Molti anni fa ho avuto una discussione piuttosto accesa con Elisabetta, una mia collega neurologa, inerente alla questione se camminare a piedi nudi sul pavimento freddo (specie in inverno) favorisse o no l’insorgenza del raffreddore. Lei sosteneva di sì, sulla base della sua esperienza personale, io l’esatto contrario. Nonostante entrambe avessimo ben chiaro che l’agente eziologico del raffreddore non ha nulla a che vedere con i piedi freddi, per cui si trattava tutt’al più di ipotizzare eventuali concause, le argomentazioni addotte, dall’una e dall’altra, non scalfirono minimamente le nostre opposte convinzioni.
Ricordo che rimasi stupita del fatto di come si potesse mettere tanta enfasi su di un tema così banale e, essendo toccata nel vivo e tacciata di “madre snaturata”, immaginai le privazioni che i bambini avrebbero potuto subire con il suo diniego. Era così bello, eludendo la sorveglianza genitoriale, scorrazzare a piedi nudi, persino su terreni impervi, ignari delle possibili nefaste conseguenze ben diverse dal raffreddore!
Come avrei potuto non essere permissiva, se non addirittura incentivare, quando possibile, lo stare a piedi nudi, nei confronti delle mie tre creature? Per fortuna Elisabetta non aveva figli. Quello che era certo è che l’epiteto di madre snaturata, per quanto addolcito dal sorriso confidenziale, non mi era andato proprio giù.
Questo per dire che le convinzioni, che ognuno di noi si crea nel corso della vita, non sono cosa da poco. Si tratta di pensieri fissati nella nostra mente che modificano le nostre azioni e resistono agli studi, diploma di laurea compresa, alle contraddizioni di qualunque sorta e persino al trascorrere degli anni.
Nel corso della mia vita professionale mi sono trovata più volte nella condizione di fare i conti con le convinzioni e vi assicuro che arrivare ad un compromesso che non si discosti troppo da ciò che si ritiene giusto e rispettoso fare non è affatto cosa semplice.
Ricordo che molti anni fa, durante un turno di guardia in pronto soccorso, mi capitò di visitare un’anziana signora, giunta per un malore che l’aveva colta di sorpresa mentre si accingeva a fare la spesa. Appena entrò nell’ambulatorio distesa su di una barella mi colpirono i suoi occhi, impauriti e stupiti, che si muovevano di qua e di là come alla ricerca di un qualcosa su cui fermarsi, che la potesse confortare.
Era rossa in volto, irrigidita dall’imbarazzo e si teneva ben stretta la camicia con entrambe le mani, impedendomi di auscultare il torace, atto indispensabile, considerato che la sua pressione arteriosa era molto elevata e presumibilmente causa del malore.
Usai tutto il tatto che avevo a disposizione in quel momento e le spiegai che era necessario sentire i battiti del cuore; la signora allentò la presa, permettendomi di scorgere una lesione ulcerata della cute a livello della mammella sinistra su cui era posizionata senza cerotto una garza di protezione. Feci finta di nulla. Mi limitai a spiegarle che la ragione del suo malessere era dovuta ad un accesso ipertensivo transitorio, che non era grave e che si sarebbe potuta curare di lì in poi con un farmaco capace di tenere controllata la sua pressione. Nel frattempo i suoi occhi avevano smesso di vagare e si erano concentrati sui miei. Mi fu facile, allora, avvicinando il mio volto al suo in modo che nessuno potesse sentirci, confessarle che avevo notato quella piccola lesione cutanea sulla mammella e che mi chiedevo se l’aveva da tempo. Il tutto cercando di non far trapelare la minima preoccupazione. Mi confessò, a sua volta, con un tono di voce altrettanto sommesso, che ce l’aveva da mesi, ma il segreto se l’era tenuto per sé. Non aveva alcuna intenzione di sottoporsi ad analisi ed era certa che i suoi figli, se lo avessero saputo, l’avrebbero costretta a farsi visitare da qualche luminare e chissà quale trafila di indagini si sarebbe susseguita. Dopo pochi istanti di silenzio durante i quali scrutava immobile e pensierosa i miei occhi, aggiunse, con aria serafica: ”Farò solo quello che mi dirà lei”.
E così fu. Venne operata del tumore mammario nella città nativa, Parma, mettendo in serie difficoltà il chirurgo prescelto per ridurre al minimo il tempo di ospedalizzazione. Uno dei due figli, che era dipendente della stessa azienda sanitaria nel settore amministrativo (cosa che agevolava un poco la presa in carico della paziente) sosteneva che la madre avrebbe addirittura preteso di essere operata in strada, tanto era il suo rifiuto dei camici bianchi. Ma non solo. Anna (ecco che mi è venuto in mente il suo nome) assumeva il farmaco antipertensivo che le avevo consigliato, quello e solo quello, a patto che la ricetta fosse compilata e firmata da me. Fortunatamente erano i tempi in cui non c’erano i farmaci equivalenti e le prescrizioni potevano essere effettuate dai medici ospedalieri sul ricettario regionale ed elargite gratuitamente a amici e parenti senza essere tacciati di frode o di danno erariale o di chissà quale altra nefandezza. Solo io potevo misurarle la pressione arteriosa a conferma dell’appropriatezza terapeutica per cui, di tanto in tanto, si sottoponeva ad un controllo, durante il mio orario di servizio e non mancava mai di portarmi un bel pezzo di formaggio parmigiano. Questa complicità durò anni ed anni fino a che non interruppi la mia attività lavorativa con l’Azienda. Seppi dal figlio che ci volle del bello e del buono a convincerla che non mi era più possibile (ammesso che prima lo fosse) compilare la ricetta rossa, per il semplice motivo che non ero convenzionata con il servizio sanitario. Alla fine accettò che fosse il medico di famiglia ma si rifiutò di farsi vedere da lui. Lo scoprii anni dopo, quando, per tutta casualità, vidi comparire il suo nome e cognome sul computer del curante che, avendomi chiesto di sostituirlo per alcuni giorni, si accingeva a mostrarmi il funzionamento del programma informatico. Sorpresa di questa coincidenza, gli chiesi come stava la sua paziente e lui, ancor più sorpreso di me del fatto che la conoscessi, mi confermò che non aveva mai avuto il piacere di incontrarla né sapeva nulla della sua storia clinica.
Un caso limite? Forse sì, ma, vi assicuro, non è l’unico.
In un’altra circostanza mi sono trovata a “combattere” con la convinzione di una signora che la madre, ricoverata nel reparto dove lavoravo e prossima alla dimissione, sarebbe morta durante la notte.
Il primario di allora, forse frustato dal fatto che non era riuscito a proseguire la carriera universitaria e si era dovuto accontentare di dirigere la divisione di medicina di un ospedale provinciale, ostentava comportamenti da barone ed era estremamente rigido in generale, ma le cose che lo facevano letteralmente andare in bestia erano due: le degenze superiori a una settimana (in epoca in cui non si sapeva nemmeno cosa fossero i DRG) e i parenti che, al di fuori dei rari colloqui concessi su appuntamento, non potevano sostare in reparto un minuto di più rispetto all’orario di visita stabilito dalla Direzione, orario che, se avesse potuto, avrebbe addirittura cancellato. A queste ferree regole ci fu, per mia memoria, una sola eccezione. Si trattava della moglie di un macellaio della zona, ricoverato per una patologia a lenta risoluzione, alla quale era stato concesso di entrare liberamente e stazionare a lungo al suo capezzale. La degenza fu protratta per mesi, per cui noi, miseri assistenti, eravamo esterrefatti di tale comportamento. Scoprimmo in seguito che il nostro primario “barone”, veniva omaggiato quasi quotidianamente di salami, sanguinacci, filetti di manzo e altri generi alimentari di ottima qualità, capaci di soddisfare le sue esigenze nutrizionali e di sprigionare le sue doti nascoste di umanità.
Ebbene, tornando a quanto stavo raccontando, alla disperazione della parente convinta di un epilogo tanto drammatico, proprio quella notte, si contrapponeva la mia disperazione di non avere a disposizione alcuna argomentazione che potesse tranquillizzarla che il fatto non sarebbe avvenuto, almeno quella notte. Ovviamente, in una situazione così impregnata dal punto di vista affettivo, la mia coscienza mi impediva di appellarmi alle disposizioni normative in vigore.
Feci un misero tentativo per spiegare che non c’era alcuna ragione clinica che potesse far pensare ad una prognosi così infausta, a brevissimo termine, nonostante l’età fosse piuttosto avanzata, ma alla fine cedetti alla richiesta della figlia che non aveva nulla a che vedere con la scienza e la razionalità. Diedi il permesso di fermarsi per la notte accanto alla mamma, inventai qualche strano motivo per informare gli infermieri di turno della mia straordinaria concessione e le raccomandai di andarsene al più presto possibile al mattino seguente, perché il primario era solito arrivare in corsia prima delle 7.
Non dormii neppure io quella notte, pensando quali possibili ripercussioni sarei stata costretta a subire se fossi stata scoperta. Non certo per la carriera, che non mi è mai interessata, ma per la mia incapacità, presente fin dalla più tenera infanzia, di fare qualunque cosa che non ritenessi giusta e di accettare passivamente punizioni per errori non commessi o semplicemente sproporzionate all’errore. Se questo si chiama essere ribelli, ebbene sì, lo sono. E’ una mia convinzione.
Quando la mattina arrivai in reparto, l’anziana degente stava benissimo e la parente se ne era già andata. Tirai un sospiro di sollievo e, riferendomi alla notte insonne, me la presi con le convinzioni, la superstizione e quant’altro, alleandomi con le scienze mediche che non avevano tradito la mia predizione.
Peccato che, alle 12 esatte, tutti i medici presenti in corsia furono allertati da un’emergenza: la paziente, proprio lei, stava soffocando a causa di un boccone andato di traverso. Inutili le manovre per rianimarla, morì in pochi minuti. La figlia non era presente, era andata a casa a riposare.
La vidi più tardi, la parente, e le strinsi la mano guardandola negli occhi, in silenzio. Mille pensieri dalle mille sfaccettature si intrecciarono nelle nostre menti. Chissà cosa sarebbe successo se non avessi dato il permesso? Chissà come si sarebbero comportati gli altri colleghi ? Forse la figlia avrebbe potuto essere presente all’evento? O forse il fattaccio non sarebbe avvenuto?
Alla fine una sola certezza: contro il destino nessuno puote.
Tornando alle nostre convinzioni, è indubbio che queste rappresentino la nostra “verità”, quella soggettiva, che corrisponde alla nostra mappa del mondo e, in quanto tali, determinino e guidino i nostri comportamenti.
Insomma si tratta proprio di quei “tratti umani che influenzano sistematicamente le decisioni individuali e gli esiti del mercato” di cui si occupa la branca della scienza chiamata economia comportamentale. Tra i fondatori il recente premio Nobel , Richard H. Thaler, elogiato per la sua capacità di osservare le scelte dei singoli nella loro fallacia, irrazionalità e mancanza di autocontrollo e, in altre parole, di tornare a guardare il mondo vero da cui è così distante la teoria economica standard.
Si sa inoltre che le persone sbagliano, e in continuazione, e che, di conseguenza, la maggior parte degli errori sono prevedibili.
E’ quindi logico ritenere che, se tutto ciò ha valore per le questioni economiche, non vedo il motivo per cui non debba avere valore per le scienze mediche e sociali e soprattutto, mi chiedo, se, anche nell’ambito di queste citate branche, sia possibile modificare l’organizzazione partendo dall’analisi di questi fondamentali elementi che, altro non sono, che fattori umani.
A questo punto, parlando del campo di applicazione socio-sanitario, più consono alla mia formazione, non posso far altro che sostenere che sia possibile costruire modelli di comportamento alternativi a quelli, ben più rigidi e standardizzati, basati esclusivamente sul ragionamento scientifico, sia che si tratti di economia che di qualsiasi altra materia. Questo mi consola e mi auguro che in un prossimo futuro, non troppo lontano in modo da poterne beneficiare, sia possibile mettere in pratica quanto stiamo sostenendo.
Riguardo al titolo di questo mio articolo, che mi ero proposta di modificare ritenendolo inappropriato, devo dire che ho avuto un ripensamento.
Infatti, se è vero che riprodurre una mosca sulla ceramica degli orinatoi degli uomini, come avviene all’aeroporto internazionale di Schipol (Amsterdam) su proposta dell’economista AadKieboom, riduca dell’80% gli effetti di “traboccamento” del materiale biologico migliorando il decoro dell’ambiente a fronte di minor spese di pulizia, non vedo perché le considerazioni sui “piedi freddi”, a margine del fatto che possano causare o meno il raffreddore, non possano servire da spunto di riflessione per comprendere che il valore attribuito da ognuno di noi a tutto ciò che ci circonda, che perdiamo o che acquistiamo, è del tutto individuale ed influenza le nostre decisioni ed i nostri comportamenti. Questa capacità valoriale non si affievolisce con l’avanzare degli anni e, tanto meno, scompare con la demenza.
Chissà che non si riesca a ridurre, ad esempio, la perfida abitudine di “contenere” gli anziani sia con i mezzi fisici che farmacologici, per contrastare il vagabondaggio e il conseguente rischio di cadere?
E così, in generale, chissà che non si riescano a trovare soluzioni alternative a quelle classiche per ottenere l’ambito vivere bene durante l’intero arco del nostro essere al mondo.