Eugenia, per gli amici Gina, è una bella signora di 91 anni, compiuti a febbraio, che convive da sempre con Andreino, il suo unico figlio. Vedova, dopo una vita passata a lavorare e ad accudire il marito sopravvissuto per oltre 40 anni ad un ictus invalidante che lo aveva colpito in giovanissima età, ha proseguito col prendersi cura del figlio, costretto ad assumere farmaci antiepilettici dopo un intervento neurochirurgico per idrocefalo normoteso.
Andreino, che ora ha 64 anni, ha parecchi altri acciacchi: l’orticaria gigante, le coliche renali, lombalgie e dolori vari alle ossa e articolazioni, disturbi non particolarmente gravi dal punto di vista prognostico, ma piuttosto invalidanti sul piano funzionale e, cosa non da poco ad esordio inaspettato e imprevedibile.
Non solo. Andreino ha un brutto carattere: è irascibile, talvolta pretestuoso, testardo, distratto e pigro, cosa che, unitamente a qualche problema di memoria, soprattutto per fatti recenti, e ad un certo disorientamento temporale, oltre all’eventualità, sempre dietro l’angolo, di avere una crisi epilettica, rende la gestione non proprio all’acqua di rosa. Per tutti. Figuriamoci per Gina.
Anche Gina ha i suoi acciacchi e le sue malattie: ha un polipo nell’intestino che a volte sanguina, una enorme cisti alla mammella sinistra, dei calcoli nella cistifellea che di tanto in tanto si fanno sentire, così come i depositi di acido urico nell’articolazione dei piedi, una tiroide che un po’ funziona poco, un po’ funziona troppo, ma, la cosa che meno tollera, è l’aritmia cardiaca accessuale, quella che noi medici definiamo parossistica, per la quale si prescrivono terapie finalizzate a ridurne la frequenza, oltre agli anticoagulanti, per evitare devastanti conseguenze. Purtroppo l’anziana signora non ha mai avuto beneficio dalla somministrazione dei farmaci perché o le procuravano complicanze ancor più pericolose della sua aritmia o le rendevano la vita peggiore, per l’uno o per l’altro motivo sicché, concordi all’unanimità, si è deciso di stare alla “spera in Dio” e di intervenire solo in occasione dell’episodio acuto che, con puntualità sorprendente, si presenta ogni mese ormai da più di un anno.
Gina sopperisce a ogni difficoltà con la sua caparbietà, con la consapevolezza di sé e con la sensibilità di avvertire ogni minimo cambiamento nella sua fisicità che la rende abilissima nel riconoscere i sintomi precoci di ogni nuovo evento patologico. La sua telefonata, alle 7 del mattino, mai per motivi futili e comunque rispettosa del mio ritmo circadiano che mi vuole sveglia e attiva fin dalle ore 5, è sempre stata annunciatrice che qualcosa non andava come doveva. Mai un falso allarme. Fino a 3 mesi fa.
La telefonata arrivò non alle 7, ma alle 8,30, ed era di Andreino che, con voce concitata, mi diceva che sua madre era caduta e farfugliava parole incomprensibili. Capii subito: si trattava di un ictus che aveva colpito il suo lato destro e il centro del linguaggio. Quando la raggiunsi in pronto soccorso Gina era stuporosa, incredula di quanto stava accadendo. Cercai di rassicurarla accorgendomi che non le era possibile comprendere le mie parole, mentre i medici confermavano la vastità del danno cerebrale avvenuto, purtroppo, parecchie ore prima, sì da escludere ogni possibilità di intervento farmacologico. Non restava altro che aspettare e avere fiducia in lei.
Nei giorni seguenti Gina incominciò con sorprendente rapidità a muovere la gamba, e poi anche il braccio, ma la parola proprio non le usciva di bocca e il suo sguardo ed il suo sorriso tradivano il tentativo di interpretare la risposta giusta alle domande dei medici per valutarne la comprensione. Non risponde agli ordini semplici ed è confusa e disorientata: questa l’amara sentenza.
Ma Gina suppliva comprendendo col cuore quello che non riusciva a tradurre con la mente, di questo ero certa, così come del fatto che non avrebbe mai accettato di finire in una RSA o, ancor peggio in una casa di riposo. Conoscevo la sua più grande preoccupazione, quella di garantire al figlio una vita dignitosa dopo la sua morte, ben conscia del fatto che la sua pensione di poco superiore alla minima, era l’unica fonte di reddito. Mi aveva confessato che suo figlio non si era mai occupato di nulla, né dei conti in banca, né della casa di proprietà, né dei pochi terreni e che era facilmente raggirabile già quando stava bene, figuriamoci ora che incominciava a perdere qualche colpo. Andreino infatti aveva smesso di lavorare 10 anni or sono, dopo che era stato operato, e usufruiva di una invalidità civile del 62% che non le dava diritto di percepire anticipatamente quei pochi soldi accumulati negli anni di produttività.
La situazione era indubbiamente complicata su tutti i fronti: quello sanitario, sociale, economico e morale.
L’ospedale per acuti premeva per la dimissione, Andreino era terrorizzato di doversi arrangiare in casa da solo e, forse ancor più, di dover assistere la madre, io sentivo il peso della responsabilità di dover decidere per lei, confortata unicamente da Sonia, figlia di una grande amica di Gina, che, proprio in virtù dell’antico legame tra le famiglie, si è sempre prodigata a fornire il suo aiuto.
Decisi di confidare in Gina e acconsentii al rinvio a domicilio dopo soli 8 giorni di ricovero in reparto neurologico.
Nei primi giorni, nonostante la mobilitazione generale dei vicini di casa e dei pochi ma volenterosi amici di famiglia, qualunque atto della quotidianità , dal fare il caffè, lavare un piatto, scopare per terra e, figuriamoci, provvedere alla gestione dei pannoloni, ad Andreino pareva insormontabile. Non ce la faceva proprio ad accettare l’invalidità della madre e, per la minima difficoltà, chiedeva aiuto suonando ripetutamente il campanello dei vicini di casa o chiamando i numeri telefonici registrati nella sua rubrica. Un incubo per tutti, ma soprattutto per Gina che non aveva nessuna possibilità di rassicurarlo e impedirgli di fare quel gran can can. A Gina non restava che una via di uscita: quella di riprendersi in fretta e tornare a essere una casalinga ed una cuoca invidiabile. Di lì a breve, nonostante i movimenti fini della mano destra non fossero proprio come prima, ci riuscì, eccome. Riprese a cucinare, anche con impasto fatto a mano, riassettare la casa, lavare, stirare, ovviamente accudire se stessa. Restava però un problema enorme per lei: le parole si formavano nella sua mente chiare e precise, ma non le uscivano di bocca. Comprendeva quasi tutto, era evidente, ma esprimersi diventava un’impresa davvero difficile, soprattutto quando il discorso verteva su situazioni economiche da verificare e sulle procedure da intraprendere per garantire a se stessa ed al figlio un futuro dignitoso. Occorreva innanzitutto avviare le pratiche per l’invalidità civile sperando che le dessero pure l’accompagnamento, cosa che le avrebbe permesso di fare qualche trattamento con una logopedista privata, considerato che, in convenzione con l’ASL, non era possibile.
A me sembrava scontato che la compromissione così grave del linguaggio in un’anziana lucida, intelligente e attiva, fosse una condizione invalidante tale da non lasciare dubbi sulla concessione del massimo dell’indennizzo ma, colleghi ben più esperti di me, mi avvisarono che non c’era proprio nulla di scontato. L’afasia, secondo le tabelle, vale dal 90 al 100%, vale di più il disorientamento temporo-spaziale, lo stato confusionale, se porta il pannolone, indipendentemente se sia o non continente. Se poi cammina, non importa se per tenacia e caparbietà, ci vede e non è sorda, considerato che ha quasi 92 anni, la commissione, in tempo di crisi (economica o di valori? Penso io) tende a essere ancor più restrittiva. Mi consigliarono di accompagnarla e, conoscendomi bene, di sottolineare le defaillance mentali di Gina, più che l’afasia, di insistere sull’incapacità di camminare autonomamente con alto rischio di cadere e sull’incontinenza urinaria che l’obbligava ad indossare il pannolone giorno e notte.
Ci provai, ma il risultato fu poco soddisfacente. Gina era talmente vivace che parlava con gli occhi, era impossibile pensare che fosse demente, rispondeva correttamente alle domande che richiedevano un sì o un no, ma, oserei dire per fortuna, l’indirizzo della sua abitazione non le uscì proprio di bocca e finì per fare una smorfia e scusarsi a gesti per la sua incapacità. Ci fu, fra l’altro, un fraintendimento perché alcuni membri della commissione che mi conoscevano, si erano fatti la convinzione che Gina fosse un’ospite della casa di riposo di cui sono responsabile. Il fraintendimento credo abbia giocato a nostro favore perché rimasero di stucco quando spiegai che Gina viveva a casa propria, con un figlio che aveva necessità di assistenza e che nessuno dei due usufruiva di alcuna agevolazione per l’accesso alle cure.
Pochi giorni fa sono venuta a conoscenza che a Gina è stato concessa l’invalidità al 100% con accompagnamento, anche se la comunicazione non le è ancora pervenuta, penso e spero per la lentezza burocratica che caratterizza il nostro bel paese. E’ retroattiva, mi è stato detto, vale la data di presentazione della domanda, per cui va bene così. Almeno una cosa è andata in porto.
Ma mi chiedo: che cosa sarebbe accaduto senza l’intervento del corteo di persone che, pur prive di legami parentali, si sono prodigate a porgere una mano, come aveva fatto lei, nel corso della sua vita, senza mai risparmiarsi? O se nessuno, non tanto per volontà quanto per ignoranza, fosse stato in grado di districarsi nel complesso sistema delle istituzioni sociali per denunciare la precarietà della situazione?
Conoscendo bene la mentalità del territorio in cui vivo, con molta probabilità sarebbe finita in una RSA, per un mese, al massimo due, si sarebbe proceduto alla nomina di un amministratore di sostegno in tempi brevissimi, ovviamente puntando l’accento sullo stato confusionale e il disorientamento temporo-spaziale nonché sull’indice di dipendenza valutato con la scala ADL, che sta per Activities of Daily Living, che avrebbe dimostrato la perdita di almeno 4 o 5 funzioni su 6; poi sarebbe finita in un ricovero convenzionato per il resto della sua vita, con gran lustro dei servizi sociali del comune di residenza. Conoscendo Gina e la sua preoccupazione per il figlio, sono convinta che non avrebbe mai retto ad una situazione di questo genere e difficilmente avrebbe potuto recuperare una stato di salute accettabile per la semplice perdita del gusto di vivere. Sì, proprio così come dice Simone De Beauvoir nel suo libro”La terza età”: “Per riadattare al mondo un organismo che si sia modificato in senso peggiorativo bisogna aver conservato il gusto di vivere”. E poi aggiunge: “E’ la collettività che decide della sorte dei vecchi, e questi la subiscono anche quando si credono i più forti”.
Ma possibile, mi chiedo ancora, che questa collettività non riesca a distinguere quella sottile linea, di cui parla Mary Marshall, nel suo libro “Il lavoro sociale con l’anziano” che divide il vedere ogni singola persona nella sua unicità e vederla invece come membro di un gruppo che ha dei problemi in comune ?
Possibile che questa collettività non riesca a costruire un’immagine della vecchiaia libera dal pregiudizio di incompetenza sociale che porta inevitabilmente alla discriminazione e alla reclusione?
Sempre più negli anni mi convinco che la chiave di svolta sia proprio questa: vedere i vecchi con occhi diversi, stimarli, accettare e apprezzare le loro scelte che sono comunque degne di rispetto, anche se talvolta possono sembrare azzardate e, come dice la Marshal, prendere coscienza della nostra personale immagine della vecchiaia, che condiziona i nostri pensieri e le nostre azioni quotidiane, sapendo che la costruzione di questa immagine, elaborata da un piano individuale viene riflessa, quasi in un gioco di specchi, su quello sociale.
Come Gina, tante altre donne sono capaci di recuperare il gusto di vivere e dare molto ancora con la loro competenza morale e materiale, perché questo significa essere socialmente utili .
Ma per credere in questo è necessario che la società impari ad approfondire la conoscenza della storia e del carattere di ogni singola persona, e non solo limitarsi ad erogare i servizi disponibili utilizzando criteri basati su sterili schede e tabelle standardizzate che nulla hanno a che vedere con i bisogni del singolo.
Ora Gina è a casa sua e si arrangia come può, da sola, mentre Andreino ha avuto un tracollo e, dopo un breve ricovero, è stato trasferito in RSA per motivi gestionali. Non ha invalidità, non ha pensione, non ha una diagnosi che spieghi perché non cammina e, per di più, non è neppure anagraficamente anziano.
La sua triste storia ve la racconterò la prossima volta.
Io e Gina