“Il concetto di cura non coincide con la terapia e la diagnosi, ma comprende, oltre la parte scientifica, una fetta non misurabile che non può essere descritta che narrandosi. Questa fetta è rappresentata dalle emozioni: sofferenza, paura, speranza, malessere nonostante tutto funzioni”.
Sono frasi che ho annotato in un quaderno nel corso di un seminario sulla medicina narrativa, tematica che mi ha sempre interessato, anche ai tempi in cui lavoravo in ospedale e mi occupavo di malati acuti e critici, tanto è vero che spesso riportavo, a conclusione delle mie relazioni, le frasi tratte dai libri di Giorgio Cosmacini ( ed.Cortina Raffaello) ed in particolare il pensiero espresso nelle diapositive sottostanti.
“La narrazione è il ponte dove si incrociano gli immaginari, ponte che deve essere aperto, ma che il professionista deve saper maneggiare per riportare la magia della parola dentro il percorso di cura. L’uso della narrazione è strategico, finalizzato a promuovere un cambiamento nel paziente, possibile solo se il futuro è desiderabile, almeno per alcuni aspetti. Un pezzetto narrativo è pieno di piste da esplorare che possono aiutare il professionista a far sì che il paziente si senta guidato nel suo cammino ...”.
Leggo ancora nei miei appunti.
Ed ecco che il mio pensiero vola ai vecchi che non avendo alcuna possibilità di retrocedere dal punto di vista anagrafico, non possono certo ambire ad un futuro migliore e tantomeno guarire, se si accetta la tesi, che ho da sempre combattuto con tutte le forze, che la vecchiaia sia una malattia.
Penso alle storie che mi hanno raccontato in cui il passato si mescola al presente, la realtà all’immaginario, la speranza all’illusione, storie condite di gioia, soddisfazione, ma anche di malinconia, paura, solitudine.
Mi piace ascoltarli quando parlano della loro vita, fin da quando erano bambini, dei loro desideri, delle loro passioni, dei successi o fallimenti. Poco mi importa se i fatti che raccontano sono reali o immaginari, il fascino deriva dalle emozioni che trapelano dalle loro voci e che mi coinvolgono in tutta la mia persona.
“Ci sono momenti in cui l’incontro narrativo può essere l’unico modo di esercitare cura”: scrivono Bert e Quadrino nel loro libro intitolato appunto “Narrazione e cura”. Che sia davvero così?
In questo caso penso che occorra andare ben oltre il significato che l’Istituto Superiore di Sanità ha coniato per la Medicina Narrativa, intesa come uno strumento di acquisizione e comprensione della pluralità di prospettive che intervengono nell’evento malattia e finalizzata alla realizzazione di un percorso di cura efficace, appropriato e condiviso. Questa definizione, se non altro per la condivisione, renderebbe inapplicabile tale metodologia alle persone di età avanzata, tanto più se affette da una qualsivoglia forma di deterioramento cognitivo. Svincolando invece la narrazione dalla parola “medicina” (che ben poco si adatta a chi ritiene che la vecchiaia non sia una malattia e nemmeno le assomigli) e intendendola semplicemente come un atteggiamento mentale, una proposta relazionale, allora sì che si possono avere piacevoli sorprese che fanno stare meglio sia il vecchio sia chi si prende cura di lui.Vanda, un’amabile e volitiva vecchietta con tutti i suoi neuroni ben funzionanti, prossima all’età di 99 anni, subito dopo essere entrata in casa di riposo a seguito di limitazioni della motilità per precedenti eventi cerebro-vascolari, così si esprime parlando di sé: ”Ho vissuto in città e ho fatto la IV elementare. Allora si andava a scuola con gli zoccoli, scarpe non ce n’erano. Quando ero giovane mi piaceva andare a ballare e facevo tanti tanghi, poi mi piaceva cucire, fare vestiti, cappotti, gonne. Non ho mai avuto sogni, ma ora voglio morire, sono stanca, che scopo ho io di vivere? I miei figli sono bravi, ma hanno la loro famiglia: Gabriella non ha figli, ma ha i cani, invece Sandro ne ha due, di 26 e 21 anni”. Vanda ha gli occhi di colore azzurro chiaro, molto intensi ed espressivi e un viso regolare, poco scalfito dal tempo, che lascia presumere che da giovane fosse molto bella. Quando parla delle cose piacevoli, dei viaggi, della famiglia, i suoi occhi brillano di una luce più intensa, mentre si incupiscono quando sostiene di essere satura di vita. Le chiedo cosa le dà più fastidio o non sopporta proprio e questa è la sua risposta: “ Quando ero a casa ho dovuto prendere la badante che costava un sacco di soldi e non mi curava per niente. Invece quando ero in Ospedale mi chiamavano Regina e anche l’insegnante di ginnastica mi faceva i complimenti. Qui per muovermi devo chiedere il permesso, per vestirmi devo chiamare gente, per bere pure. Io mi avvilisco. Ero abituata troppo indipendente. Io capisco cosa vuol dire lavorare ...”. Alla domanda di cosa le piacerebbe fare, così mi risponde: “Vorrei camminare. Mi dispiace che mi limitino nei movimenti, mi dicano di stare attenta, mi tirino di qua e mi tengano di là. A volte mi dimentico che sono vecchia, lo capisco, ma la mia testa si vede che è balorda. Preferisco rischiare di cadere piuttosto che stare immobile. Dovete perdonarmi. Ho dei momenti che sono malinconica, ma poi ci penso, a casa non tornerei. Mi rattrista il cuore quando siamo tutti insieme, noi vecchi. C’è mortificazione tra l’uno e l’altro, chi grida, chi vuole morire, che brutta la malattia mentale! Questo davvero mi fa il cuore piccolo piccolo ...”. Poi aggiunge: ”Mi sono dimenticata di dirle, dottoressa, che sono sorda e anche questo mi dà fastidio”.
Laura ha 81 anni ed ha condotto una vita semplice, prima con i suoi genitori, poi con la sorella maggiore essendo stata etichettata “minorata mentale”. Quando le chiedo di raccontarmi qualcosa della sua famiglia di origine, si dimostra entusiasta e accenna a battere le mani dalla contentezza mentre ci accomodiamo intorno ad un tavolo, lontane da sguardi indiscreti. Inizia a parlare, fiera di sé mentre io mi accingo a annotare quanto dice sulla scheda narrativa della “cartella di riposo”, poi si interrompe di colpo per complimentarsi del mio modo di scrivere ... così veloce!
Ecco il suo racconto: “Mio papà si chiamava Dante ed è nato a Padova; mia madre Maria, era di Belluno. Si sono sposati a Milano e mio papà, insieme alla mamma, vendevano stoffe al mercato. Ho una sorella più grande di nome Mariangela che si è sposata e ha avuto un figlio Franco e una bambina morta a 10 mesi di mal di cuore. Ho poi una sorella Piera che non è una vera sorella, la mamma l’ha abbandonata e la mia mamma l’ha presa.
Io andavo a scuola, quella dove c’erano i bambini che facevano tante smorfie, poi aiutavo mia mamma a fare i mestieri, andavo al mercato e aiutavo a mettere via il banco. Avevo 24 anni, mi piaceva molto. Ho sempre vissuto con la mamma e, dopo la sua morte a 79 anni, ho vissuto con mia sorella che vive ancora a Milano, ma di tanto in tanto viene a trovarmi”.
Le chiedo di dirmi quello che vuole, a ruota libera, e Laura si rattrista ed inizia: “Ho solo dei gran dispiaceri da dire: non ho più i miei genitori. Mi sono morti anche i miei zii ai quali volevo molto bene: zia Anna e zio Amedeo. Io non ho mai avuto fidanzati, sto più bene libera che con giovanotti. Gli uomini sono tutti vigliacchi”.
Alla domanda di cosa le dà più fastidio mi parla della sua paura, dei tuoni, dei lampi e del temporale che la costringono a nascondersi in un angolo della casa per sentirsi più protetta. Le fanno paura pure le persone che non conosce, per questo non ha fiducia negli altri. Poi precisa che non è mai successo niente di particolare, ma ha paura lo stesso. Anche a camminare ha una gran paura, certo dopo che è stata tirata sotto da un’auto e da allora non è stata più bene. Nonostante la sofferenza per quanto sta ancora patendo dopo essere stata investita, Laura è soddisfatta della sua vita, tanto.
Sandro, invece, non ha paura di nulla, faceva il muratore fin dal 1927, l’anno in cui è nato ed andava spesso fuori, a lavorare per le ditte.
Lui ha fiducia nelle persone che ha praticato per mesi o anni, ma se trova uno che non conosce, allora la sicurezza viene meno e con essa tutto il resto.
La sua mente spazia nel tempo e nei luoghi, a volte vive in una specie di Albergo dove i giovani vengono a imparare ed i vecchi insegnano, a volte in altri paesi del vicinato.
Gli animali presenti nella residenza li ha portati tutti lui, da Borzonasca, dove è nato: galli, galline, gatti e cani, compresa la mia Felicity. Ama accarezzarli e, se riesce a catturarli, tenerseli in grembo.
E’ soddisfatto della sua vita, eccome, ha una brava moglie con la quale non ha mai litigato e due brave figlie con le quali non ha mai dovuto imporsi per qualsivoglia motivo.
Questa è la sua indiscutibile verità anche se entrambe affermano con forza l’esatto contrario.
A volte si dimentica di avere la moglie accanto a sé, ospite della stessa residenza, ma poco importa, forse è meglio così, perché ogni volta che la vede è una sorpresa.
Marisa, affetta dal morbo di Parkinson che sta consumando il suo fisico ed annebbiando la sua mente con una rapidità ben maggiore di quella prognosticata, si era così pronunciata all’ingresso nella residenza a proposito della sua malattia: “Pensandoci a ritroso, credo di aver dedicato troppo tempo al lavoro trascurando anche la mia salute. Ora la cosa che mi spaventa di più è di essere impedita nei movimenti. Dover dipendere dagli altri è umiliante quanto mai. Cadere continuamente e tirarmi su per quell’abbassamento di pressione, mi ha creato tanti problemi perché capitava quando voleva”.
Anche a lei avevo posto la consueta domanda di cosa le risultasse più difficile da sopportare e questa è stata la sua risposta: “Non sopporto la solitudine, perché nonostante i miei figli si diano da fare e vengano quasi tutti i giorni, vorrei avere più tempo per fare un discorso, invece, non riesci mai a sapere quanto dura la loro compagnia. Non sono grossi problemi, ma vorrei condividere e decidere con loro le cose di famiglia”.
Le annoto, queste antiche storie, perché tracciano segni indelebili nella vita di ognuno di noi e non si dimenticano con lo scorrere del tempo anche quando la demenza rende le persone incapaci di raccontarle.
Mi chiedo: perché troppo spesso perdiamo l’opportunità di scriverle quando è ancora possibile?
Per soffermarci esclusivamente o quasi sulle alterazioni degli aspetti biologici dell’essere umano che definiamo malattia?
Certo se una persona ha il diabete, è giusto saperlo, così come se una persona ha un disturbo a urinare, un’infezione, una ritenzione acuta che le riempie in modo anomalo la vescica, ma il tutto è finalizzato a far star bene fisicamente quella persona e ad evitare complicazioni cliniche ben più gravi.
Troppo poche volte gli operatori delle residenze per anziani s’interrogano sul motivo per cui si scatenano negli ospiti stati di agitazione o turbe del comportamento e, quando lo fanno, li attribuiscono quasi esclusivamente allo stato di malessere provocato da alterazioni fisiche, quali irritazioni cutanee, febbre, tosse, dolore e quant’altro.
Se l’ospite è irrequieto o francamente agitato e non ha nulla di diverso nella sua fisicità, allora la colpa si scarica addosso alla malattia mentale e all’incapacità del medico di trovare il giusto farmaco per abolire o perlomeno attenuare i fastidiosi sintomi.
Mai, o quasi, si pensa alla noia, alla solitudine, alla tristezza, alla rabbia, all’insoddisfazione, all’umiliazione per le quali a nulla servono i cicli di antinfiammatori o di terapia antibiotica o tantomeno gli antidolorifici.
Non mi resta che concludere ripetendo la frase pronunciata da Vanda, la 99enne con i neuroni funzionanti:
“Mi rattrista il cuore quando siamo tutti insieme noi vecchi! C’e mortificazione tra l’uno e l’altro, chi grida, chi vuole morire, che brutta la malattia mentale! “
E’ proprio così, non c’è dubbio, anche per chi non è più in grado di esprimere il proprio vissuto.
Tristemente mi chiedo: perché mai la società continua a pensare a come e dove sistemare i vecchi? Cambiano i nomi, le norme, i parametri, i requisiti e gli standard di quella cosa che il linguaggio forbito definisce qualità, ma la parola inclusione, che è alla base della motivazione di vivere, per tutti, resta confinata solo nella mente di chi non è più in grado di pretenderla. Andando avanti così non andiamo da nessuna parte, penso io. E il cuore mi diventa piccolo piccolo.