Erano i tempi in cui si era soliti dire in diverse circostante “La mano nera ha colpito ancora”, senza alcun riferimento, almeno così io credo, cosa che, se si dicesse oggi, scatena una serie infinite di polemiche.
Insomma, fino almeno a mezzo secolo fa i nonni, o più in generale anziani e vecchi, erano parte integrante della famiglia e della vita sociale sia che fossero in perfetta forma, sia che avessero qualche acciacco e nella grande maggioranza dei casi offrivano il loro contributo, quello che potevano, sia a livello educativo che economico, sentendosi protagonisti del loro ruolo. C’era molta più accettazione, forse anche a livello personale, della riduzione della performance fisica legata all’età che avanza e le defaillance cognitive, più o meno gravi, spesso etichettate con il termine generico di “arteriosclerosi” erano più tollerate. Il detto in uso “da vecchi si ritorna un po’ bambini” incarnava, a mio parere la mentalità di quel tempo.
Oggi tutto è cambiato. Salvo le dovute eccezioni sempre più sporadiche, si diventa nonni oltre i 60 anni, una età, peraltro, in cui, se si sta bene si lavora ancora e se non si sta bene, si può aver già bisogno di aiuto. Lo testimoniano i dati dell’Eurostat che vedono allungarsi l’aspettativa di vita (una donna che nel 2008 ha compiuto 65 anni può attendersi in media di raggiungere gli 87 anni) , ma, nel contempo, ridursi, e non di poco, l’aspettativa di vita sana, cioè libera di disabilità gravi, che risulta addirittura dimezzata passando da 14 anni nel 2003 a 7 anni nel 2008.
Inoltre la convivenza di 4 generazioni fa sì che sempre più frequentemente le famiglie si trovino nella necessità di accudire sia i genitori anziani sia contribuire alla cura dei nipoti ancora in tenera età, per aiutare i figli costretti a lavorare entrambi per sbarcare il lunario. La crisi del welfare, non solo economica, ha contribuito allo sfaldamento dei nuclei familiari, insomma si è creata una situazione in cui, come sostiene l’antropologo Guerci, “ […] la separazione tra le età della vita non sembra dipendere dalle necessità demografiche e ancora meno dal buon senso, essa è piuttosto dovuta alla semplificazione analitica e assai futile delle logiche strategiche del marketing. La dittatura del mercato, articolata secondo dei fittizi bisogni generazionali, è divenuta da strategia di mercato un succedaneo culturale […].
Mia nonna Rosina diceva sempre “Di necessità … virtù” ed ecco che la visione della vita parcellizzata in nicchie generazionali prende campo nella mentalità popolare, l’invecchiamento diventa un problema da affrontare in quanto incrementa le spese facendo man bassa di presidi, la gestione domiciliare delle persone con disabilità anche lieve diventa insostenibile, talvolta solo per inadeguatezza ambientale, il pregiudizio nei confronti degli anziani, il cosiddetto ageismo, si manifesta in modo prepotente così come il concetto che la soluzione passi attraverso l’isolamento delle persone con qualche defaillance psichica o fisica in spazi ad hoc ove altri operatori, rigorosamente sanitari, possano assisterli al meglio. Pullulano così le strutture residenziali e semi-residenziali che, considerato l’incremento delle diagnosi di demenza, appariranno comunque sempre insufficienti a contenere tutti quelli che la società ritiene idonei ad occuparle a fronte di spese enormi sostenute dalle famiglie. Con questo circolo vizioso in atto, il concetto di intergenerazionalità si affievolisce sempre di più conducendo la società intera ad una crisi identitaria inedita nella storia umana. Mia nonna, se fosse ancora viva, commenterebbe il contesto odierno con queste parole: ”Si va di male in peggio”.
Eppure gli anziani, i grandi vecchi e le persone affette da demenza, anche di grado avanzato, possono insegnare ai piccoli le loro esperienze di vita, fin dalla più tenera età, e trasmettere con semplicità e naturalezza quei principi di tolleranza e solidarietà capaci di liberarci da pregiudizi e stereotipi di ogni genere
Il mio pensiero va subito a Giuliana, incapace da anni di pronunciare un solo vocabolo perché la malattia di Alzheimer le aveva rubato la mente, ma capace di catturare lo sguardo di Ginevra, la mia nipotina di 2 anni e mezzo, sussurrando “ciccina” con una dolcezza infinita, mentre camminava aiutata da una delle due figlie, sempre presenti, all’interno della struttura. La sua morte, avvenuta pochi giorni fa, ha lasciato un grande vuoto nella casa di riposo perché ci manca quell’alone di serenità, di accettazione della vita, quasi di beatitudine che emanava con la sua silenziosa presenza.
Oggi è davvero difficile riappropriarsi del ruolo di nonno ed esserne orgogliosamente protagonisti per motivi anche semplicemente logistici, considerati i ritmi imposti dalla vita odierna e la dislocazione delle famiglie in aree geografiche talvolta molto distanti.
I cambi di paradigma richiedono tempo e grande determinazione, ma dobbiamo mettercela tutta perché è in gioco la qualità della vita dei nostri nipoti e pronipoti che vivranno in società sempre più complesse, caratterizzate non solo dall’intergenerazionalità, con un incremento della popolazione sopra gli 85 anni di età mai avvenuto in precedenza , ma anche dall’aspetto pluriculturale che porterà alla contrapposizione tra diverse prospettive sull’età che avanza, in particolare la prospettiva occidentale , legata alla progressiva medicalizzazione delle persone che invecchiano e quella tipica di molte culture non occidentali, legata al tempo di vita.
In un contesto così ricco di divergenze se non addirittura di conflittualità concettuali, è indispensabile non dimenticare che l’invecchiamento con tutte le manifestazioni ad esso collegate fa parte della natura stessa dell’uomo e pertanto non può essere visto come un problema, bensì come una opportunità di crescita sociale per tutti.
Qualche esempio virtuoso incomincia a comparire, come la Mount St Vincent di Seattle che ospita un centro di apprendimento intergenerazionale in cui i bambini, sotto i 5 anni di età, vivono sotto lo stesso tetto degli anziani e praticano con loro tutta una serie di attività, dal gioco, ai balli, ai pranzi consumati insieme. I benefici non sono solo per gli anziani residenti, con studi che dimostrano la diminuzione del declino mentale, oltre che del rischio di malattia, ma anche per i bambini che imparano a diventare parte di una famiglia estesa ricevendo amore e attenzione incondizionati e illimitati.
O la realtà presente a Piacenza “Anziani e bambini insieme” che ospita in una sola struttura un asilo nido, una casa di riposo e un centro diurno per anziani e permette, seppure i di versi servizi funzionino con una loro autonomia, di condividere un unico progetto educativo basato su frequenti momenti di incontro (attività di laboratorio, pranzi, gite, feste) in cui vecchi e bambini sono rigorosamente insieme.
Ci proviamo anche nella piccola realtà di Casa Morando a proseguire le attività iniziate gli scorsi anni con i bambini delle elementari e delle medie della vicina Scuola Maria Luigia, effettuate esclusivamente su base volontaria, allargando gli incontri ai bambini della scuola materna affinché i nostri anziani possano condividere anche con i più piccoli alcuni momenti, per ora con frequenza limitata, ma continuativi nel tempo.
L’ assenza di risorse economiche e gli obblighi normativi rendono difficile ogni cosa, ma noi non ci arrendiamo perché sentiamo forte la necessità di un cambiamento culturale che possa contribuire a contrastare la preoccupante deriva dell’attuale sistema socio- economico-politico.
Nella vita ci sono cose che non si possono insegnare per il semplice motivo che nascono spontaneamente: sono le relazioni tra le persone. È un nostro compito creare le circostanze perché queste relazioni possano svilupparsi.
Le foto che vi mostro, più che le parole, testimoniano che si può fare molto con poco, l’importante è crederci.
Nella prima foto Ginevra chiacchiera serenamente con Giuseppina, quasi completamente sorda, dando vita ad un dialogo senza alcun senso ma ricco di emozioni. In un’altra occasione la mia nipotina pranza con grande naturalezza con gli altri ospiti.