E’ fuori di ogni dubbio che il crollo del ponte Morandi ha lasciato una ferita aperta nel mio cuore di genovese.
Quando ero adolescente, lo zio Ercole, macchinista delle Ferrovie dello Stato, amico e collega di mio padre, ci portava con la sua auto che aveva acquistato dopo il pensionamento, ad ammirare la magnificenza del ponte, appena costruito, capace di unire la zona ovest a quella est della città. Eppure non erano certo da poco i disagi che la costruzione dell’opera aveva provocato al suo appartamento, sito ad un piano alto delle cosiddette “case dei ferrovieri”, dove risiedeva con l’anziana madre e due sorelle, entrambi zitelle. Infatti uno degli enormi piloni che sorreggevano il Morandi passava davanti alle finestre di due stanze attigue affacciate sulla via principale ed era talmente vicino che, sporgendoti, lo potevi toccare con una mano. Così la luce penetrava a fatica e la vista del cemento sopra la testa non aveva proprio nulla di spettacolare.
Ma Ercole era un uomo generoso, solidale, dotato di grande senso civico, capace di rinunciare ai privilegi personali in favore del bene pubblico, per cui gli inconvenienti prodotti dal pilone erano per lui irrilevanti rispetto ai vantaggi che la grande innovazione tecnologica avrebbe saputo dare alla città ed ai suoi abitanti.
Quel ponte non rappresentava solo un mezzo di comunicazione tra due luoghi, ma molto di più: era simbolo di progresso, di miglioramento, di unione e di legame tra persone e popoli. Un pensiero forte che era riuscito a trasmetterci.
Molti anni dopo, alla presentazione dell’Associazione di promozione sociale “I Fili”, utilizzai un’illustrazione tratta da internet che faceva riferimento al breve racconto di Kafka “Il ponte”.
I fili intendono creare un ponte tra il mondo della vita e il mondo della medicina per aiutare le persone a fare le scelte giuste per la loro salute.
Oggi, ripensando all’immagine e al racconto d Kafka mi vengono i brividi. Quella frase “Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare” mi risuona in mente, inquietandomi e incoraggiandomi allo stesso tempo. Che strani e assurdi pensieri! Sarà un inizio di Alzheimer ? Mi chiedo, tanto per essere al passo con i tempi!
Sono confusa e disorientata, ma di una cosa sono certa: di ponti, reali o metaforici, ne dobbiamo costruire molti ma, una volta gettati, dobbiamo garantire che siano in grado di sopportare il carico di coloro che li percorrono, che siano abbienti o indigenti, felici o disperati, bianchi o neri, giovani o vecchi, malati o sani, savi o dementi. Oltre a non dimenticarci mai che è la tecnologia al servizio dell’uomo e non viceversa.
Dobbiamo gettare un ponte tra le generazioni perché, come sostiene l’antropologo Antonio Guerci, nella situazione inedita attuale in cui quattro generazioni convivono per periodi sempre più lunghi, “occorre cercare di concepire-inventare un modello tipo di società futura e tentare di anticipare l’evoluzione delle relazioni tra le principali componenti del sistema sociale, sempre consapevoli che non sono i livelli dei fenomeni che evolvono ma anche i legami che li uniscono tra loro”.
Sono parole tratte dalla "lectio magistralis" del cattedratico in occasione del convegno ”L’arco della vita: un paradigma per il dialogo tra le generazioni” che si è tenuto a Genova, Palazzo Ducale nel maggio del 2012. A queste se ne aggiungono altre, illuminanti, pubblicate su questo stesso Blog nel dicembre 2017 nella rubrica “Cinque domande a …” che ancora ci fanno pensare alla necessità di un ponte tra i Popoli:
“Divenendo multigenerazionali, le nostre società sono diventate anche pluriculturali e la relativa gestione si è così resa più problematica. Gli stati-nazione, che finora hanno avuto la tendenza a concepire le loro leggi e i loro regolamenti per cittadini standardizzati, hanno speculato più sulla loro omogeneità che sulla loro eterogeneità. È questo un concetto che va completamente rivisto se si vuole evitare che l’ingresso nell’”era della senescenza” corrisponda a una fase di caos e di disordine provocati dallo choc generazionale”.
Il mondo globalizzato ce lo impone e, a questo proposito, cito ancora le parole di Guerci: ”Prioritaria è l’accoglienza delle diversità biologiche, culturali, etniche, tramite il dispositivo educativo dell’interazione generazionale e la cultura dell’Arco della vita, che contrastano la tendenza odierna, sempre più marcata a dividere ciò che è indivisibile, parcellizzando i momenti esistenziali e sradicando la persona che invecchia dal suo passato”. Il concetto di “Arco della vita” si basa proprio sulla considerazione che l’invecchiamento non deve più essere considerato come un periodo residuo, bensì come un’epoca della vita nella sua interezza”.
Dobbiamo gettare un ponte tra le Persone, tutte perché il patrimonio individuale di ognuno di noi sia valorizzato e conservato. Parlo ancora di Persone con la P maiuscola e mi riferisco, in particolare alla pessima abitudine di dividerle, oltre che per fasce di età, in categorie stereotipate secondo il grado di incapacità fisica o, peggio ancora psico-intellettiva, a svolgere gli atti della vita quotidiana. Tra queste, la categoria che comprende le Persone affette da demenza è certamente la più penalizzata, in quanto la società, non ancora in grado di includerli, tende ad abbandonarli al loro destino, come se la vita non avesse più alcun valore. Quando poi la famiglia non ce la fa più ad andare avanti, non resta che ricorrere all’istituto, come unica soluzione possibile per far fronte ai bisogni di chi “ha osato ammalarsi della malattia sbagliata”. A fronte di costi economici (e non solo) piuttosto ingenti e non accessibili a tutti. A questo proposito mi piace riportare alcune frasi tratte dalla lunga lettera che Wendy Mitchell, malata di Alzheimer, ha scritto alle persone al potere nella sua nazione, la Gran Bretagna, affinché rendano fattibile il cambiamento, lettera pubblicata sul sito della ONLUS Novilunio di cui condivido appieno le finalità. E da cui ho tratto anche la precedente frase virgolettata.
“[…] Abbandoniamo il modello biomedico di cura e assistenza e concentriamoci invece sul modello sociale che avrebbe un impatto molto maggiore sulle risorse a lungo termine. Troppo spesso i servizi aspettano che ci sia una crisi prima di intervenire, aspettano che le famiglie non ce la facciano più ad andare avanti prima di intervenire. Se le persone vengono aiutate da un supporto di tipo emotivo, finanziario e pratico fin dal momento della diagnosi, sarebbero maggiormente in grado di affrontare la demenza da sole. Non andrebbero dal loro medico di base perché sono depresse – e non mi riferisco solo alle persone con demenza ma a tutta la loro famiglia che non riesce più ad affrontare la malattia. […] Il nostro sistema sanitario e il sistema socio-assistenziale sono in crisi. Se non prestiamo attenzione adesso e agiamo di conseguenza, la situazione potrà solo peggiorare con l’aumento della popolazione anziana che eserciterà una pressione ancora maggiore sui servizi”. Poi aggiunge che è indispensabile affrontare la crisi perché evitare di pensarci non aiuta certo ad allontanarla. E si congeda con queste parole: “Saluti da qualcuno che non ha più il tempo dalla sua parte …”.
Sagge considerazioni, eppure Wendy si porta addosso una diagnosi di demenza di Alzheimer da ben quattro anni. Come è possibile? Mi chiedo, ma chi mi conosce sa che non mi meraviglio affatto.
E’ evidente, come ancora una volta sostiene Guerci nelle risposte all’intervista di Lidia Goldoni, che è indispensabile contrastare lo stereotipo economico oggi prevalente, cioè “ l’idea che i contributi alla società siano forniti solo dagli individui strutturati all’interno del sistema macroeconomico (ossia da coloro che possono essere considerati come forza lavoro disponibile sul mercato). Quest’assunto implica che l’evoluzione culturale, sociale ed economica passa solamente attraverso l’impiego retribuito: dal momento che la capacità di produrre forza lavoro declina con l’età, gli anziani non hanno più nulla da dare”. Eppure contro questo assunto ci sono molte testimonianze, ma purtroppo è vero anche che “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.
Dobbiamo smetterla di innalzare muri.
Dobbiamo incominciare a dire basta alla costruzione di contenitori, sempre più sofisticati, colorati, gradevoli, dai nomi accattivanti, taluni specializzati per i giovani con disabilità psichica o fisica, altri, prevalenti numericamente per questioni demografiche, per coloro che hanno raggiunto il fatidico numero di anni che segna l’entrata nell’anzianità, non più idonei, per la società, a vivere da soli o in famiglia. Un numero destinato a crescere sempre di più ed anche in fretta: nel 2003, quando eravamo ai vertici della classifica, potevamo vantare il fatto di avere una speranza di vita senza gravi problemi di salute fino a 72 anni, di lì in poi l’ inesorabile crollo.
Sul sito dell’ISDE (International Society of Doctors for Enviromment) l’amico Valerio Gennaro, coordinatore dei Medici per l’Ambiente- Genova pubblica, in data 4 ottobre 2018, un articolo dal seguente titolo: “Il ponte di Genova è crollato da 40 giorni. La salute in Italia da 14 anni”. Precisa che gli anni di aspettativa di vita in SALUTE (Healthy Life Years, HLY), sono progressivamente scesi, dal 2004 in poi, sotto la media europea, addirittura di 7 anni, nel periodo compreso tra il 2004 e il 2009. Peggio va per la popolazione over 65. Le ragioni di questi crolli, prosegue Valerio, sono molte ma tra queste “la mancanza di ascolto e di diagnostica delle priorità della popolazione è probabilmente la prima causa di una inefficace terapia da adottare”.
Ma come è possibile, mi chiedo, non accorgersi della situazione paradossale che stiamo vivendo?
Pochi giorni fa una TV locale ha dato l’annuncio della costruzione di una nuova residenza sanitaria per anziani di 4500 metri quadrati, sviluppata in 5 piani, dal costo complessivo di 7 milioni di euro di cui 90.000 già concessi dalla regione al comune. Una nuova residenza protetta a misura di anziano, declama il titolo dell’articolo, una struttura efficiente e all’avanguardia con nuclei specializzati a trattare patologie degenerative come l’Alzheimer.
Un edificio, che si aggiunge agli altri 43 già esistenti nel territorio, capace di contenere 92 anziani parzialmente o totalmente non autosufficienti, di dare lavoro a 50-70 persone e di accrescere le tasche di chi riuscirà a vincere la gara per la concessione, della durata di ben 35 anni. Realizzato in una frazione di un piccolo comune di 1500 abitanti, situato a circa 15 km dalla costa, raggiungibile solo in auto perché i mezzi pubblici effettuano solo 4 corse al giorno, andata e ritorno, con orari pensati per chi deve raggiungere la più vicina stazione ferroviaria per recarsi al lavoro, quindi 3 corse tra l’alba e la prima mattina e una solo nel tardo pomeriggio. Il tutto a misura di anziano.
L’inclusione dove va a finire? Mi chiedo io.
Ed il benessere che deriva dal sentirsi vivo, da quel senso di appartenenza al proprio mondo costituito dal passato, dai luoghi in cui si è vissuti, dagli oggetti che si sono posseduti, circondati dall’affetto delle persone care?
Non capisco proprio dove vogliamo arrivare con tante contraddizioni!
Molte ormai sono le testimonianze nell’intero pianeta dell’importanza delle emozioni positive, le uniche capaci di renderci la vita migliore, nonostante le disabilità fisiche ed intellettive.
Non è nemmeno difficile comprendere che le emozioni positive dipendono dalle relazioni che si instaurano tra le persone, relazioni che la società costruisce informando correttamente, favorendo il dialogo, ascoltando i bisogni, e finalizzando cultura, scienza e ricerca al benessere di tutti i cittadini. Scelte politiche che nulla hanno a che vedere con l’innalzamento di mura, sempre più alte e impenetrabili, in nome di una ostentata quanto falsa sicurezza.
A questo punto è evidente che non possiamo permetterci di perdere altro tempo, dobbiamo fare in fretta a gettare ponti nuovi e ricostruire quelli distrutti tenendo sempre a mente che i ponti non possono voltarsi a vedere chi li sta percorrendo perché altrimenti smettono di essere ponti e precipitano miserabilmente.
Questo non deve succedere, mai più.