Creatività, intelligenza e spirito critico sono considerate caratteristiche tipiche del modo di essere italiani, ma quando si parla di classifiche che riguardano innovazione e imprenditorialità, per il valore che possono avere, gli italiani risultano il fanalino di coda di tutta l’Europa.
A noi piace fare il “copia- incolla”, alla faccia delle nostre doti naturali e incuranti del detto “Paese che vai, usanze che trovi”. D’altra parte, un altro ben noto proverbio sostiene che ”Tutto il mondo è paese”, quindi perché non provare ad adottare, anche in Italia, modelli di assistenza e cura ai malati di demenza, come quello realizzato in Olanda, a Weesp, il cui nome, impronunciabile, è ”De Hogewyek”?
Così, dopo i Caffè Alzheimer, spuntano i villaggi Alzheimer che, a quanto riportano i giornali, sono aggregazioni di case (in numero di 13 a Roma) capaci di ospitare 6-7 residenti ciascuna, con percorsi agevolati per le passeggiate ed anche la possibilità di fare shopping e persino di andare dal parrucchiere. Infatti, sono previsti alcuni negozi tra cui un supermarket. Insomma l’idea sarebbe quella di costruire un quartiere protetto, in cui le persone dovrebbero (l’uso del condizionale è d’obbligo) poter condurre una vita il più possibile normale. Il concetto fondamentale, come ha spiegato Roberto Mauri della cooperativa “La Meridiana”, in occasione della presentazione del progetto “Il paese ritrovato” sarebbe quello di ribaltare il paradigma di cura dalla dimensione puramente assistenziale all’accompagnamento e la finalità quella di restituire alle persone il senso di libertà. Libertà protetta, ma libertà.
Un obiettivo sui cui non posso che essere d’accordo.
Da sempre lotto contro la medicalizzazione della vita in genere e, in particolare, contro la sanitarizzazione delle strutture per anziani, compresi i centri diurno e le comunità alloggio. Da sempre difendo i diritti imprescindibili dell’individuo, in primo la libertà e gli affetti, ben presenti anche nelle fasi più avanzate della demenza, nel rispetto della scala di valori che ognuno di noi nasconde nel profondo della propria coscienza fino all’ultimo attimo di vita. Eppure, al di là delle parole suggestive e del nome altisonante di villaggio modello c’è qualcosa che non mi convince in questi progetti, c’è qualcosa di troppo semplicistico, oserei dire di banale, come se bastasse togliersi il camice per non essere più un medico, e mettersi il cappello da cuoco per diventare chef.
Ignorando un altro ben noto detto popolare: “L’abito non fa il monaco”.
Mi viene in mente il pensiero di Antonio Guerci, l’antropologo mio amico, ben espresso nel corso di una conferenza di apertura del ciclo “Per una nuova cultura dell’invecchiamento. Una questione cruciale dell’oggi”, tenuta a Palazzo Ducale, a Genova, pochi giorni or sono: “Oggi assistiamo a una tendenza sempre più forte (da parte di tutte le categorie professionali) a dividere tutto ciò che è indivisibile, a banalizzare tutto ciò che è complesso”. Tra me e me penso: è proprio così.
E’ indubbio, prosegue Guerci, che la gestione delle nostre società, diventate multi-generazionali e pluriculturali è sempre più complessa e che le strategie politiche devono necessariamente basarsi su una “solidarietà organica” dove il buon funzionamento dipende dall’insieme.
La conclusione del suo ragionamento non lascia margini di dubbio: “La discussione deve essere orientata sul modello di società futura, più che sul destino delle persone anziane”. Sante parole, è il mio commento.
Già nel 2011, in occasione della presentazione del progetto “Arco della vita” sull’invecchiamento attivo, lo stesso Guerci pronunciava parole forti riguardo alla contraddizione odierna che “vede la medicina e l’ingegneria genetica intente a ritardare la senescenza allorché le scienze sociali sono ancora nella difficoltà di proporre modelli di organizzazione collettiva che permettano di accogliere degnamente gli anziani, di offrire loro un ruolo e una utilità sociale”. E a proposito del concetto di arco della vita sosteneva l’importanza di reintegrare la persona anziana nella sua storia completa, senza fargli perdere le proprie radici, senza isolare la fase dell’invecchiamento dalle fasi di vita precedente.
Un pensiero che non ha nulla a che vedere con i villaggi Alzheimer, dai costi esorbitanti, dove le persone con demenza dovrebbero riacquistare libertà e normalità di vita, sotto la vigile supervisione di operatori sanitari travestiti, ora da cuochi, ora da parrucchieri o qualsivoglia altra professione.
Se il sistema sociale fosse capace di mettere da parte l’ipocrisia che inevitabilmente aleggia in ogni scelta, comprenderebbe che le persone, per mantenere una qualità di vita accettabile nonostante le magagne dell’età e le disfunzionalità fisiche e psichiche, devono continuare a fare, alla meglio, quello che hanno sempre fatto, in altre parole mantenere il ruolo o costruirsene uno alternativo che permetta loro di sentirsi utili, amate, incluse nella società.
Si tratta di essere consapevoli che tutto è un percorso: lo è l’inesorabile proseguire del tempo, lo è la malattia, la salute, il matrimonio, il pensionamento, l’essere genitori e poi nonni e bisnonni.
Un qualunque percorso che venga interrotto da un cambiamento, genera uno stress psico-fisico nella persona, giovane o vecchia che sia, in piene facoltà mentali o no. Su questo credo che non sia necessario discutere.
Il momento dell’istituzionalizzazione, sia pure per essere accolti in un villaggio super attrezzato a quattro stelle, rappresenta inevitabilmente un distacco, una perdita di tutto ciò che era prima: abitudini, oggetti, punti di riferimento temporali o spaziali che possono sembrare irrisori, ma spesso, per non dire sempre, fanno la differenza. E le persone, quelle conosciute e amate, figli, nipoti, cugini, vicini di casa, amici, anche queste non sono più come prima. Invase da un vortice di emozioni, tra cui predominano l’esasperazione e il complesso di colpa, cambiano i loro comportamenti nei confronti di chi è destinato all’emarginazione.
Il tutto genera, il più delle volte, un risultato catastrofico che ostacola le capacità di adattamento, la cosiddetta resilienza, che peraltro è del tutto individuale.
E’ curioso peraltro notare come siano stati fatti numerosi studi sulle capacità di adattamento dei caregivers di persone affette da demenza, ma non ho trovato nessuno studio relativo alla resilienza delle persone divenute non più in grado di badare a se stesse.
Mi chiedo, non sono loro al centro dei nostri obiettivi ???
Nella mia esperienza ne ho viste di cotte e di crude, tanto per citare un altro modo di dire.
Rina trovava la sua motivazione di vita accudendo Ugo, il suo amato gallo, e la gallina Teresa che, sarà stata pure una coincidenza, ha smesso di fare le uova dopo che Rina è morta.
Antonio, magistrato in pensione, appariva entusiasta ogni qual volta presenziava alle riunioni del personale all’interno della casa di riposo. In un’occasione, in cui avevo fatto un breve discorso, con l’enfasi che mi contraddistingue, iniziò ad applaudire esclamando nel contempo: “Bravo avvocato! Ottima arringa!”
Germano, appassionato di paracadutismo al punto di credere di essersi sempre lanciato nel vuoto dalle alte quote, si rifiutava di alzarsi dal letto e quindi pure di vestirsi, subito dopo essere entrato in RSA, nella convinzione di essere ricoverato in ospedale. C’è voluto del bello e del buono per farlo uscire di camera ma ciò ha comportato un notevole peggioramento del suo stato cognitivo.
Alberto, invece, fremeva ogni mattina per allenarsi a correre in giardino, cosa non affatto gradita dagli operatori della RSA che, a loro volta, fremevano per contenzionarlo. Al primo inciampo, pur senza conseguenze, non gli fu possibile mettere il naso fuori dalla porta. Il resto ve lo lascio immaginare.
Sono solo piccoli esempi di esperienza vissuta e sofferta, per dire che ognuno di noi ha una visione del mondo propria, una sua scala di valori che non viene affatto soffocata dal venir meno dei processi cognitivi, per cui mi chiedo come sia possibile creare dei luoghi di vita, che sono pur sempre fittizi, che possano soddisfare i bisogni di tutti e addirittura far sentire le persone libere.
Per quanto riguarda il villaggio Alzheimer realizzato in Olanda, si legge su internet che, in fase di progettazione, sia stata commissionata un’indagine che ha permesso di identificare i sette “stili di vita” dell’Olanda: cittadino, familiare, culturale, indonesiano, classe agiata, tradizionale e cristiana sicché gli architetti avrebbero arredato i 23 appartamenti della residenza secondo questi stili. Gli ospiti stessi, con l’aiuto dei loro familiari, avrebbero la possibilità di scegliere l’appartamento che preferiscono, da condividere con altre 5 o 6 persone.
Nulla da eccepire, ma questo è quanto avviene in Olanda, un paese di piccola estensione, senza rilievi, con tanti mulini a vento e tanti corsi d’acqua e tulipani. L’Italia è ben diversa, anche solo geograficamente: ci sono pianure, colline, montagne, coste frastagliate e diversi mari. La mentalità degli italiani può essere assimilata a quella degli Olandesi? Mi chiedo. Quanti stili di vita potremmo presupporre di avere noi italiani? La risposta che mi sorge spontanea è che potrebbero essere ben più di sette.
Anni fa un’anziana signora di una piccola cittadina della riviera ligure che per tutta la vita aveva cucito reti da pesca, era stata ricoverata, in convenzionamento con l’ASL, in una struttura per anziani posta a 750 metri di altitudine su di un passo dell’Appennino. Il suo comportamento era come quello di un pesce fuor d’acqua: girovagava per la residenza rivolgendosi ora all’uno ora all’altro ospite cercando di identificare un viso noto con il quale intavolare discorsi inerenti alla pesca, ma non trovava risposte da chi aveva vissuto in contesti totalmente differenti. Persino la pronuncia dialettale risultava stonata in quell’ambiente. Finì col perdere del tutto l’intelletto e soprattutto la voglia di vivere.
Ecco quindi che la perplessità espressa da Marco Trabucchi: ” Una vita più facile o un villaggio dei folli dove, sotto l’apparente rispetto, si cela, di fatto, una condizione di segregazione tra sfortunati?” mi sento di sposarla in pieno perché non è questo il cambiamento di paradigma culturale che io auspico.
Mi consolo ricordando le parole di Guerci “La discussione deve essere orientata sul modello di società futura ... più che sul destino delle persone anziane”.
Una società che punti sull’inclusione dei vecchi e dei dementi affinché possano continuare a vivere il più a lungo possibile in casa propria, che sappia utilizzare la tecnologia e l’innovazione per l’adeguamento delle abitazioni in tempo utile, che educhi i familiari a prevedere il possibile decorso dei loro cari, che li sostenga offrendo loro gli strumenti per riconoscere e affrontare le situazioni a rischio di peggioramento, limitando l’istituzionalizzazione solo quando è strettamente necessaria.
La strada dell’emarginazione e del sequestro non porta da nessuna parte perché è solo un vicolo cieco e il patrimonio morale che si perde lascia nella società un vuoto incolmabile.