C’era una volta il medico condotto, che girava di casa in casa a far visita ai pazienti nei paesi e nelle città, portando con sé la classica valigetta con tutto il necessario. Era rispettato, amato, a volte intimamente temuto. Ci si aspettava da lui che interpretasse i sintomi, che valutasse i segni attraverso un esame clinico accurato e che fosse presago di quello che sarebbe potuto succedere, insomma che formulasse la sua sentenza che veniva accettata senza ombra di dubbio, sia che lasciasse o meno speranza di vita. Certo, quando possibile, il medico erogava anche terapie, ma questo aspetto prescrittivo passava in secondo piano rispetto alla diagnosi ed alla prognosi.
Credo che la mentalità di allora confidasse molto sulle intrinseche capacità di guarigione delle persone, per cui il medico poneva l’accento più sui comportamenti, come il riposo e l’alimentazione, utili per superare il periodo di defaillance piuttosto che sui pochi farmaci allora disponibili, farmaci che venivano riservati ai casi clinici più impegnativi.
Solo di tanto in tanto il medico ricorreva alla diagnostica strumentale, limitata generalmente all’esecuzione di una radiografia del torace o dell’addome e raramente, e dopo accordi telefonici con i medici ospedalieri, richiedeva il ricovero sulla base della sola valutazione clinica. Insomma si assumeva le sue responsabilità utilizzando i mezzi allora in suo possesso. L’atteggiamento era di tipo paternalistico, il sapere medico veniva calato dall’alto e al paziente non restava che affidarsi a lui, ma il clima era indubbiamente rassicurante. D’altra parte sapere che “si è fatto tutto il possibile”, indipendentemente dall’esito talvolta infausto, non è cosa da poco e questo era il messaggio che un buon dottore riusciva a trasmettere.
Verso la fine degli anni ’50, il medico condotto del quartiere di San Fruttuoso a Genova dove vivevo con la mia famiglia, era il Dr. Dolcini, un uomo di bassa statura, corporatura normale, pelato o quasi, di età indefinibile, forse intorno ai 50– 55 anni, a pensarlo ora, di poche parole e dal fare sbrigativo.
Premetto che, a parte la parotide che mi ero risparmiata anche per le precauzioni che mia madre aveva messo in atto, essendo io in procinto di dare l’esame di quinta elementare, mio fratello Angelo ed io ci ammalavamo sempre insieme, contagiandoci vicendevolmente, e, per questo motivo, eravamo invidiati dai figli unici che si annoiavano a morte nei periodi di reclusione e isolamento forzato.
Ebbene, subito dopo l’annuncio che il dottore sarebbe venuto a visitarci, sia la mamma che la nonna si affrettavano a riordinare la casa per renderla più accogliente e si premuravano di cambiare gli asciugamani nel bagno scegliendo quelli di lino, ricamati e rigorosamente bianchi. Si accertavano inoltre che la camera matrimoniale fosse ben assestata, con le lenzuola del letto imbiancate e inamidate come usava una volta, perché, quando noi bambini eravamo malati, i genitori ci concedevano di usufruire, durante le ore diurne, del loro lettone. E questa cosa era davvero ambita per il motivo che, al di fuori dei rari momenti in cui venivamo sopraffatti dalla febbre alta, potevamo godere di un ben più ampio spazio per saltare e tentare le nostre acrobazie da circo, senza temere di essere sculacciati, al massimo si rischiava una semplice sgridata. Inoltre mi piaceva troppo la fettina di sottofiletto, tenerissimo, appena scottato, che ci riservavano, evidentemente per il costo, solo in quelle specifiche circostanze. Nonostante non mancassero le raccomandazioni di comportarci bene, appena sentivamo suonare il campanello di casa, restavamo immobili come cadaveri sotto le coperte, trattenendo a stento le risate, fino a che, avvicinandosi al letto il Dr. Dolcini pronunciava le consuete parole: “Chi visito per primo?”. Di solito iniziava da Angelo, che, più intraprendente di me, mi anticipava urlando “IO!”.
Non avevamo alcuna apprensione del verdetto e, dal momento che, a parte quella iniziale, raramente ci faceva altre domande, eravamo anche sgravati dal fatto di dovergli rispondere, per cui non ci restava che attendere in silenzio che finisse di visitarci e si voltasse, con un minimo cenno di saluto per parlare a bassa voce con la mamma, rimasta in disparte, in genere sul ciglio della camera. Nel frattempo, del tutto irriverenti del clima sobrio e rispettoso in cui eravamo immersi, ci atteggiavamo nuovamente a cadaveri ridacchianti, questa volta coprendoci anche il capo con le lenzuola, fino a che il dottore, compiuto il consueto rituale di lavarsi le mani e stropicciare gli intonsi asciugamani di lino, cosa che a noi non era permesso, finalmente usciva dall’appartamento situato al quarto piano senza ascensore. I convenevoli di mamma e nonna duravano alcuni minuti, per lo meno fino a che, dopo aver percorso il lungo pianerottolo, il medico non aveva raggiunto il piano sottostante. Solo allora potevamo ricominciare a saltare sul letto come scalmanati.
Beata fanciullezza che ti porta a godere del bello in ogni circostanza, senza alcuna incertezza del domani!
Invece il pediatra dal quale i miei genitori ci portavano privatamente ogni anno per controllare la crescita, forse perché i ricordi risalgono al periodo successivo, in cui ero più grandicella, mi incuteva una certa soggezione. Era un uomo robusto, piuttosto alto, dall’aspetto burbero e, al contrario del Dr. Dolcini, ci faceva tante domande alle quali rispondevo con imbarazzo, almeno io. Di lui, di cui non mi è rimasta memoria del nome, apprezzai molto il fatto che, quando seppe che io mi ero iscritta alla facoltà di medicina, mi regalò il famoso testo di anatomia umana Testut Jacob edizione 1920 in 8 volumi che feci rilegare e che conservo con grande cura.
E oggi? Tutto è cambiato.
Il medico di famiglia è diventato un burocrate che solo a stento riesce a sollevare gli occhi dal computer per guardare l’assistito che ha davanti in quel momento, sommerso da fogli di carta, richieste di esami, prescrizioni di farmaci, codici di esenzione, pratiche online di ogni tipo, certificazioni a pagamento o meno.
E la diagnosi clinica? E La prognosi? Dove sono finite?
La diagnosi clinica non esiste più, completamente esautorata dalla diagnostica strumentale che, ahimè, il paziente pretende di effettuare, anche in tempi rapidi, a seguito di informazioni tratte dai programmi televisivi o da internet o semplicemente per “sentito dire”. I più abbienti non di rado si rivolgono privatamente ad uno o più specialisti di fiducia, scelti in base ai sintomi lamentati, ancor prima di mettere al corrente il medico curante al quale si rivolgono solo in un secondo tempo per avere la trascrizione su ricettario regionale delle indagini richieste e/o della terapia prescritta.
Eppure:
“La diagnosi, in medicina, è un giudizio clinico che mira a riconoscere una condizione morbosa in esame, cioè a identificarla con uno dei quadri morbosi descritti in patologia. La diagnosi rappresenta il risultato di una complessa analisi di vari ordini di elementi che vengono ricercati, elaborati e concatenati in vari momenti: l’ordinata e completa raccolta dell’anamnesi, il rilievo dei segni attraverso l’esame obiettivo, la valutazione e interpretazione di essi, l’orientativo incasellamento nosografico del caso in esame, la critica discriminazione di quest’ultimo dagli altri quadri morbosi che possono in qualche modo simularlo o rispecchiarlo (diagnosi differenziale) […]La precisa formulazione della diagnosi permette di enunciare la prognosi e applicare razionalmente la terapia ”. Lo scrive l’Enciclopedia Treccani online.
Si tratta insomma di un ragionamento analitico complesso che richiede conoscenze specifiche, metodo e tempo di dedizione, al termine del quale il medico dovrebbe essere orientato verso una o più patologie. A questo punto la diagnostica strumentale prescritta con cognizione di causa dovrebbe convalidare l’ipotesi diagnostica clinica e/o corredarla di precisazioni circa l’eziologia e la sede delle alterazioni anatomiche, aggiungendo elementi fondamentali ai fini della prognosi e della corretta terapia, medica o chirurgica.
Giudizio clinico, complessa analisi, critica discriminazione? Dove è finito tutto ciò?
Oggi raccomandazioni, protocolli, procedure, algoritmi, “linee guida “disease oriented” hanno quasi del tutto soppiantato l’approccio tradizionale “patient oriented”, risparmiando sicuramente al medico la fatica di ragionare nella assoluta dimenticanza della verità del proverbio “non esiste la malattia, ma il singolo malato”, cioè la singola, irripetibile e concreta persona sofferente che ti sta di fronte”. Sono parole sacrosante che mai dimenticherò pronunciate da un grande neuropsichiatra, il Prof. Giandomenico Sacco, quando si soffermava a conversare e riflettere sui temi più attuali inerenti la pratica medica, nelle ore in cui ero di guardia in clinica.
“L'apporto conoscitivo da parte delle linee guida - continuava il maestro - non deve essere scartato, ma deve essere considerato complementare e mai alternativo all’approccio empirico antichissimo che ha portato Ippocrate a sostenere che è molto più importante conoscere che tipo di uomo ha quella malattia piuttosto che il contrario, cioè che tipo di malattia ha quell’uomo”.
Le linee guida, infatti, private del pensiero critico, quello senza sconti per nessuno che è alla base della valutazione clinica, sortiscono paradossalmente l’effetto contrario a quello per cui sono state istituite e finalizzate: la sicurezza del medico e del paziente.
“Non ho vergogna a dire che quando devo prescrivere un antibiotico ad un mio paziente, la prima cosa che penso è di non avere grane con l’ASL che ci sta col fiato sul collo. Sono avvilito, conto i giorni per poter andare in pensione perché questo non è fare il medico.“ dice Pino, medico di famiglia da mezza vita e poi aggiunge:” Nell’immaginario collettivo noi siamo liberi professionisti, ma liberi di che? Ho sempre la sensazione di essere preso di mira e di dover scansare pallottole che arrivano da ogni dove: dall’ ASL, dalla magistratura, dai pazienti. Scegliere la cura migliore? Questo passa in secondo piano. È prioritario difendersi dagli attacchi”.
Come dargli torto!?
Senza considerare che per scegliere la cura migliore, bisogna prima fare una diagnosi che, molto spesso o comunque più del dovuto, è affidata a indagini di laboratorio o strumentali prescritte da uno o più specialisti: i tempi si allungano, i costi lievitano, l’ansia e la preoccupazione predominano, il percorso terapeutico non può essere che discontinuo e frammentato.
In questo contesto come possiamo parlare di appropriatezza, sia in termini di tempo e sostenibilità, che in termini prescrittivi? In altre parole si instaura inevitabilmente un circolo vizioso dal quale è sempre più difficile uscire.
Di questo passo, cosa succederà domani?
Ci sarà un limite al progresso scientifico e tecnologico?
Il Medico sarà totalmente sostituito dall’intelligenza artificiale?
Mi chiedo con il cuore piccolo piccolo, mentre nella mia mente si concretizzano, con forza prorompente, parole come medicina difensiva, medicalizzazione, potere, finanze, conflitto di interessi, incompetenza, malafede, ricerca del profitto.
Parole che oggi sono sulla bocca di tutti, parole che fanno male, confondono e disorientano, capaci di imbrigliare e nascondere ben altre parole, come speranza, fiducia, stima, rispetto, senza le quali le relazioni umani si irrigidiscono fino allo scontro più acceso.
Sono sempre più convinta che, per porre un limite a questa deriva, sia necessario ristabilire un dialogo aperto e paritario tra le parti, capace di comprendere l’esistenza dei fattori umani e la loro influenza sul nostro agire quotidiano.
La conoscenza scientifica di per sé, così come il progresso tecnologico, non possono bastare per una “Cura” con la C maiuscola, così come una buona preparazione fisica non è sufficiente a garantire il traguardo di una maratona. (nella foto: Rosanna all'arrivo alla recente maratona di Pisa)
Durante i 42,195 km possono succedere inconvenienti spiacevoli come crampi, cali di zuccheri, cadute che rendono il percorso interminabile e sofferente, ma tutto ciò non impedisce di raggiungere l’arrivo. Se, invece, viene meno la speranza di farcela, allora sì che ogni passo diventa un ostacolo insormontabile e si è costretti a ritirarsi.
È la rinuncia la vera sconfitta, in maratona e nella vita.
Oggi non possiamo permetterci di tirare i remi in barca, ma tutti possiamo e dobbiamo contribuire ad invertire la rotta che ci porta alla deriva.
Perché, come sosteneva il grande Domenighetti, la salute è soprattutto informazione e consapevolezza.