Ho scritto tante volte su questo argomento, ma ci voglio ritornare perché l’esperienza umana e professionale di vita che inesorabilmente si accresce col moltiplicarsi dei miei capelli bianchi mi obbliga a urlare al mondo che mi circonda, e in particolare a quello sanitario, di contare fino a 10 - almeno fino a 10 - prima di annunciare, per iscritto o verbalmente, nefaste sentenze sulle persone che necessitano del nostro aiuto.
Comprendo che la tendenza attuale sia quella di mettere le mani avanti - non si sa mai cosa possa accadere - e di difendersi da tutto e tutti; comprendo pure che un novantenne pieno di acciacchi abbia più probabilità di lasciare questa terra in tempi brevi rispetto a un baldanzoso giovane, ma, mi chiedo, e parlo come medico, se non si possa trovare un equilibrio tra le possibili e temibili conseguenze di un evento clinico che colpisce una persona cara, tanto più se avanti con gli anni e la fiducia nelle capacità individuali della stessa, affinché, con l’aiuto della scienza e della tecnologia moderna, oltre che degli amici e familiari che le sono accanto possa farcela a recuperare e a ritrovare il proprio benessere.
In altre parole ritengo che un pensiero positivo, un po’ di sano ottimismo, uno sguardo che va oltre il dato clinico, capace di farti assumere un atteggiamento di sfida contro la mala sorte, certamente non guasta, anzi è di buon auspicio, nei confronti di molte, se non tutte, le situazioni a rischio che coinvolgono i vecchi.
L’ho potuto costatare tante volte, credetemi, lungi da me generalizzare per un singolo episodio.
Già quando lavoravo in ospedale, ormai si parla di quasi due decenni fa, avevo presentato, non ricordo nemmeno in quale occasione, una relazione dal titolo: “L’anziano: un mondo in equilibrio tra grandi fragilità e risorse inaspettate”. Rileggendola ora che mi è tornata alla mente, non posso altro che costatare che il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Ebbene sì e ne vado orgogliosa: posso affermare che, nonostante alcune vicissitudini poco gradevoli capitatemi negli anni, il pensiero positivo non mi è mai venuto meno, né per me stessa, né per gli altri.
Vi presento alcune diapositive che esprimono sinteticamente il messaggio che voglio trasmettere a tutti voi, cioè che la speranza deve entrare a pieno titolo nel processo di Cura, con la C maiuscola.
Fatte queste brevi premesse, ora vi racconto di Germana, la parrucchiera che non si arrende, o meglio, - e lo dico per scongiurare la mala sorte- fino ad ora non l’ha fatto.
Germana tra pochissimi giorni compirà 90 anni di cui 14 vissuti in Casa Morando.
Ci conosciamo dal marzo 2009, cioè dall’epoca in cui sono diventata responsabile sanitario della residenza e ci vogliamo bene. A volte, come succede nei rapporti amicali, abbiamo qualche screzio, io la riprendo per i suoi comportamenti poco consoni alla vita di comunità, lei inveisce utilizzando un linguaggio molto colorito, poi subito dopo facciamo la pace.
Germana ha una memoria di ferro, che esercita quotidianamente ripassando ad alta voce nomi e cognomi delle persone che ha intorno a sé, ospiti, operatori, parenti e amici. Così fa con le date e le festività. E continuamente ripete quello che era il suo mestiere: faceva la parrucchiera, ma ora sostiene che non riesce a muovere bene le mani per il taglio, al massimo riuscirebbe a mettere i bigodini. Di tanto in tanto, mi ricorda che in passato ha disegnato per me un cane su di un foglietto a quadretti e me lo ha regalato affinché lo conservassi. Un cane, badate bene, non un gatto, come ho cercato di farle credere un giorno che volevo sfidare le sue capacità mnesiche, per poi soccombere alle sue insistenze ammettendo vergognosamente che mi ero sbagliata.
Ebbene Germana, alcuni mesi fa, è stata spinta da un’altra ospite della residenza ed è caduta a terra fratturandosi il femore, evento che mi ha costretto a ospedalizzarla, nonostante il suo categorico rifiuto , accompagnato, ovviamente da strilli e improperi di tutti i generi.
Questa sua modalità comunicativa legata alla cocciutaggine più che alla psicosi, le è costata , oltre che l’inevitabile etichetta di demenza, anche un’impregnazione di farmaci sedativi di ogni genere che l’hanno ridotta in men che non si dica, a essere una acciuga sotto sale con una concentrazione di sodio superiore di 30 mEq/L rispetto alla media considerata normale, cioè è arrivata a quella condizione che prende il nome di disidratazione iperosmolare, in cui le cellule sono prosciugate al massimo per garantire un minimo di circolazione del sangue. Con tutte le inevitabili conseguenze del caso, compresa la polmonite.
Quando la andai a trovare in ospedale, le sue condizioni erano critiche al punto che non potevo dar torto ai colleghi che l’avevano definita in fin di vita e che comunque davano per scontato, nel caso fosse sopravvissuta, la perdita della totalità o quasi delle funzioni cognitive.
Ripensando a quel momento, credo che mi fosse difficile accettare che quella banale caduta, avvenuta fra l’altro nel luogo dove avremmo dovuto proteggerla, fosse l’inizio di una catastrofica catena di eventi che l’avrebbe portata alla conclusione del suo ciclo vitale.
Avvertivo, insomma, una sorte di dissociazione tra l’intelletto che mi diceva che spesso avviene proprio così, e il cuore che invece sosteneva che per Germana l’impresa di recuperare non fosse affatto impossibile.
L’aspetto fisico poteva trarre in errore, ma anche quando stava bene il suo peso superava di poco i 30 kg perché, magra da sempre, si era per così dire rinsecchita con lo scorrere degli anni. Anche i suoi movimenti rigidi, per via dei farmaci antipsicotici assunti da tempo, non avevano più di tanto compromesso la capacità di spostarsi autonomamente né cambiato la sua tempra di donna volitiva e, talvolta, prepotente e capricciosa.
Mi resi disponibile ad accoglierla in residenza quanto prima nel caso fosse avvenuto il miracolo e mentre dicevo questo non potei non notare lo sguardo attonito del responsabile del reparto alla ricerca di quale recondita motivazione mi spingesse a una richiesta di tal fatta. Pochi giorni dopo, Germana fu dimessa , ma le sue condizioni psico-fisiche erano, a dir poco, disastrose.
Il rientro in struttura, però, le giovò, insieme alla drastica riduzione della terapia sedativa e, a poco a poco, Germana riprese a camminare, mangiare, sbraitare contro tutti e tutto a ogni piccolo imprevisto. Era rientrata nella casa che l’ospitava da 14 anni, cioè in casa sua.
La pacchia però non durò a lungo perché in una giornata di sabato, dopo poche settimane dalla dimissione dall’ospedale, mentre Germana stava pranzando seduta al tavolo nella postazione che occupa da sempre, un boccone per traverso le ha impedito di respirare per cui è stata di nuovo inviata d’urgenza in pronto soccorso e ricoverata nel reparto di medicina.
Seppi dai parenti che l’intenzione dei colleghi era di posizionare un sondino naso-gastrico per alimentarla, essendo stata etichettata affetta da involuzione cerebrale progressiva con disfagia. I parenti erano perplessi e spaventati e mi chiesero di intervenire.
Si dice che la fortuna aiuta gli audaci e così avvenne. Ebbi un lungo colloquio telefonico con una collega che mi conosceva già all’epoca in cui lavoravo in ospedale, ma che, non essendo di turno nel fine settimana, non aveva ancora avuto modo di valutare la paziente presentatale come demenza in fase terminale. Approfittai della situazione e, confesso, arrampicandomi sugli specchi per la carenza di dati oggettivi rispetto a quelli soggettivi e presuntivi, insistetti a lungo sostenendo che Germana non era affatto demente né tanto meno disfagica e che si era trattato di un incidente di percorso avvenuto per motivi casuali. Attribuii la colpa a un farmaco sedativo che eravamo stati costretti a somministrare ma stavamo gradualmente scalando fino a sospenderlo e, inoltre, mi concedetti la libertà di riportare, con enfasi, che la famiglia si era dichiarata contraria all’inserimento del sondino naso-gastrico per garantire la nutrizione.
La collega rispose con testuali parole:” Va bene, se lo dici tu, daremo una chance alla tua paziente, aspettando ancora qualche giorno, ma temo proprio che non ce la faremo”.
Dopo questa faticosa arrampicata, mi chiusi in un silenzio tombale.
Di lì a una settimana Germana rientrò in struttura con una lettera di dimissione scritta da altro collega che esordiva così: “Si tratta di paziente molto anziana e pesantemente invalidata per psicosi cronica, involuzione cerebrale progressiva, recente frattura di femore destro con recente infezione polmonare da inalazione, cachettica e in condizioni generali estremamente scadenti […] All’ingresso appariva in condizioni generali assai scadenti per cachessia, disidratata, non collaborante (rimuovendosi di continuo l’ossigeno di cui necessitava e gli accessi venosi)[…] Durante la degenza si riusciva a somministrare dieta morbida e liquidi con addensante anche se appare ipotizzabile, in un prossimo futuro, l’inserimento di sondino naso-gastrico, al momento tra l’altro, difficoltoso, per la tendenza della paziente all’autorimozione di ogni presidio sanitario. Purtroppo l’età e le condizioni generali fanno ipotizzare una prognosi scadente nel breve/medio periodo di tempo”.5 giorni dopo, durante la festa di primavera di casa Morando, Germana riusciva a mangiare con gusto pizzette e focaccine, leccandosi pure le dita come dimostra la foto sottostante.
Sono passati altri tre mesi e, nonostante un altro episodio acuto con febbre curato in residenza, Germana mantiene la sua caparbietà e la voglia di vivere.
Chissà cosa intendeva, il collega, con prognosi breve/media?
Si trattava forse di giorni, di mesi o di anni?
Devo constatare con rammarico che noi medici siamo piuttosto imprecisi quando proclamiamo le nostre sentenze, soprattutto in fatto di prognosi. E pensare che proprio la prognosi era un cardine della medicina di Ippocrate.
La morale della storia, rivolta sia ai medici che ai famigliari che assistono e curano un vecchio malato è questa: consideriamolo per quello che è, amiamolo e rispettiamolo sia nel fisico che nella mente, ognuno assumendosi le proprie responsabilità.
Teniamo sempre presente che i farmaci vanno dati solo quando servono e per lo stretto tempo necessario, che quando un vecchio sviluppa un nuovo sintomo per prima cosa bisogna pensare a quale pasticca togliere, piuttosto che aggiungerne un’altra e che la forza del carattere non è poi cosa di poco conto, così come la voglia di godere della vita.
Aiutiamo la natura interferendo il meno possibile con il destino, così come sosteneva Ippocrate.
Il resto va da sé.