Poche settimane fa sono stata invitata dal servizio geriatrico dell’ASL, a compilare, entro la metà del mese di gennaio, un elenco dei “pazienti con diagnosi di demenza” presenti nella residenza protetta di cui sono responsabile sanitario. Per semplificare la compilazione dell’elenco veniva allegata una tabella in cui dovevano essere riportati i dati anagrafici (nome, cognome ed età), la diagnosi di demenza, il punteggio della scheda AGED(Assessment of Geriatric Disability), il punteggio del MMSE (Mini Mental State Examination), la presenza o meno di disturbi comportamentali e, in ultimo, doveva essere segnalata la difficoltà gestionale per tali disturbi. Veniva inoltre raccomandato di “specificare a lato il tipo di contenzioni utilizzate ed eventuali altre specifiche ritenute utili per la lettura dei dati”.
Nella lettera di accompagnamento dell’ASL si precisava che la richiesta perveniva dall’Agenzia Sanitaria della Regione Liguria (ALISA), recentemente istituita, per una “ricognizione circa il numero dei pazienti con diagnosi di demenza”. Seguivano ringraziamenti per la collaborazione e auguri di buone feste.
Così mi misi al lavoro, ma come al solito, non nascosi a me stessa e ai miei diretti collaboratori, le perplessità sul fatto che l’elenco dei dati come suggerito, eseguito pur con la massima accuratezza e precisione da parte di tutti i responsabili delle strutture, fosse in grado di fornire elementi utili per una pianificazione dell’assistenza alle persone affette da demenza o per qualunque altra esigenza comunque orientata a migliorarne la qualità della vita.
Constatai, senza sorprendermi troppo, che su 24 ospiti presenti nella residenza, 13 avevano avuto una diagnosi di demenza (N. 5 malattia di Alzheimer, gli altri demenza senile o vascolare) mentre altri 5 ospiti erano affetti da psicosi croniche evolute poi in deterioramento cognitivo più o meno conclamato.
I punteggi della scheda AGED nel complesso erano deprimenti, tutti non autosufficienti totali (NAT) o solo un gradino sotto, ad eccezione di Bruna che è un caso limite da non considerarsi; il risultato del MMSE, quando era stato possibile somministrarlo, dava anch’esso punteggi piuttosto bassi, indicativi di deficit cognitivi di grado moderato-severo. I disturbi comportamentali si erano manifestati in dodici sui diciotto ospiti segnalati, cioè esattamente nel 2/3 dei casi, ma le difficoltà gestionali erano presenti in due soggetti e solo saltuariamente. Di contenzioni neanche a parlarne. Le ho abolite da tempo, compreso le sponde al letto, che vengono utilizzate esclusivamente per protezione.
Soddisfatta? Mi sono chiesta rileggendo più volte i numeri riportati bene in ordine nella tabella, scorrendoli a uno a uno, ora dall’alto verso il basso, ora in senso inverso, senza provare alcuna sorta di emozione.
La risposta non c’era verso che arrivasse. Ma che significato possono avere? La diagnosi ? L’AGED? L’età?
Lo stato cognitivo, ammesso che il MMSE ne sia l’espressione?
Se lo chiede una Regione, devono pur servire a qualcosa, continuavo a ripetere dentro di me. I numeri sono importanti e una qualsiasi analisi deve partire da questi, non c’è dubbio, ma, visti nell’insieme, i dati richiesti mi sembravano un’accozzaglia di elementi finalizzati a etichettare le persone per discriminarle e isolarle. Subito il mio pensiero andò a un articolo uscito su di un quotidiano locale alcuni mesi fa in cui si decretava che i posti letto nelle strutture per anziani, di mantenimento a vita e non a carattere riabilitativo (che sono pochissime), era insufficiente rispetto alle richieste e ai bisogni stimati in tutta la regione, per cui , considerato l’incremento inesorabile dei vecchi, oltre a quello delle demenze, per risolvere il problema, la via più semplice era quella di aumentare i posti letto costruendo altre case di riposo e Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). Alla faccia delle politiche di invecchiamento attivo, inclusione sociale, abitare assistito, vita indipendente. Proprio così: a me vennero i brividi. Tanto più che è ben noto che la vecchiaia, la demenza e i disturbi del comportamento che, inevitabilmente conseguono a queste, ben poco dipendono dalla diagnosi, dallo stato cognitivo e persino dal grado di disabilità.
Non può essere così, ripetevo ad alta voce qualche istante dopo, ricordandomi del mio innato e inveterato ottimismo.
Forse gli amministratori si sono resi conto dell’esatto contrario, cioè che le strutture residenziali, indispensabili in casi selezionati, sempre di più sono considerate erroneamente la panacea di ogni situazione in cui si delinei la perdita di autonomia e quindi vorrebbero porre un freno a tutto ciò partendo da una sorta di mappatura dell’attuale realtà.
In questo caso, la ricognizione dei pazienti con demenza, istituzionalizzati, se pur grossolana, unita alla segnalazione delle difficoltà gestionali dei disturbi del comportamento che invita all’uso incongruo di contenzioni, sarebbe dunque il primo passo per poter porre un limite agli abusi di violenza, che tanto clamore hanno fatto sui media nella stessa regione.
Con questo pensiero mi rincuoro e, cercando di calarmi nella mentalità di colui (ci sarà ben qualcuno, mi chiedo) che avrà il compito di analizzare in scienza e coscienza i numeri riportati sulla tabella, penso, con una larvata preoccupazione, se il non segnalare difficoltà di gestione per i disturbi del comportamento e il non utilizzare contenzioni possa essere letto come un fatto positivo o negativo. Chissà?
Primum non nocere, insegna il codice deontologico e la verità non sempre può essere opportuna.
Con questi pensieri che mi frullano in testa mi viene voglia di strappare la tabella e di manipolare i dati con l’unico scopo di dare qualche chance in più alla Regione per interpretarli nel modo che dico io.
Ma come è possibile? Il termine “difficoltà gestionale” è troppo generico, apre a molteplici soggettività interpretative, che hanno a che fare con una serie di fattori, sia economici, sia strutturali, ma anche prettamente umani come il carattere delle persone.
Le contenzioni, invece, sono un fatto oggettivo, e questo mi rassicura, sempre con la speranza che i responsabili di struttura dichiarino il vero e non nascondano il loro utilizzo, semplicemente per fare bella figura. Nel caso, con buone probabilità, la Regione, sarebbe autorizzata a ritenere che, se il problema non esiste, è inutile occuparsene.
Nello scorrere la tabella con tutti quei numeri, alcuni persino con i decimali, il mio sguardo si concentrava, di tanto in tanto, sul nome o il cognome del fatidico elenco ed ecco che l’immagine della persona mi si concretizzava con tutte le sue caratteristiche: vedevo il sorriso ironico di Maria, la sarda, l’aria altezzosa di Giuliana, la semplicità malinconica di Emma, l’astuzia irriverente di Bruna e così via, tutte le altre, a una a una. E poi Benedetto, l’unico uomo dell’elenco, e il suo chiedere esasperante: “Me la dai una sigaretta?”
Quante volte ripete la stessa frase nell’arco della giornata? Almeno 25 o 30 volte, da una prima stima grossolana. Poco dopo che ha finito di fumarne una, ricomincia con la solita solfa rivolgendosi a chiunque si imbatta nel suo incessante andirivieni fino a che non passano i fatidici 60 minuti che gli danno diritto a un’altra sigaretta e così via fino a che non va a letto. Infatti il patto concordato con i fratelli è questo: non più di una sigaretta l’ora. Chiedere le sigarette sarà da considerarsi una alterazione del comportamento o no? Rifiutarsi di dargliela fino alla scadenza prefissata è da ritenersi una difficoltà gestionale o no?
La letteratura insegna che le alterazioni del comportamento sono parte integrante del quadro clinico delle Persone affette da demenza o semplicemente vecchie per cui ogni professionista che si rispetti dovrebbe saperle affrontare e le istituzioni mettere a disposizione i mezzi per limitarle, in primo quello di creare un ambiente di vita che sia accettabile o almeno non provochi ulteriori disagi.
Mi sembra che sia come chiedere a un muratore se è difficile costruire una casa. In assoluto come è possibile rispondere? A senso mi verrebbe da dire che indubbiamente ci sono luoghi, magari in pendio, dove si fa più fatica perché sono necessari alcuni accorgimenti oppure bisogna procurarsi del materiale specifico, o possono richiedere più tempo per l’attuazione, ma si tratta comunque di difficoltà implicite nel lavoro del muratore.
Insomma, alla fine, decisi di inviare la tabella richiesta con i dati che mi dettava la coscienza, piuttosto che la scienza, segnalando con sincerità le persone alle quali non avevo somministrato il MMSE, in quanto lo ritenevo inutile ai fini di una buona assistenza.
Mi sarebbe piaciuto aggiungere a lato del MMSE il punteggio ottenuto con un test di mia invenzione, che ho chiamato TIED, acronimo di Test dell’Intelligenza Emotiva nelle Demenze che fornisce informazioni relative all’abilità di percepire, ricordare e comunicare le emozioni piacevoli e spiacevoli associate o meno ad alcuni particolari ambiti di vita (famiglia, lavoro, amicizia) e al tempo stesso permette di avere indicazioni sul senso del benessere che è legato non solo alla dimensione cognitiva ma anche alla dimensione affettiva.
Il punteggio massimo ottenibile del TIED è di 30 e corrisponde a una percezione dell’immagine del sé e della visione del mondo coerente con il contesto, indipendentemente dal vissuto individuale e dalle scelte espresse, mentre punteggi inferiori sono indicativi della difficoltà di raccontare le proprie emozioni, situazione che rende più problematica la ricerca di modalità relazionali personalizzate in grado di minimizzare gli atteggiamenti evocatori di esperienze negative e indurre esperienze positive e sentimenti di soddisfazione della propria vita.
Il confronto tra la percentuale di risposte fornite al TEST dell’Intelligenza Emotiva (TIED) e quelle fornite al MMSE è risultato a favore del primo, in tutti i casi fino ad oggi eseguiti, evidenziando una sorta di “dissonanza” tra l’intelligenza emotiva e la capacità intellettiva, indicativa della maggior persistenza delle abilità affettive rispetto a quelle cognitive.
Riporto qui, in anteprima, a titolo esemplificativo, l’abilità emotiva di Maria che ha realizzato un punteggio di 11,4/30 al MMSE e di 30/30 al TIED.
Alla domanda ”Sei soddisfatta della tua vita?” ha risposto così: “Sono soddisfatta dei figli, anche del marito, ma sono più importanti i figli. Ho avuto quattro figli, ma uno è morto: Luciano.” E mentre pronunciava queste ultime parole, il suo sorriso, dolcissimo e bello, nonostante le gengive edentule dell’arcata superiore che mostrava con incuranza, lasciava spazio a una espressione malinconica, altrettanto dolce.
Maria ha risposto coerentemente con le parole e con la gestualità del corpo a tutte le domande del test, dimostrando senso critico, generosità, modestia, ironia e spiritualità. Di tanto in tanto trasparivano emozioni negative come la tristezza, la solitudine, la rassegnazione e persino l’umiliazione.
Spesso non sono nemmeno necessarie le parole: un semplice sguardo, un’espressione del volto, possono aprire un piccolo varco che ci permette di entrare nel misterioso mondo interiore di coloro che hanno dimenticato o perso l’intelletto, per qualsivoglia motivo.
Lo stupore di Emma immortalato in questa foto, nel momento in cui Felicity è saltata sul letto, mentre mi accingevo a visitarla, testimonia, molto di più delle parole, l’importanza delle emozioni per chi non sa fare i calcoli o disegnare i pentagoni incrociati.
La conoscenza della scala dei valori di ogni singolo soggetto, questa sì che può aiutare a ridurre l’asimmetria della relazione che divide costantemente il mondo delle Persone con demenza da coloro che si prendono cura di loro, asimmetria che favorisce le alterazioni del comportamento, essendo alla base della conflittualità o comunque della scarsa cooperazione.
Ma anche sul piano collettivo, tenere conto di questi aspetti, aiuta a riconsiderare le Persone con demenza, evitando di cadere nel tranello della generalizzazione e di identificarli solo attraverso sigle e numeri, espressione delle abilità perse che per nulla tengono conto delle competenze residue, soprattutto di quelle affettive.
Concludo riportando la frase dell’antropologo Antonio Guerci, scritta nel 2011, con nel cuore la speranza che i decisori della Regione la rileggano più volte prima di trarre qualunque conclusione sui quei numeri e sulle diagnosi che affiancano i nomi e i cognomi di coloro che concluderanno la loro esistenza tra le strette mura di una struttura residenziale.
‘Qualunque politica d’intervento sociale, dalla più minuta alla più radicale, assume come sua base sostanziale un assunto naturalistico, ovvero culturalistico, si fonda su una precisa visione dell’uomo, del suo essere al mondo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, e agisce di conseguenza’.