Le parole mi piacciono, sono una chiacchierona e, per logica conseguenza, mi escono dalla bocca in modo piuttosto fluido e talvolta ingombrante. Pregio o difetto che sia, non intendo interrogarmi su questo, ma riflettere sul significato, sostanziale, completo che ogni parola sottende e sulla relazione che esiste tra parola-pensiero-azione.
In un mio precedente scritto dal titolo “La gerarchia delle parole” pubblicato su questo blog nell’aprile 2017 mi sono centrifugata il cervello nel chiedermi “se le parole hanno un qualche ordine che le rende diverse e diversificabili che condiziona in qualche modo il passare dal dire al fare”, articolo che consiglio di leggere, nel caso decideste di proseguire, in quanto utile premessa a questo che sto per scrivere.
Ebbene, mi sono imbattuta casualmente in una poesia di Vittorio Lingiardi, psichiatra, tratta da “Alterazioni del ritmo” ed ecco scatenarsi in me un groviglio di pensieri, strampalati in maniera inversamente proporzionale al rigore che caratterizza il metodo delle scienze esatte.
“Parole precise sono base sicura,
che tavolo è tavolo e cane cane.
Per tutti è così. Viviamo bene.
Un giorno mi hai detto che tavolo è cane:
così sono iniziate le cose disumane.”
Queste parole, così semplici, chiare, profonde, mi sono andate dirette al cuore e mi hanno provocato un misto di emozioni, indefinite, né positive, né negative, una sorta “di tutto e di più” che mi ha infiammato le meningi.
Per prima cosa mi sono venuti in mente gli anni della mia adolescenza, quando incominciavo a fare i primi passi da sola all’interno della società e i miei genitori, nel sacrosanto intento di darmi qualche dritta, mi avvertivano sui trabocchetti in cui si poteva cadere a livello comunicativo: “Stai attenta a non capire Roma per Toma”oppure “ a non prendere lucciole per lanterne”. Era un invito alla prudenza, a quel sano scetticismo che ci permette di ponderare le nostre scelte e ci distanzia un po’ di più dall’immediato futuro concedendoci quella porzione di lungimiranza capace di farci andare oltre. Solo ora ne comprendo appieno il profondo significato.
Ebbene con grande amarezza non posso far altro che constatare che questi vecchi modi di dire non si sentono più, sembra proprio si stiano perdendo nella notte dei tempi.
Non è forse perché in un passato, non troppo lontano considerato che molti esponenti sono ancora in vita, ci si interrogava di più sul significato delle parole, delle frasi, del perché certe cose succedono e altre no?
Io di domande me ne sono fatte tante, fin da molto piccola, senza mai attendermi una risposta, né dagli adulti, né tanto meno da me stessa. D’altra parte non era importante trovare la soluzione ai miei innumerevoli interrogativi, era invece affascinante chiedersi il perché di una cosa e poi di un’altra e poi di un’altra ancora, permettendo alla fantasia di spaziare liberamente all’infinito. Penso che le risposte, ammesso che ci fossero o fossi stata in grado di comprenderle, avrebbero appagato la mia curiosità sul momento, ma avrebbero interrotto quell’atmosfera di maliziosa complicità con me stessa, del tutto priva di inquietudine, in cui tanto amavo immergermi. E riuscivo persino a visualizzarli i miei punti interrogativi, sospesi nell’aria, l’uno accanto all’altro, avvolti da una nube di mistero che li rendeva irraggiungibili. E forse la bellezza consisteva proprio in questo.
Ricordo come fosse ora quante volte ho riflettuto sul perché sollevando mio fratello più piccolo di due anni, mentre lui nello stesso tempo sollevava me, per quanto ci sforzassimo, non riuscivamo ad alzarci da terra nemmeno di un centimetro, anzi, ancor di più, restavamo ancorati al pavimento. Lo trovavo un paradosso incomprensibile.
Quando, molto più tardi, scopersi l’esistenza della gravità, mi vennero subito in mente le mie elucubrazioni di cui, ammetto, non mi vergogno affatto nemmeno ora, anzi penso che siano un patrimonio da conservare e possano essere di grande aiuto nella relazione con i bambini e con i vecchi.
Le mie erano soprattutto domande esistenziali centrate sul perché avvengono certe cose e non altre, piuttosto che sul come. Mi perdevo a cercare di capire la ragione per cui gli animali sono così differenti tra loro, alcuni hanno 4 zampe, altri 2, alcuni popolano il cielo, altri la terra o il mare; mi chiedevo il perché le giraffe hanno il collo lungo, gli ippopotami sono goffi e grassi e i leoni mangiano le gazzelle che sono così belle. Un po’ più grandicella, ricercavo la motivazione per la quale è necessario dormire, generalmente alla notte, sprecando così tanto tempo utile per fare delle cose oppure il perché al mondo ci sono individui che non hanno da mangiare e altri ricchi come Paperon De Paperoni che non sganciano nemmeno una monetina per sfamarli.
Insomma, il pensare mi divertiva. Solo le disuguaglianze mi provocavano una certa sofferenza che rimaneva lì, sospesa nell’aria insieme al suo perché, tanto è vero che mi dava un certo fastidio ascoltare la favola della Piccola fiammiferaia e altre, davvero tristi, dove la perdita o addirittura la morte erano sempre presenti.
Prediligevo i fumetti, con gli animali parlanti, dove tutto era bello e buono, e sfogliavo le pagine illustrate a una a una recitando il testo a memoria, parola per parola, ben molto prima di imparare a leggere.
Non ricordo però di essermi mai interrogata riguardo alla possibilità di avere una mente bizzarra, in qualche modo deviante rispetto agli altri, da cui deduco che mi reputavo, non so se a torto o a ragione, nella normalità o, a essere più precisa, nella media statistica degli esseri umani. Deve essere per questo motivo che sono cresciuta con la convinzione che le domande sorgessero spontanee nella mente di tutti, istruiti o analfabeti, giovani o vecchi, poveri o ricchi, domande dettate più dai sentimenti che dalla ragione, dal buon senso, dall’onestà, dal rispetto, valori intrinseci agli esseri umani, indipendentemente dalla loro età e dalle loro condizioni di vita.
Oggi le persone sono capaci, come allora, di riflettere sul senso delle cose? Mi chiedo, tanto per non perdere il vizio, anche se ho i capelli grigi.
Ho la sensazione che molte di esse tendano a “vivere alla giornata”, un concetto che ritengo molto limitativo perché è mia convinzione che la motivazione, qualunque essa sia, debba fare da traino al nostro percorso.
Che sia perché” “Del doman non c’è certezza”? Senza dubbio le persone, dopo anni di crisi economica e di valori, fanno fatica a credere nella possibilità di ottenere un futuro migliore, così avviene che sentimenti come la speranza e la fiducia rimangono sepolti da macerie di sofferenza e di disperazione e la vita si trasforma, a poco a poco, in una svilente sopravvivenza.
Ed ecco la dimostrazione di come il contesto possa indurci a interpretare in maniera decisamente più drammatica, la ben nota citazione tratta dalla Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico che, seppur con una certa amarezza per l’ineluttabilità del destino, intendeva, allora, essere un invito a godersi la giovinezza sfuggente e a non perdere le opportunità del momento.
Oggi la stessa frase si carica di beffarda tragicità che risulta intollerabile al mio pensiero.
Ben altri detti di uso comune mi appaiono più consoni al mondo odierno, come “Si salvi chi può” e “Chi si è visto si è visto”, che si adattano benissimo al “vivere alla giornata” ma sono cariche di emozioni negative che vanno ben oltre la sana inquietudine dell’incertezza che inevitabilmente ci affianca nel corso della vita, assumendo il significato di triste presagio di un futuro che potrebbe essere peggiore dell’oggi o addirittura metterne in discussione la sua esistenza.
Incomincio a comprendere col cuore, o meglio, con la mia intelligenza emotiva, tanto per usare una terminologia accettata dalla scienza, il significato della poesia di Lingiardi quando dice:
“Un giorno mi hai detto che tavolo è cane: così sono iniziate le cose disumane”.
Ecco dove sta l’inghippo!
E’ sufficiente gettare un rapido sguardo al contenuto delle frasi più gettonate per pubblicizzare le case di riposo, o comunque rivolte agli anziani in generale, per comprendere la tendenza attuale a “cambiare le carte in tavola”, tanto per essere in sintonia con Lingiardi.
Basti pensare alle innumerevoli parole come sorriso, carezze, bacio, abbraccio, gentilezza, affetto, accoglienza, solidarietà e tante altre ancora, che si abbinano a sproposito (con troppa facilità e forse anche ambiguità) al termine terapia, come se dovessero essere prescritte e somministrate a orari determinati, alla stregua dei farmaci.
Senza considerare quelle ormai assimilate nel linguaggio comune come la terapia con gli animali, con la bambola, con la musica, con la danza, con i fiori, con l’orto e chi più ne ha ne metta.
Se queste parole fossero abbinate al termine cura, intesa come “care”, il cui significato, riportato come prima voce nel vocabolario Treccani, è “Interessamento solerte e premuroso per un oggetto (o soggetto) che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività”, non ci sarebbe nulla da ridire, ma, attenzione al trabocchetto!
Oggi, purtroppo, la parola cura è diventata sinonimo di terapia, nonostante la stessa Treccani riporti, per quest’ultima, una definizione del tutto differente: “studio e attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per combattere le malattie”. Le due diapositive sottostanti, tratte da una mia relazione dal titolo “La cura slow”, sintetizzano questo pensiero.
A mio parere il punto è proprio questo: le frasi che contengono la parola “terapia” fanno inevitabilmente riferimento alla medicina e sottendono il concetto che l’invecchiamento sia una malattia, per forza di cose cronica e inguaribile, da combattere con trattamenti che, per ovvi motivi, non possono essere altro che palliativi.
Il ragionamento fila solo se si accettano questi presupposti che non trovano il minimo spazio nella mia mente bizzarra. A mio parere è la stessa cosa di dire che “tavolo è cane”.
“Così sono iniziate le cose disumane “, prosegue Lingiardi e i gesti affettuosi o semplicemente le buone maniere che dovrebbero generarsi spontaneamente in coloro che col cuore si prendono cura dell’altro, finiscono per essere equiparati o ancor peggio confusi, con le azioni standardizzate e asettiche, elargite a intervalli regolari, da chi, per professione, somministra un farmaco a un malato per il quale “c’è ben poco da fare”. Senza considerare che i farmaci non sono mai privi di effetti collaterali, talvolta addirittura devastanti.
Dopo questa mia riflessione, tengo a precisare che è il fraintendimento a essere disumano, non i comportamenti delle persone. Fraintendere non è cosa di poco conto perché le parole sono capaci di plasmare le nostre menti, trasmettere convinzioni e orientare i nostri atteggiamenti e le nostre azioni, inconsapevolmente.
Non si può scherzare con le parole: una carezza è una carezza; un abbraccio è un abbraccio; un vecchio è un vecchio; un malato è un malato; un farmaco è un farmaco.
Come può essere il sorriso uno standard? L’accoglienza un rituale? La collaborazione una terapia? Solo per citare alcuni esempi di propaganda tratti da internet.
Se è vero che dal pensiero nascono le azioni, imparare a riflettere sul significato delle singole parole che utilizziamo ogni giorno, troppo spesso a sproposito, potrebbe aiutarci ad alzare lo sguardo, allargare gli orizzonti e comprendere il nostro agire in una visione di più largo respiro.
Che sia questa la chiave di svolta per fare cose umane? Chiedo a me stessa, ma la risposta resta sospesa in un’atmosfera di maliziosa complicità.