In una giornata burrascosa, con allerta meteo arancione, nel bel mezzo delle festività Natalizie, non riesco a togliermi dalla mente un triste pensiero: siamo tutti ammalati, se non nel fisico, almeno nella mente. Sì, proprio così, come asserito nella brillante opera teatrale di Jules Romains “Knock ovvero il trionfo della medicina”: il sano è un malato che non sa di esserlo e la salute è uno stato provvisorio che non lascia presagire nulla di buono.
Nel 1923, all’epoca della prima rappresentazione, la pièce fu molto apprezzata, sia per la satira sui medici, sia perché l’autore esportò da oltre Atlantico le prime pubblicità intensive e le applicò alla medicina, sortendo effetti di grande comicità.
Sì, esattamente, l’idea che si potesse mercificare la salute era talmente inconsueta, se non addirittura assurda, da suscitare ilarità.
Oggi, basta accendere la televisione in qualunque programma, che compaiono skectch pubblicitari per alleviare i sintomi del mal di schiena in modo da non perdere la partita a tennis e magari anche vincerla, risolvere i disturbi prostatici così da permettere alla moglie di dormire indisturbata per poi portarle la colazione a letto, eliminare i bruciori gastrici in un batter d’occhio nonostante i lauti pasti delle festività, prevenire i disturbi metabolici affinché i nonni possano godere eternamente della presenza dei nipoti.
Le raccomandazioni, ovviamente, non riguardano lo stile di vita, ma l’assunzione metodica di farmaci miracolosi capaci di risolvere ogni male. Al termine della scenetta, una voce di fondo consiglia di consultare il medico prima dell’assunzione del farmaco, ma ormai nessuno ci fa caso, il messaggio è passato.
Così come succede al cinema, dopo che compare sul grande schermo la scritta “Fine”, nessuno o quasi rimane incollato alla sedia per leggere la sfilza dei nomi degli attori e di coloro che hanno partecipato alla produzione.
E’ assodato, quindi, che nel mondo occidentale in cui viviamo, la terapia si identifica con i prodotti dell’industria farmaceutica.
La conferma di tutto ciò è che stiamo vivendo in un’epoca in cui le nuove malattie nascono come i funghi, in cui è sempre più alto il rischio di essere sottoposti a trattamenti sanitari per problemi che non ci farebbero mai ammalare, in cui la mortalità per errori medici, almeno negli USA, sale sul terzo gradino del podio, in cui la confusione non risparmia nessuno, professionisti sanitari inclusi.
Il trionfo della medicina si è ormai compiuto e l’opera, oggi, più che una satira, appare una tragica ironia, presagio della deriva così ben descritta da Ivan Illich in Nemesi Medica. Non fa affatto ridere, ma suscita grande amarezza. Almeno così è per me.
A ricalcare la dose è il paradosso che, se nell’immaginario collettivo siamo tutti malati e quindi abbiamo bisogno di cure mediche, le patologie di cui siamo affetti oggi non sono più di tipo acuto, bensì cronico, per definizione complesse e inguaribili. Di conseguenza le uniche terapie utili di cui disponiamo sono quelle cosiddette palliative, capaci di alleviare le sofferenze in attesa che il destino ponga fine alla nostra esistenza.
Va bene che la vita sarebbe insipida senza la morte, ma sopravvivere, grazie alle medicine, aspettando il trapasso e confidando tutt’al più nell’aldilà, non mi sembra per niente una bella prospettiva. Questo già nel singolo individuo. Se poi il concetto lo applichiamo all’intero pianeta terra, allora ci troviamo di fronte ad una vera e propria catastrofe, essendo implicito in tale ragionamento che il pianeta sia destinato a morire, con tutti i suoi componenti.
Pensate che stia esagerando?
Avete provato a considerare quante parole appartenenti al gergo medico vengono pronunciate, ascoltate, ripetute in contesti ben diversi dal sanitario, quotidianamente? Soprattutto quando ci si riferisce agli anziani, che sono spesso, se non sempre, etichettati pazienti anche se si stanno godendo la vita in casa di riposo in perfetto stato di salute.
La parola “terapia”, forse la più gettonata, è sulla bocca di tutti: terapia con gli animali, con le piante, con la musica, con l’aria aperta, con gli amici, con i parenti. Ma non solo: un abbraccio, il sorriso, le carezze, i baci sono terapeutici; lo è la cioccolata, in piccole dosi, lo sono le caramelle e i dolciumi in genere (diabetici esclusi), lo è persino il pranzo di Natale.
Insomma qualunque azione riferita alle persone, meglio se anziana, ma non si risparmiano nemmeno i bambini, assume un carattere terapeutico.
La mia saggia nonna marchigiana dissentirebbe certamente da queste affermazioni e urlerebbe a gran voce in un dialetto che non ricordo più: “Sono coccole, piacevolezze della vita, tradizioni tramandate di famiglia in famiglia, che fanno parte della cura, del prendersi cura, non della terapia”.
Infatti, etimologicamente la parola “terapia” è riferita al metodo di cura di uno stato patologico allo scopo di riportarlo allo stato sano, ponendosi la finalità di guarigione o, qualora questa non sia possibile, di rendere sopportabile la manifestazione di sintomi disagevoli. In questo senso terapia e cura (medica) li troviamo affiancati.
Ma se si va a cercare il significato del termine cura, il riferimento alla malattia scompare del tutto, mentre assume rilievo il suo utilizzo in contesti di amore e di amicizia. Cura è premura, sollecitudine, diligenza, zelo, attenzione, delicatezza, vigilanza, ma anche preoccupazione, inquietudine, senso di responsabilità che si riversa nei confronti di sé stesso, di una persona amata o di un oggetto di valore.
Perché mai quindi il pranzo di Natale, solo per fare un piccolo esempio, dovrebbe essere una terapia? E poi, nel caso che ipotizzassimo che lo fosse, quale malattia o disagio potrebbe essere risolto o alleviato in maniera così rapida e spot?
E’ evidente che, per dare senso a tutte le frasi contenenti termini sanitari, bisogna presupporre che noi, tutti quanti, siamo affetti da qualche anormalità fisica, o psicologica, o sociale che ci rende ammalati, in modo più o meno grave, e quindi meritevoli di essere sottoposti a trattamenti terapeutici.
Sembrano cose di poco conto, ma le parole sono importanti, perché le parole esprimono pensieri ai quali conseguono le nostre azioni.
Se i vecchi si considerano ammalati, quindi incapaci, di conseguenza improduttivi, è evidente che le istituzioni che li contengono (uso questo triste verbo con cognizione di causa) non possono essere altro che esclusive (dal resto della società), atte a elargire assistenza e terapia, anche non farmacologica, ma, in quanto tale, priva di quella componente affettiva, imprescindibile nel concetto di cura.
Con questi presupposti, difficilmente le strutture residenziali per anziani potranno essere considerate luoghi di vita, alternativi al proprio domicilio, “capaci di assicurare condizioni d’esistenza degne e ruoli riconosciuti compatibili con le loro capacità e i loro bisogni, senza discriminazioni né esclusioni”.
Quest’ultima è una citazione del Prof. Antonio Guerci che più volte ho riportato nei miei scritti ed è stata ispiratrice del “Progetto arco della vita” che tuttora stiamo perseguendo presso la casa di riposo di cui sono responsabile (vedi “La struttura come luogo di vita per ciascun individuo” 4 luglio 2012- Per Lunga Vita).
Ma dove andremo a finire continuando con questa mentalità, considerato che l’unica popolazione in rapido incremento è quella ottuagenaria?
Dalle lezioni di Guerci ho appreso inoltre che il significato della parola “terapia” non può prescindere dalle diverse idee di salute e di malattia nel mondo, idee strettamente connesse al contesto culturale. Differenti popoli, differenti culture, differenti rappresentazioni del mondo, differenti rappresentazioni del corpo, differenti rappresentazioni della salute e delle malattie.
Riporto qui una sua diapositiva tratta dalla relazione dal titolo “Antropologia dell’idea di salute” che la dice lunga sulla diversità di pensiero riguardo a concetti così coinvolgenti.
Di conseguenza i farmaci, i rimedi in genere, elementi salienti della terapia, coinvolgono aspetti biologici, chimici, evolutivi, fisiologici, patologici, curativi, preventivi, psicologici, comportamentali, socioculturali, storici ed economici e sono portatori di forti simboli diversi per ciascuna popolazione e anche per ciascun individuo, sono cioè semiofori.
E’ curioso, infatti, notare che il farmaco più diffuso al mondo è la preghiera, intesa come mantra, benzedura, oracion, ensalmo ecc., al secondo posto c’è il pollo, come brodo o carne o animale vivo, mentre al terzo posto (e qui la facciamo da padroni noi occidentali) c’è l’acido salicilico, cioè l’aspirina.
Nella compressa di aspirina, infatti, noi, appartenenti ai cosiddetti paesi industrializzati, ritroviamo tutta la nostra storia: la formula chimica, il fascino di Ippocrate, padre della medicina, la filosofia di Cartesio, fondatore della scienza moderna.
Ecco perché considerare il pranzo di Natale un atto terapeutico, risuona alle mie orecchie come una forte stonatura e nella mia mente compare l’immagine di una compressa di aspirina, assunta avidamente a stomaco pieno, dopo averla liberata dal blister che la contiene.
Che stia esagerando ancora una volta? Che sia la stima che nutro nei confronti dell’amico antropologo a condizionare il mio pensiero? Oppure l’avversione verso la medicalizzazione della vita e la mercificazione della salute?
O che sia il mio spirito rivoluzionario, unito a una buona dose di quel fenomeno chiamato reattanza psicologica e a un certo innato ottimismo che mi spinge a ritenere l’esatto contrario: la malattia è uno stato provvisorio che non lascia presagire nulla di infausto. E la vecchiaia non è una malattia.