I vecchi mi sono sempre piaciuti. Quando ero bambina, rimanevo affascinata dai loro volti segnati dalle rughe, dal loro sguardo, a volte tenero, a volte severo, quasi da mettermi in soggezione, dal loro atteggiamento e dal tono della voce quando raccontavano storie della loro vita. Mi sembrava che appartenessero ad un mondo magico, simile a quello delle fiabe, un mondo ricco di bellezza e di bontà e che il loro compito fosse quello di donare ai giovani la saggezza appresa nel corso della vita.
Su questo mio modo di concepire la vecchiaia deve essere stato determinante il fatto di convivere fino all’adolescenza con la nonna materna, donna intelligente e volitiva, che si prendeva cura di me e dei miei due fratelli minori permettendo a mia madre di lavorare.
Trascorrevamo i mesi estivi al suo paese di origine, nella campagna marchigiana, e lì era consuetudine che tutti, a qualunque età ed ognuno secondo le proprie possibilità, contribuissero alle mansioni della vita quotidiana. Gli uomini erano nei campi, le donne si occupavano della casa, del pollaio e dei conigli, i ragazzini aiutavano a condurre gli animali al pascolo, a riportarli nelle stalle, a raccogliere l’erba, a pulire il cortile, le bambine erano impegnate nei lavori domestici o accudivano i fratelli minori e noi, vacanzieri provenienti dalla grande città, eravamo entusiasti di collaborare. C’era anche il tempo per giocare, ma bisognava aver terminato quanto stabilito dai genitori o dai nonni.
Anche i grandi vecchi erano sempre occupati a fare qualcosa. Ho molte chiare immagini di anziane, con il fazzoletto in testa, sedute nel cortile a lavorare a maglia o a sbucciare le patate o a scegliere la frutta, forse quella maccata da quella che non lo era, e dividerla in diverse ceste. In una occasione che, a pensarci ora, mi fa rabbrividire, una vecchia tagliava la punta di una zampetta ai pulcini appena nati e li faceva passare attraverso un grosso piatto su cui era stata versata della cenere, forse per disinfettarli. Il loro pigolio, acutizzato nel momento del taglio mi risuona ancora nelle orecchie. Avevo chiesto il perché di tanta brutalità e mi aveva risposto che questa mini amputazione era necessaria per riconoscerli e che comunque i pulcini non sentivano il dolore. Non ne ero convinta allora e non lo sono adesso, ma il rispetto di quanto dicevano gli adulti e gli anziani era tale da non osare nemmeno pensare di contraddirli. Insomma nella mia fanciullezza non ricordo di aver mai sentito parlare di vecchi incapaci di fare qualcosa, sia nella mente che nel fisico, o considerati come un problema per la famiglia e la società.
Ma erano altri tempi, come direbbe mia nonna se fosse ancora viva. Che qualche problema con l’avanzare degli anni può sorgere, l’ho appreso ben più avanti e solo nel corso della mia vita professionale, avendo avuto la sfortuna di perdere i nonni, i genitori e alcuni zii in giovane età e contestualmente la fortuna di godere della longevità delle nonne, materna e paterna, e di altre zie, in buona salute fisica e mentale, ma soprattutto capaci di vivere a casa propria in piena autonomia.
Insomma, che esistessero le case di riposo e che fossero così tante e articolate, a partire dalla normativa di riferimento, l’ho scoperto da non più di vent’anni e forse proprio per questo, come in genere per le cose che si apprendono in età adulta, non riesco ad assimilarle del tutto e c’è sempre qualcosa che non quadra o che non capisco o che rifiuto di accettare.
Non fraintendetemi, comprendo perfettamente la necessità della loro esistenza, per come è oggi l’organizzazione sociale e per come sta evolvendo la ricerca scientifica riguardo agli aspetti biologici dell’individuo, ma sono convinta, come sostiene il mio amico Guerci, che qualunque politica d’intervento sociale, dalla più minuta alla più radicale, si fondi su una precisa visione dell’uomo, del suo essere al mondo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti e agisca di conseguenza.
La mia visione del vecchio, del suo essere al mondo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, deve essere molto differente da quella dei decisori che, con tanto impegno di risorse, economiche soprattutto, ritengono che il “problema” dell’invecchiamento della popolazione possa trovare una qualche risposta nell’aumentare la disponibilità di accoglienza nelle residenze protette, RSA e qualunque altro luogo riservato a chi non è più in grado di essere autosufficiente.
Il mio pensiero è all’incontrario: puntare sul mantenimento dell’autonomia della persona con interventi mirati, personalizzati e tempestivi e riservare i luoghi di assistenza e cura, ma pur sempre di esclusione dalla società, alle persone in cui non esistono alternative, sia logistiche che cliniche.
La tecnologia, che deve essere al servizio dell’uomo, permette strategie sorprendenti per adeguare le abitazioni alle capacità degli anziani o dei disabili prolungandone, per lo meno, il mantenimento a domicilio o favorendone il rientro dopo un evento acuto, ma bisogna innanzitutto pensarci, credere che si possa fare, avere e dare fiducia.
Ma non è tutto: quando non si può fare a meno dell’istituzionalizzazione - parola che non mi piace affatto-, occorre che la struttura diventi il luogo di vita per ciascun individuo, unico e irripetibile, capace di provare emozioni sempre e comunque, anche negli stadi più avanzati di decadimento fisico e mentale.
Ed ecco venirmi in mente un’altra frase che ripeto spesso, quella della sociologa Mary Marshall: “ C’è una sottile linea che divide il vedere ogni singola persona nella sua unicità e vederla invece come membro di un gruppo che ha dei problemi in comune”. Una sottile linea che fa un’enorme differenza, se è vero che il pregiudizio nei confronti degli anziani, quello che gli anglosassoni chiamano ageism, è in grado di orientare concretamente l’azione nei confronti di un determinato gruppo. E’ innegabile che l’ageism sia un atteggiamento diffuso nella società – oserei dire anche in crescita- e altrettanto innegabile che costituisca un pericolo sia per i vecchi, che tendono ad adattarvisi, sia per gli operatori sociali, che rischiano di sottostimare il valore del loro lavoro e quindi ridurre le capacità d’intervento.
Sono questi i motivi che m’inducono a ritenere doveroso da parte di tutti i professionisti del settore assistenziale/socio-sanitario e imprescindibile, per contribuire al benessere di vita del vecchio, la conoscenza della sua scala dei valori, del senso che dà alla vita, delle sue emozioni.
Leo Festinger nel 1957 introduceva in psicologia sociale il concetto di “dissonanza cognitiva”, attribuendo al termine cognizione l’accezione più ampia: ogni conoscenza, opinione, credenza che riguardi l’ambiente, la propria persona, il proprio comportamento. Questa teoria si basa sulla constatazione di senso comune che l’uomo tenda in generale ad essere coerente con se stesso nel modo di pensare e di agire e che la frattura tra azioni e convinzioni generi una spiacevole sensazione di incoerenza interiore, chiamata appunto “dissonanza”.
La dissonanza può verificarsi per motivi di logica interna (per es. fumo, ma il fumo fa male), contrasto con norme culturali (sono cattolico praticante, ma mi sono sposato in municipio) o con precedenti esperienze personali (ero maratoneta e ora sono sedentario) ed emerge in modo forte ed emotivamente coinvolgente, quando si deve prendere una decisione che, oltre a implicare un cambiamento dello status quo, è produttiva di conseguenze concrete.
Ma c’è un altro fenomeno che m’incuriosisce: la “reattanza psicologica”, intendendo con questo termine la resistenza psicologica ad eseguire ordini provenienti spesso da persone amate o vicine, per ripristinare o difendere le specifiche convinzioni che ogni individuo percepisce come in grado di fare o tenere sotto controllo. Ben poco si conosce su come si sviluppino le convinzioni personali, anche se esistono prove che esse siano legate al contesto sociale. Si sa invece che la reattanza psicologica non è frutto di una deliberata scelta razionale, ma è una risposta spontanea, non cognitivamente mediata, già dimostrabile in bambini di due anni.
A questo punto mi frulla in testa una prima domanda: è giustificato ipotizzare che sia la dissonanza cognitiva che la reattanza psicologica permangano nell’età più avanzata della vita, a qualunque grado di deterioramento mentale?
Se è così, non è forse pretenzioso da parte dei familiari o dei servizi sociali aspettarsi che le persone anziane accettino di buon grado i cambiamenti di vita, come l’istituzionalizzazione, spesso a loro imposti dall’organizzazione odierna?
Quante volte ho sentito frasi del genere: "A me non mi comanda nessuno” oppure “Non lascerò mai casa mia, piuttosto la morte” o altre riferite agli alimenti come “Il vino che faccio io non mi fa male e ne posso bere quanto voglio”. Impossibile convincere le persone del contrario o anche insinuare loro il minimo dubbio, persino se sono perfettamente sane di mente, figurati se hanno qualche défaillance.
E’ indubbio che le convinzioni siano una cosa forte, che rimangano impresse nella mente nonostante le modificazioni fisiche dell’organismo e lo scorrere degli anni e neppure che esistano farmaci in grado di ridurle, modificarle o eliminarle.
E’ altrettanto indubbio che, tra dissonanza cognitiva e reattanza psicologica, i comportamenti individuali dei vecchi possano assumere le più svariate sfaccettature creando notevoli difficoltà a coloro, familiari o professionisti, che se ne prendono cura.
È, infatti, curioso notare come la maggior parte degli anziani che vivono in casa di riposo, anche quelli meno compromessi sul piano cognitivo, dimostrino una certa reticenza o perlomeno titubanza nel rispondere alla domanda “Come si chiama il posto in cui vivi?” ricorrendo spesso a giri di parole per definire la vita di comunità, come fa Emma che sostiene di abitare in una “specie di scuola dove si sta tutti insieme”.
Altri, invece, hanno le idee molto chiare e alla stessa domanda rispondono con enfasi: “Questo posto è casa mia” Lo pensa Giuliana, lo pensa Maria e tante altre che ora non ci sono più. Ne è convinta pure Silvia che spesso si adira e inveisce contro chiunque le sia accanto invitandolo ad andarsene perché la festa è finita ed ha voglia di restare sola e tranquilla.
E se queste costruzioni di realtà immaginarie fossero legate alla dissonanza e alla reattanza, piuttosto che al decadimento intellettivo? Penso io. In tal caso tutto ciò assumerebbe un significato di compensazione psichica obbligata e sottrarrebbe valore al deficit cognitivo favorendo, da parte degli operatori e dei parenti, una maggior comprensione dello stato emozionale dell’anziano e della conseguente disabilità.
Essendo mia convinzione che le case di riposo debbano essere un luogo di vita per ciascun individuo, il fatto che alcuni ospiti, di più lunga data e più compromessi sul piano cognitivo, declamino a gran voce: “Questo posto è casa mia” credo debba essere ritenuto un grande risultato di cui sono orgogliosa per la piccola parte per il quale ho contribuito.
E’ indubitabile che questa convinzione, come spiegato in premessa, deriva dalla mia esperienza di vita, per cui voglio dedicare questo articolo a mia nonna Rosina e a mia mamma Italia che mi hanno saputo trasmettere i valori della vita, l’amore per i vecchi, la passione per gli animali, per la natura e per il mondo intero.
Li ricordo con questa foto scattata nell’ottobre 1952, in Francia, quando avevo appena undici mesi.