Cinque domande a...
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Cinque domande a...
Fabio Ragaini-presidente dell'Associazione di volontariato GRUSOL attiva dal 1980 nella Regione Marche e nel dibattito nazionale
Cambiare prospettiva. A proposito di politiche, modelli, interventi, servizi dopo l’esperienza della pandemia. In questa analisi/riflessione sulle politiche sociosanitarie vorremmo partire dalla cosiddetta “vicenda Rapagnano”su cui Grusol si sta battendo: la Regione Marche autorizza la realizzazione di una nuova struttura da 175 posti letto, in una piccola cittadina in provincia di Fermo, rivolta a persone con disabilità, anziani non autosufficienti e con demenze, persone con disturbi psichici, malati nella fase post acuta della malattia. Una vicenda che mette insieme più aspetti: i modelli, le politiche, gli attori.
Sì, penso anche io che la vicenda "Rapagnano" sia abbastanza paradigmatica. Andiamo per punti.
Oggi nelle Marche, come credo in tutta Italia, si possono realizzare nuove strutture di queste dimensioni, in cui vengano concentrate le esigenze di persone con necessità molto diverse. Certo, la normativa regionale non prevede che per le nuove realizzazioni sia possibile fare tutto in una palazzina. Ma per essere in regola, basta realizzarne tre, una attaccata all'altra! Ad investire e realizzare questa struttura è una impresa edile, che a sua volta affiderà a qualche soggetto, presumibilmente non profit, la gestione dei servizi.
Personalmente ho qualche dubbio che tutti quei posti siano autorizzabili, che si possano offrire nello stesso edificio 39 posti letto di RSA disabili o che l’offerta di 70 posti di Cure intermedie (che presto si chiameranno Ospedali di Comunità) possano intercettare una domanda territoriale di queste dimensioni. Ma questo conta poco. Quel che conta è che si possa concepire la costruzione ex novo di una struttura, che preveda sei tipologie di servizi rivolte a persone dai bisogni e dalle caratteristiche evidentemente diverse. Va notato che i “posti” da realizzare sono stati scelti, tenendo conto del fabbisogno autorizzabile, sulla base della maggior remuneratività.
Vale la pena ricordare che la possibilità di realizzare nuove strutture di questo tipo è stata sancita nel luglio 2020, all’indomani della prima tragica ondata della pandemia, dalla giunta di centro sinistra della precedente legislatura. E che, a parte pochissimi soggetti, e noi tra questi, nessuno ha avuto da ridire. In un comunicato, oltre ad altre considerazioni abbiamo scritto, insieme ad altre organizzazioni, all’indomani dell’approvazione del Decreto di autorizzazione, “Il diabolico meccanismo che determina la possibilità di attivare posti autorizzabili secondo il fabbisogno, e la sostanziale mancanza di regole dettate dalla totale assenza di orizzonti di politica sociale, determina un sistema ad incastri che porta a mostri come questi.”
Il “modello Rapagnano”, sancito dai regolamenti regionali, è paradigmatico. Da un lato ci sbatte in faccia un’enorme arretratezza culturale, dall’altro rivela quanto questi servizi appartengano ad un mercato appetibile ad investitori privati, evidentemente perché remunerativo.
Questa vicenda non richiama soltanto il tema della qualità di vita delle persone, ma anche la necessità di un ripensamento radicale della modalità di definizione del cosiddetto “fabbisogno” autorizzabile e convenzionabile, e del sistema di autorizzazione e accreditamento, che non possono essere slegati da quello che chiamiamo “sostegno alla domiciliarità”. Siamo davvero sicuri che, ad esempio, le persone con disabilità e le loro famiglie chiedano di realizzare strutture di questo tipo e non piuttosto un rafforzamento dei sostegni domiciliari ed eventualmente modelli abitativi di tipo familiare?
È inoltre abbastanza paradossale che, nel momento in cui il PNRR indica la necessità di irrobustire il sostegno alla domiciliarità e di ripensare i “sistemi residenziali”, declinandoli in termini abitativi, si prevedano e si autorizzi la costruzione di strutture di questo tipo. Strutture, bisogna dirlo, che non sembrano dispiacere alla cooperazione sociale marchigiana, che, tranne l’eccezione di alcune piccole cooperative radicate nel proprio territorio, nulla ha avuto da obiettare all’affermarsi di modelli di questo tipo.
Ho inoltre l’impressione che si stia progressivamente affermando, riguardo alle persone con disabilità, lo schema del doppio binario. Schematizzando: dove c’è buona autonomia si possono immaginare anche modelli abitativi e familiari, mentre, quando è presente complessità, ecco che arriva il bisogno di residenzialità, articolata nelle diverse tipologie di servizio. L’abitazione sparisce e si entra nella logica della struttura.
In conclusione, la vicenda di Rapagnano non ci dice solo che quel modello è del tutto inaccettabile, ma ci richiama anche a prestare cura ed attenzione alla lettura della domanda, o meglio, delle domande, perché le esigenze sono sempre personali e proprio su quella personalizzazione bisogna provare insieme ad immaginare e realizzare le risposte.
Quindi non parliamo solo di disabilità ma anche di funzionamento dei servizi e di valutazione del bisogno?
Il PNRR ha avuto il merito di riaprire il dibattito anche sui modelli di intervento e sui sostegni possibili, spingendoci anche a re-immaginare i nostri servizi, le modalità di finanziamento e della presa in carico. Mi sembra che centrale sia la questione del come. Sostenere la domiciliarità: come lo faccio? “Residenzialità”: di che tipo’. E quando utilizziamo il termine “non autosufficienza”, dobbiamo sapere che parliamo di un contenitore generico. Al suo interno ci sono esigenze e condizioni individuali del tutto diverse, legate come sono all’età (adulti/anziani), alle condizioni di salute, alla situazione familiare, abitativa, ecc… Il punto di partenza dovrebbe essere: di cosa hanno bisogno le persone e le famiglie. Quali sostegni chiedono? Che strumenti di ascolto e valutazione possediamo? Su questa base va costruito il mix delle risposte, che non può che essere costruito insieme alle persone stesse ed in un bacino di interventi possibili diversi e coordinabili fra loro.
Esiste poi anche il problema dei fondi e di un corretto utilizzo delle risorse.
Ribadisco un punto: per personalizzare gli interventi, devi conoscere le persone, e qualsiasi sistema di offerta deve avere la capacità e le competenze per la lettura del bisogno. Quindi è irrinunciabile la presenza effettiva, reale e concreta, di luoghi di accoglienza, accompagnamento e presa in carico. Che garantiscano l’appropriatezza concreta delle risposte. Non sono luoghi amministrativi.
Per chi di noi, ad esempio, aveva scommesso sulle Unità Multidisciplinari come strumento per garantire tutto questo, si tratta di ammettere che, nella gran parte dei casi, esse non hanno raggiunto l’obiettivo. Non solo: sono spesso diventate lo strumento per definire percorsi a partire dallo stato dell’offerta e non dai contenuti personali della domanda. Un tradimento della loro funzione.
Ad esempio, nel sostegno alla domiciliarità delle persone anziane non autosufficienti (e ripeto, ogni definizione collettiva è generica e schematica), in alcuni casi può non essere adeguato un trasferimento monetario, volto a sostenere i costi dell’assistenza, perché la famiglia può comunque avere difficoltà nella gestione del congiunto. Ecco che allora sono necessari luoghi di valutazione, che diventano strategici per capire, insieme alle persone, come è meglio rispondere alle diverse esigenze.
E poi occorre avere effettivamente diverse possibilità di offerta, senza limitarsi a quella più semplicistica (troppo spesso rispondiamo alla complessità con la semplificazione) del trasferimento economico. Pensiamo, ad esempio, al Fondo nazionale per le non autosufficienze. Si tratta di un fondo sociale, la cui la sua entità è molto cresciuta negli ultimi anni, mentre non mi sembra sia altrettanto cresciuto l’interesse per la valutazione degli esiti degli interventi.
Per le Marche, ad esempio, in 5 anni (2016-21) il Fondo è cresciuto di circa 7,5 milioni (da 11,3 a 18,9). Sempre nella nostra Regione, circa il 75% diventa trasferimento monetario (disabilità gravissima e ultra65 non autosufficienti con indennità di accompagnamento), con una quota mensile che va da 150 a poco più di 300 euro. Per gli ultra65enni (non “gravissimi” e con redditi bassi), il contributo è di 200 euro mensili ed è alternativo ai servizi (ti do poco più di 6,5 euro al giorno, ma non devi chiedermi altro!). Come ho già avuto modo di dire, il Fondo per le non autosufficienze diventa, almeno nella nostra Regione, nient’altro un ulteriore piccolo assegno, che si aggiunge alla indennità di accompagnamento.
Torniamo al tema dei modelli degli interventi e delle attuali modalità di finanziamento riguardo ai servizi diurni e residenziali.
I servizi rivolti alle persone con disabilità e non autosufficienti sono finanziati dal fondo sanitario, in base alle quote previste nei LEA, e dal settore sociale con oneri a carico di utenti e/o Comuni. Non sempre i percorsi sono, però, lineari. Nei servizi diurni e residenziali rivolti ad anziani non autosufficienti è prevista una quota sanitaria e si chiede all’utente o alla famiglia di coprire la restante parte, in base a criteri di compartecipazione disciplinati dalla normativa ISEE applicata dai Comuni. Nei servizi rivolti alle persone con disabilità, in genere, alla quota sanitaria si aggiunge una quota sociale, a carico del Comune, ed una quota utente (sempre sulla base dei criteri ISEE sopra richiamati). Invece, nel sostegno alla domiciliarità delle persone anziane non autosufficienti oggi gli interventi domiciliari sono sostanzialmente sostenuti dal settore sociale (benché la normativa sui LEA stabilisca che anche per l’assistenza tutelare debba esserci compartecipazione al 50% tra settore sanitario e sociale). Negli interventi diurni e residenziali la quota sanitaria copre dunque una percentuale del costo del servizio, mentre, non è così nei servizi domiciliari.
Uno dei temi oggetto di riflessione e discussione in questo momento, soprattutto nel settore disabilità, riguarda il fatto che questi servizi, nel momento in cui vengono finanziati dalla sanità (in genere con una percentuale che va dal 40% al 70%) assumono approcci e modelli di funzionamento più spiccatamente sanitari, con forte connotazione prestazionale e basati su procedure e protocolli che hanno al centro la persona in quanto malato, con tutto ciò che ne consegue in termini di attività, organizzazione dei tempi e degli spazi di vita, caratteristiche del contesto relazionale.
Se dunque le quote sanitarie sono fondamentali, perché garantiscono la sostenibilità economica dei servizi, allo stesso tempo li snaturano, attraverso una presenza maggioritaria di figure di tipo sanitario e l’imposizione di requisiti organizzativi e strutturali spesso mutuati da concezioni ospedaliere, che trasformano le comunità in reparti o nuclei.
Peraltro, sempre in riferimento alla disabilità, l’esperienza della legge 112/2016 e la sua proposta di “situazioni alloggiative”, alternativa alla “residenza/struttura”, sembra aver innescato, in questi anni, positivi processi di avviamento di soluzioni abitative in contesti urbani (appartamenti ed abitazioni di piccole dimensioni), che però coinvolgono sostanzialmente persone con buone autonomie personali (seppur “gravi” ai sensi della legge 104). Si tratta a mio parere di una riflessione necessaria perché evidenzia i limiti e le enormi criticità dei “sistemi di offerta” attualmente in essere. Allo stesso tempo, nella situazione attuale, la rivendicazione di interventi e servizi di tipo esclusivamente sociale (per definizione più inclusivi, più legati alla comunità, meno proceduralizzati, ecc..), non può non tenere conto dell’attuale composizione del finanziamento dei servizi. Occorre evitare che la presenza di fondi sanitari non determini approcci assunti esclusivamente da modelli biomedici. Certamente il budget individuale di progetto può essere un ottimo strumento di ricomposizione della spesa.
In chiusura una riflessione finale sulla situazione degli anziani, soprattutto di quanti vivano nelle residenze, la popolazione più colpita dalla pandemia.
Qualcosa vorrà pur dire se non siamo riusciti a sapere quello che è effettivamente accaduto all’interno delle residenze. Lì vive un popolo di invisibili e, come tali, dimenticati. Ancora oggi si può dire che moltissimi vivano da reclusi. E se non sappiamo cosa sia effettivamente successo, è invece evidente che ci siamo abituati velocemente a non considerare affetti e relazioni come parte della cura. Mi pare abbastanza chiaro che li abbiamo considerati come non persone. Sul tema, consiglio di leggere l’articolo di Antonio Censi in questo numero della rivista insieme al suo libro, “Vita da vecchi” (Ed. Gruppo Abele 2021).
In questi anni le strutture per anziani sono sempre più diventate, da un lato, enormi contenitori con significativi investimenti del privato speculativo, dall’altro è prevalso il modello aziendale delle economie gestionali, nel quale l’attenzione è posta sull’organizzazione e non sulle persone per le quali il servizio stesso funziona. Ritengo erroneo pensare che ciò, anche se può essere una concausa, dipenda dal sottofinanziamento della spesa. Le persone diventano letti e poi tariffe e rette. Il mercato è entrato in maniera strutturale in questi servizi: in poco tempo dall’assistenza/beneficienza si è passati al “for profit”; Un modello assunto, a volte, anche da soggetti con configurazione giuridica “non profit”. Parliamo soprattutto, delle plusvalenze, che si producono contraendo salari e qualità dei servizi. Io penso che questi servizi siano incompatibili con la ricerca di profitto, perché si occupano di persone e della loro vita.
Detto questo, mi preme ribadire quanto già accennato precedentemente: la categoria della “non autosufficienza”, non può essere assunta in maniera univoca. Diventa fuorviante. Può comprendere persone gravemente malate che hanno necessità di supporto vitale, persone con demenze molto severe, persone che hanno perso l’autonomia, ma sono totalmente integre dal punto di vista cognitivo. A queste diverse necessità occorrerebbe rispondere in maniera adeguata ed appropriata, partendo, come richiamato precedentemente, dall’effettivo sostegno alle persone ed alle famiglie che scelgono di restare a casa. E la dimensione domiciliare può e deve appartenere anche a chi a casa propria non può più stare: le residenze si devono connotare in termini abitativi, con dimensioni di vita e di cura che richiamano la normalità. E dove c’è casa, di solito ci sono anche relazioni significative ed affetto. A tutto questo i nostri “approcci gestionali” sono (e si sono dimostrati) assolutamente indifferenti.
- Autore/rice Lidia Goldoni
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Elisabetta Notarnicola- Associate Professor of Practice di Government, Health and Not for Profit presso SDA Bocconi School of Management. Coordina l’area Social Policy and Social Innovation del CERGAS Bocconi e l’Osservatorio Long Term Care. Presso CERGAS e SDA Bocconi ha partecipato a progetti di ricerca concernenti i temi della programmazione locale delle politiche sociali, del coordinamento e integrazione tra settore socio-sanitario e sanitario, dei servizi per la non autosufficienza e della innovazione nei servizi sociali, con attenzione alle tematiche di progettazione dei servizi e di applicazione delle teorie di sharing economy ed economia collaborativa.
Nel corso di questi due anni Lei ha partecipato come docente dell’Università SDA Bocconi di Milano, con altri suoi colleghi, ai lavori del Network “ LTC RESPONSES TO COVID-19”, finanziato dall’International Long-Term Care Policy Network (ILPN)e dal Care Policy and Evaluation Centre (CPEC) presso la London School of Economic and Political Science (LSE).
Può illustrarci anche sommariamente gli obiettivi, i contenuti e le modalità di lavoro di questo Network e quali altre realtà italiane erano presenti?
Il network è nato nelle prime settimane di diffusione europea della pandemia Covid-19. È stata una aggregazione spontanea resa possibile dall’effetto catalizzatore di un network già esistente, appunto ILPN, che da diversi anni unisce con una conferenza bi-annuale ricercatori impegnati rispetto al tema della Long Term Care e del settore anziani. Il network è nato in funzione dell’esigenza di rispondere ad una domanda che tutti (molti) si ponevano in quel periodo: “è possibile che stia succedendo tutto questo? Deve esserci un modo per gestirlo, cosa stanno facendo gli altri?”. Allo stesso tempo i dati su quanto accadeva nei servizi per anziani stavano sconvolgendo l’opinione pubblica in diversi Paesi e si sentiva l’esigenza di condividere la comprensione di un momento così difficile. Il network ILPN ha poi offerto l’opportunità di strutturare le attività tramite un sito web e un coordinamento molto efficace da parte di Adelina Comas Herrera che ha straordinariamente seguito (e ancora segue) tutte le attività. Il programma e gli obiettivi erano inizialmente di raccogliere in modo strutturato e comparabile informazioni rispetto a LTC e Covid-19 nei diversi paesi per costruire una banca dati conoscitiva. Dopo, questo obiettivo si è evoluto verso la necessità di fare approfondimenti comparativi che discutessero le policy e le soluzioni adottate in logica critica. CERGAS SDA Bocconi ha partecipato come unico contributore per l’Italia.
Ho seguito le iniziative, i documenti e i confronti internazionali che sono stati promossi da LTC Covid. Particolarmente interessanti i report e gli apporti provenienti da Istituzioni e Centri di ricerca di tutto il mondo. Lei stessa ha partecipato a diversi incontri in streaming e recentemente- a gennaio- ad un webinar che ha affrontato il tema della diffusione della variante Omicron nei luoghi di cura a lungo termine , che si identificano con le strutture residenziali (Case di Riposo, Istituti, RSA). Quali sono stati gli apporti più significativi che l’Italia ha adottato nell’affrontare questa ultima variante della pandemia e quale la differenza con le altre realtà che hanno partecipato a questo confronto?
Dal confronto internazionale è emerso come l’Italia sia stato nel 2021 e nel 2022 uno tra i Paesi che ha adottato e mantenuto più a lungo misure restrittive molto intense. Dal confronto internazionale mi hanno colpito due cose: l’Italia è uno dei pochissimi Paesi ad aver introdotto un obbligo vaccinale per i lavoratori delle strutture per anziani; l’Italia è anche uno dei pochissimi Paesi che ha mantenuto così a lungo (appunto fino al 2022) delle limitazioni quasi assolute rispetto alle visite nelle strutture per anziani con regole molto rigide per i nuovi ingressi. Questo mi ha colpito molto e non abbiamo ancora i dati per poter dire se sia stato un bene o un male. Sicuramente andrà valutato in una logica multidimensionale, non solo rispetto a Covid-19 ma valutando gli impatti in senso più ampio. Non ho quindi gli elementi né per spiegare perché sia stato in questo modo né per apprezzarlo o motivarlo ma aver capito quanto sia stata dura per il nostro Paese in confronto ad altri è una parte importante dell’analisi del fenomeno.
In uno dei confronti riportati su LTC COVID, in cui si chiedeva quali erano state le azioni e le modifiche assunte dai vari paesi per far fronte alla pandemia, ma soprattutto per ridurre quella mortalità che ha decimato gli anziani nei servizi residenziali, lei ha informato i suoi colleghi dell’attuale organizzazione del sistema di cura per gli anziani in vigore in Italia e in particolare sulla competenza esclusiva delle Ragioni in materia.
Qual è il suo giudizio su questo sistema legislativo e- per allargare l’orizzonte- in quali altri Paesi è presente e con quali differenze?
Il modello di governance italiano del sistema LTC, basato su una competenza regionale che lascia grande autonomia alle Regioni in assenza totale di indirizzi e framework nazionali è una eccezione nel panorama internazionale. Nel tempo questo ha determinato molto criticità (iniquità, eterogeneità, scarsi investimenti, frammentazione, etc..) ma credo che il punto critico oggi non sia tanto la governance del modello ma il contenuto delle politiche. Restiamo comunque in attesa: la riforma del sistema non autosufficienza è stata introdotta tra quelle supportate da PNRR ed è attualmente al vaglio per cui non escludo innovazioni nel prossimo futuro.
Il network LTC Covid sta proseguendo i suoi incontri e i suoi approfondimenti con una nuova modalità: la presentazione di un Rapporto -definito WIKI- in continuo aggiornamento avente come struttura di riferimento un questionario con 68 domande che riguardano le caratteristiche dei sistemi di assistenza, gli impatti di COVID 19 sulle LTC, le misure adottate nei vari paesi e le riforme per ridisegnare i problemi strutturali.
Credo che la costruzione di questo sistema di raccolta di informazioni e le domande e le aree individuate come fondamentali siano un passo necessario perché- tenendo conto delle caratteristiche sociali, politiche ed economiche di ogni paese- si possa comunque giungere alla costruzione di un quadro di riferimento per valutare i livelli di cura erogati, il benessere degli anziani residenti, i rapporti dei servizi con caregiver e famigliari, ma soprattutto per evitare il ripetersi di questa decimazione di persone fragili a fronte di una epidemia.
Qual è la sua opinione in merito sia al metodo sia ai contenuti?
La logica proposta dal network è la logica della ricerca del futuro: open source ovvero liberamente accessibile da chiunque, e aggiornata quasi in tempo reale. Allo stesso tempo la struttura con le 68 domande, sebbene molto ampia, rischia di diventare rigida. I temi monitorati infatti sono molto legati alla risposta Covid-19 che però, fortunatamente, sta evolvendo molto rapidamente. Rischia quindi di essere uno strumento di conoscenza altamente flessibile ma che potrebbe diventare rigido nel medio periodo. Questo è un peccato dato il grande sforzo di coordinamento dei colleghi ILPN e la ricchezza informativa che contiene. Allo stesso tempo il sistema WIKI è stato reso possibili da investimenti sulla ricerca fatti da alcune istituzione UK, dimostrazione che l’investimento sulla ricerca serve per diffondere conoscenza anche in logica comparativa, cosa che nel nostro Paese spesso non viene compresa.
È l’ultima domanda, ma vorrei che fosse l’avvio di un nuovo colloquio. Mi ha inviato il 4° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care “Il presente e il futuro del settore Long Term Care: cantieri aperti”( https://cergas.unibocconi.eu/news-events/il-presente-e-il-futuro-del-settore-long-term-care-cantieri-aperti) che ha coinvolto i più rappresentativi soggetti pubblici, privati e di Cooperative operanti sul territorio nell’area dell’assistenza agli anziani non autosufficienti o a persone in condizione di fragilità.
Può in chiusura di questa breve intervista offrirci una informazione più ampia sulla realtà italiana dell’assistenza a lungo termine che avete indagato, rinviando ad un altro colloquio la presentazione dei risultati e dei cambiamenti (cantieri aperti) in corso?
Il nostro 4° Rapporto è stato dedicato alla ripartenza: dopo aver definito negli anni precedenti una diagnosi circa le criticità del sistema italiano e aver approfondito l’impatto di Covid-19, ci siamo dedicati ad analizzare e raccontare le tracce di ripartenza e cambiamento che dal basso (nei servizi e nelle aziende) stanno cambiando il mondo non autosufficienza. Emerge il quadro di un settore che arranca e che non riesce a investire nell’innovazione per carenza di risorse umane e finanziarie. Un settore quindi che è centrale ma che deve essere supportato da policy nuove- lato pubblico- e dall’intervento di nuovi attori- lato privato.
- Autore/rice Lidia Goldoni
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Federica Taddia- Esperta in pedagogia della terza età, specializzata in interventi non farmacologici per la demenza, da più di 20 anni lavora all’interno delle strutture per anziani «Villa Ranuzzi» e «Villa Serena» di Bologna come responsabile delle attività socio-educative.
È formatrice in ambito sociosanitario e professore a contratto presso l’Università di Bologna, dove conduce laboratori sulle terapie non farmacologiche
Rispettando una cadenza, che ha ormai quasi una sua periodicità, riprendiamo i nostri colloqui sulla vita nei servizi residenziali, per parlare di formazione, competenze, pratiche quotidiane degli operatori socio-sanitari che quotidianamente si prendono cura degli anziani qui residenti.
Abbiamo iniziato nel 2014 quando introdusse l’uso del tablet e di altri dispositivi digitali per aiutare gli anziani a superare handicap fisici e cognitivi. In quella prima intervista, sottolineava gli effetti postivi della stimolazione cognitiva e comportamentale ottenuti con gli strumenti digitali.
Abbiamo poi parlato nel 2020 dell’adozione del metodo Montessoriano nelle attività di animazione nelle strutture, che ha raccontato in un libro, per mettere l’anziano al centro della relazione e renderlo partecipe.
È un percorso di avvicinamento tra operatori e anziani che oggi trova un ulteriore supporto nell’adozione di tecniche di counseling nei servizi socio-sanitari.
Lei sottolinea l’importanza dell’azione, della conoscenza ma soprattutto, come lei scrive, del “saper stare nella relazione, per “prendersi cura” prima ancora di curare, nella consapevolezza del ruolo che gioca un operatore formato.
Ci può illustrare innanzitutto cosa è il counseling, su cui è uscito recentemente un suo libro, e perché aiuta e facilita le relazioni con l’anziano?
Il termine counseling può essere “tradotto” con confortare, andare in aiuto, sostenere.
Confortare vuol dire rendere l’altro più forte a sopportare un dolore, a sostenere una fatica. Esortare, incitare con parole d’incoraggiamento, avvalorare, convalidare.
Sostenere invece invita a tenere sollevata una cosa o una persona sopportandone il peso dal di sotto facendo in modo che non scenda. Queste due definizioni promuovono nell’operatore la competenza al “saper stare” nel contesto professionale: sapere stare con l’utente, con i familiari, con i colleghi senza dimenticare che questi piani sono strettamente correlati fra loro.
Saper stare vuol dire comprendere quando e a chi rivolgersi, vuol dire condividere, vuol dire riconoscere e rispettare le competenze altrui (siano esse dell’utente, del familiare o del collega). Saper stare rinnova l’impegno professionale, sollecita il recupero dei propri saperi e li fa mettere in campo. Per cui il counseling come insieme di tecniche specifiche aiuta a promuove la consapevolezza che occorrono strumenti pratici per riuscire a dialogare, capire e capirsi, aiuta a pensare in modo differente, ad analizzare la “domanda” dell’altro accogliendola e comprendendola e a riconoscere e condividere le competenze individuali e di gruppo.
Non sono solo gli anziani che abitano gli spazi dei servizi residenziali, ci sono anche i loro famigliari -i “caregiver” come oggi ormai sono identificati- con i quali gli operatori hanno continui rapporti, ne conoscono le preoccupazioni, entrano in stretto contatto con le loro ansie, i sensi di colpa, cercando di aiutarli ad accettare la situazione, come unica soluzione anche per il benessere del famigliare.
Quali sono gli obiettivi che un operatore si deve porre nei confronti del famigliare e come deve interagire con lui?
L’operatore deve accogliere e comprendere i bisogni del caregiver che si possono manifestare anche tramite l’esercizio di alcuni meccanismi di difesa utili a fronteggiare la situazione stressante che sta vivendo e che lo porta a manifestare sensi di colpa, senso di solitudine, maggiore presenza e coinvolgimento nelle pratiche di cura che dovrebbe demandare ad altri. Per fronteggiare questi aspetti diviene allora importante che l’operatore metta in atto delle competenze che partano dall’accoglienza e non dal giudizio e dall’approfondimento delle motivazioni altrui, arrivando poi al consolidamento delle competenze reciproche: il caregiver può rappresentare la continuità affettiva e conoscere la storia della persona e il suo modo di rapportarsi alle situazioni, l’operatore ha competenze nell’ambito della cura e del prendersi cura.
Ognuno può essere utile e fornire un contributo fondamentale all’interno dell’intero processo di cura.
Forse a molti può sembrare quasi un assurdo parlare di counseling quando l’interlocutore è una persona con demenza. Negli esempi che lei porta si coglie in effetti quanto l’intervento da parte dell’operatore possa influire
sul comportamento dell’anziano, tranquillizzandolo o al contrario esasperandolo.
Forse troppo spesso diamo per scontato che una persona con demenza non sappia più cogliere, anche solo emotivamente, le diverse modalità di relazionarsi delle persone nei suoi confronti.
Cosa ci dice tutto questo?
Riuscire a entrare in ciò che completamente non si comprende, in ciò che parla un altro linguaggio, si muove diversamente, ha altri ritmi e capacità espressive è una impresa complessa ma non impossibile, che negli anni è passata dal fornire spiegazioni semplificatrici e generalizzanti della demenza a formulazioni più o meno poetiche e narrative fino a promuovere interventi che, nel mettere al centro la persona, hanno cercato di comprendere più approfonditamente, senza interpretare, l’espressività e la narrazione della persona. Questo è possibile mettendosi in ascolto rispetto alle reali capacità/abilità della persona, conoscere e valorizzare la sua storia pregressa, quindi considerare la persona con demenza e non valutarla, vederla e non analizzarla, valorizzarla e non sminuirla, renderla autonoma anche nelle piccole azioni e non dipendente da noi in ogni cosa.
Nel suo libro hanno un ruolo importante le “parole”, ma non solo perché parliamo di comunicazione ma perché ognuna ha un suo significato e contiene anche un messaggio. Penso al verbo “sapere”- sapere, saper essere, saper fare- concetti che si dovrebbero integrare
Penso alla parola “tempo” che lei richiama. Quasi sempre – anche con ragione- al poco tempo a disposizione è attribuita la responsabilità di una pratica “inidonea”, tralasciando che, alla mancanza di tempo, si può in qualche modo rimediare con un sorriso o una parola gentile specie se vi è necessità di soffermarsi con l’anziano.
Come supplire, fin dove è possibile, i disagi derivanti dalla scarsità di personale o da una non adeguata organizzazione del lavoro?
La relazione è scandita da un ritmo e non da un tempo. Noi potremo avere molto tempo a disposizione e non avere cognizioni di come utilizzarlo. Quando entro nella stanza di una persona o nella sua casa per un servizio di assistenza appena varco la porta inizia la relazione con quella persona. Mentre agisco e non in un tempo diverso. Mentre l’aiuto ad alzarsi, a fare l’igiene, mentre la visito, mentre si realizzano delle attività. Dal momento in cui la saluto fino a quando mi congedo. È nel fare che la relazione, il sostegno e il conforto si esercitano non in un tempo diverso. Mentre sono con la persona sono per la persona e non altrove.
Questo è un testo che non è dedicato solo agli operatori socio assistenziali, ossia agli OSS, ma a tutte le figure socio-sanitarie (medici, infermieri, educatori) e ai caregiver (familiari e non). Quindi questo impegno professionale riguarda chiunque.
Non entro nello specifico delle tecniche che lei spiega nel libro nei diversi contesti, anche perché invitiamo, chi è interessato, a leggere il volume, che affronta le diverse situazioni che si manifestano nelle strutture con un linguaggio molto chiaro, con esempi di facile comprensione e con soluzioni che credo si possano definire non facili, però gestibili dal singolo operatore e dall’equipe.
Quali sono i benefici per gli anziani, gli operatori e i famigliari derivanti dall’adozione (e formazione conseguente) di tecniche di counseling in un servizio di assistenza?
Come avvicinarsi a questa pratica formativa e come aggiornarla?
I benefici riguardano molteplici aspetti: stabilire relazioni interpersonali proficue, raggiungere un maggior benessere emotivo riconoscendo i fattori di stress e prevenendo il burn-out, saper lavorare adeguatamente in equipe, saper gestire la quotidianità domestica con una persona con demenza, ricevere supporto emotivo e strumenti adeguati per gestire le relazioni nei contesti socio-sanitari.
Con il centro studi Erickson abbiamo attivato dei corsi di Tecniche di counseling a cui hanno partecipato operatori e anche familiari. Rivolgendosi a loro si possono avere informazioni dettagliate rispetto alle prossime date.
- Autore/rice Lidia Goldoni
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Paolo Cendon- Professore ordinario di Diritto Privato nell’Università di Trieste-Ha redatto nel 1986 il progetto di legge base per il provvedimento sull’Amministrazione di sostegno- Cura la rivista www.personaedanno.it - Ha lanciato il progetto "Diritti in movimento" e fondato l'Associazione che lo diffonde- Partecipa al "Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili" insediato presso il Ministero della Giustizia.
Riprendo dall’intervista che mi concesse nel 2018 anno in cui lanciò il suo Progetto “Diritti in movimento” a difesa dei più fragili, dando vita ad una specifica associazione, distribuita in tutte le regioni. In mezzo c’è stato la pandemia che - come sostengono molti - è diventata oggi una sindemia, perché investe e colpisce non solo le singole persone, ma incide con un’interazione sempre più in profondità tra patologia, cause sociali e politiche pubbliche, stravolge tutto il sistema sociale, economico e gestionale di un paese e della sua popolazione. I fragili diventano più fragili ed esposti e le loro condizioni non sempre sono all’attenzione di chi gestisce la “cosa pubblica”. Ci può illustrare brevemente l’attività svolta in questi tre anni, le proposte maturate, pur nelle limitazioni date dal contesto epidemico?
Si è cercato in questo periodo di:
♦ 1 - Analizzare/comparare le funzioni che diritto pubblico e diritto privato sono chiamati a svolgere, rispettivamente, in ambito ‘’debolologico’’: (a) il primo quale corpus normativo che obbedisce, dall’alto, ai motivi della grande civiltà/solidarietà istituzionale, che guarda alle voci ufficiali del sistema sanitario, agli accompagnamenti per chi non ce la fa, all’accessibilità, ai supporti domiciliari, al trasporto dei bisognosi, (b) il secondo quale comparto che, attento ai rapporti paritari, affronta ogni questione nell’ottica dei diritti e obblighi intersoggettivi, pensando ai rimedi attivabili contro torti e soprusi, concentrato via via su partner e avversari di pari grado formale.
♦ 2 - Inventariare le neo-prerogative della persona, grandi e piccole, quali sono venute sbocciando in questi decenni, con l’avvento di leggi di riforma, in forza di svolte importanti nelle Corti, grazie all’ampliarsi della Giurisdizione volontaria: diritto al sostegno, ad esempio, diritto a non soffrire, al rispetto del proprio orientamento sessuale, al supporto scolastico, a trattamenti civili e decorosi prima della morte; diritto all’altrui comprensione e tolleranza riguardo alle proprie singolarità idiosincratiche, alle migliori premure nell’accudimento, a una gentilezza di linguaggio ambientale; al garbo nei contatti fisici, alla compagnia del proprio cane e gatto.
♦ 3 - Censire altresì i ‘’micro-diritti relazionali’’ degli esseri meno forti, quali diffusi nelle istituzioni come anche in solitudine: diritto a non vedersi dare del tu, ruvidamente, in una casa di riposo oppure in ospedale o in un Sert, diritto a non mangiare certe pietanze, troppo rustiche, a ricevere fuori orario parenti che abitano lontano; diritto alla cura della persona sul piano estetico, a venir aiutati dagli operatori a mostrare un bell’aspetto, a serbare un corpo snello, flessuoso; dentro e fuori casa, capelli ben pettinati, odore di lavanda, passamanerie ottocentesche, biancheria in ordine.
♦ 4 - Rifinire il progetto Cendon-Rossi-Franceschini di modifica del codice civile, quale presentato in Senato a più riprese, nell’ultimo quindicennio, e volto all’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione, al suggello circa l’applicabilità dell’AdS anche ai momenti personali e familiari (separazione coniugale, divorzio, riconoscimento del figlio naturale, scelte residenziali, testamento, donazione), teso a sancire la superfluità della difesa tecnica nel procedimento di AdS (salvo quando sia in gioco la compressione di diritti fondamentali); nonché mirante alla reintroduzione, entro l’art. 404 c.c., del primo comma della l. 6/2004, circa la necessità di comprimere al minimo la sovranità degli esseri fragili, nel presidiarli legalmente.
♦ 5 - Immaginare (al posto del fedecommesso, avviato a scomparire con la sparizione dell’interdizione) un neo-modello civilistico di ‘’patrimonio a vantaggio dei meno fortunati’’: una sorta di Trust riveduto e corretto, in cui ai familiari del beneficiario verrà data la possibilità di costituire un fondo apposito, gestito da un affidatario, nell’esclusivo interesse della persona in difficoltà, al fine di garantire per il futuro il mantenimento, la formazione, l’assistenza, la partecipazione sociale della stessa.
♦ 6 - Precisare, nella neo-versione del Progetto di cui sopra, le linee generali del ‘’patto di rifioritura’’: strumento che si pone come un accordo in materia sanitaria, stipulato fra giudice tutelare e individuo ‘’fragile a rischio’’ (anoressie, tossico e ludo-dipendenze, alcolismo, succubanze affettive, hikikomori, etc.), onde favorire l’uscita dell’interessato dal tunnel della dipendenza/sottomissione (è stato inserito in quest’ottica, nell’art. 411 c.c., un comma volto a disciplinare l’intervento sostitutivo/esclusivo dell’AdS, nonché l’autorizzazione del giudice, nel senso della necessità di: accertare ogni volta che l’eventuale dissenso dell’interessato, rispetto al trattamento ritemprante/salvifico, sia diretta conseguenza della sua condizione patologica, tale da eliminare ogni consapevolezza riguardo a tale condizione; procedere solo allorché risulti che la rinuncia a quell’intervento pregiudicherebbe gravemente la salute dell’interessato, e/o insidierebbe il benessere dei familiari; verificare che il percorso da iniziare non calpesti le garanzie di cui agli artt. 13 e 32 Cost.; sorvegliare che magistrato e AdS non sacrifichino irragionevolmente i bisogni e i valori profondi del beneficiario; coinvolgere quest’ultimo nella pianificazione e aggiornamento dei momenti terapeutici, trattamentali e di assistenza).
♦ 7 - Collaborare all’ideazione e al funzionamento del ‘’Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili’’, organismo insediato presso il Ministero della Giustizia da un paio d’anni, composto da membri di varia provenienza: obiettivo del Tavolo essendo quello di rivedere/migliorare la disciplina oggi vigente in punto di fragilità, specie sotto l’angolatura civilistica.
♦ 8 - Approfondire i nessi fra le aree della ‘’fragilità’’ e della ‘’disabilità’’; due universi in parte sovrapponibili antropologicamente, mai del tutto coincidenti. Ci sono fragili i quali non accusano disabilità in senso stretto (malati, anziani, alcolisti, disturbati alimentari) e creature svantaggiate la cui labilità civilistica, per converso, appare modesta o inesistente (persone in carrozzina, con le stampelle, ipovedenti addestrati, portatori di sindromi psichiche leggere). Nella disabilità si guarda essenzialmente a un fare empirico, di tipo materiale, complicato per quella creatura, stanti gli ostacoli biologico/ambientali che essa non riesce a superare da sola: nella fragilità le insufficienze contano quanto alle scelte negoziali da compiere, circa la vita quotidiana, lungo le varie ribalte gestionali della casa, del lavoro, dei contratti, dei risparmi, del tempo libero, etc. Ambiti complementari fra loro, che possono trarre vantaggio a conoscersi, ognuno dei due con qualcosa da insegnare; il vizio sarebbe quello di intervenire sulla prima trama istituzionale (soprattutto amministrativistica come ispirazione), utilizzando le logiche della seconda (essenzialmente privatistica come officina).
♦ 9 - Aggiornare periodicamente il sito https://lineeguida-ammsostegno.it/ (portale aperto a famiglie, utenti, addetti ai lavori, etc.), un manualetto web strutturato lungo una rosa di 300 domande-risposte, di facile consultazione, da implementare man mano con nuovi capitoli e progressive integrazioni dei testi: il tutto con riguardo ai canoni via via da seguire, tecnicamente, ad opera di giudici tutelari, cancellieri, amministratori di sostegno, beneficiari, Servizi sociali, etc., nel governo capillare dell’AdS.
♦ 10 - Mettere a punto presso l’editore Corsiero una nuova collana di libri, intitolata ‘’Fragilità’’, volta a ospitare saggi di breve respiro, sui temi dei cittadini in difficoltà: sono usciti finora due volumetti, il primo ‘’La cordata’’, a cura di Luigina Bima, storia di un’associazione di aiuto in quel di Bra, Cuneo, il secondo ‘’Rifiorire’’, di Paolo Cendon, che raccoglie vicende e pensieri di varia natura sulla famiglia, sui danni alla persona, sulla follia, sull’ambiente.
♦ 11 – Immaginare (per la miglior salvaguardia degli italiani in ombra, non abbastanza autonomi) una serie di pratiche felici, di protocolli organizzativi e modalità di scambio professionale, da mettere al centro di possibili Regolamenti o Circolari applicative; testi approvabili a livello di Ministero della Giustizia, senza passaggi parlamentari in senso stretto: materiali idonei ad assicurare apprezzabili livelli di uniformità, nel paese, di maggiore efficienza operativa, riguardo all’applicazione della l. 6/2004.
La povertà e la fragilità possono avere un ulteriore nemico- anche se può sembrare assurdo- nel PNRR e nei progetti e programmi previsti. Dice l’ultimo rapporto del CENSIS che nel 2020- anno di esplosione del COVID 19- due milioni di famiglie italiane vivevano in condizioni di povertà assoluta, il doppio -con una crescita del 104%-rispetto a dieci anni fa.
La crescita del paese e l’utilizzo dei fondi a disposizione sono collegati alla trasformazione digitale del paese e all’adozione delle tecnologie più avanzate: dalle pratiche mediche alla formazione scolastica, dall’accesso ai posti di lavoro alla fruizione degli strumenti digitali. Diseguaglianze, emarginazioni e esclusioni sono un pericolo reale.
Quali le misure anche sul piano dei diritti e delle loro tutele avete proposto anche per sostenere la figura dell’Amministratore di sostegno di cui Lei nel 2004 è stato promotore e sostenitore?
In parte credo di aver risposto sopra.
Mancano - nelle indicazioni del nostro gruppo di lavoro - riferimenti specifici circa il settore digitale. Sono a mio avviso nodi da sciogliere, volta a volta, secondo certi criteri ispiratori a monte (libertà, protezione, non abbandono, responsabilità).
Ho letto ad esempio, nel progetto Cartabia di riforma del processo civile, che per il futuro l’audizione del beneficiando - da parte del GT - potrebbe avvenire da remoto, in mancanza di meglio. Direi: se non si può proprio immaginare altro, meglio questa via d’uscita (con un beneficiando senza mascherina …) che non soluzioni al ribasso; tanto più se si riuscisse ad assicurare al Giudice, tramite i Servizi socio-sanitari, le informazioni di contorno che soltanto una visita domiciliare può garantire (circa la famiglia dell’assistito, l’abitazione, l’igiene, lo sfondo ambientale, etc.).
E se avessimo però nei Tribunali qualche giudice in più?
I temi della privacy restano certo basilari per il diritto: le informazioni chiave vanno riservate, ecco il principio, ai soli titolari legittimi, ognuno deve poter padroneggiare la propria immagine, difendere i suoi poteri e segreti.
Osserverei allora:
# - Qualora le norme regolanti il futuro economico/tecnologico (delle persone) siano tali da minacciare l’equilibrio esistenziale, per chi è fragile, occorrerà (a) modificarle nell’impianto disciplinare e (b) sorvegliarle nell’applicazione quotidiana. Ove si tratti di pericoli collegati a qualche dichiarazione di volontà, da parte dell’interessato, oppure connessi a istanze formali da promuovere contro gli usurpatori, occorrerà che la risposta si avvalga – dinanzi a cittadini non in grado di difendersi - dell’amministrazione di sostegno.
# - L’indigenza economica non rientra tra gli elementi menzionati, specificamente, dal legislatore del 2004. Si tratta di un quid che potrà spesso favorire momenti di inadeguatezza, anche sotto il profilo civilistico: giustificando così l’intervento dei Servizi e del Giudice tutelare. Volta a volta bisognerà accertare sino a che punto l’interessato, onde prevenire negligenze/passività, possa far leva su una procura volontaria, da lui conferita a familiari o a soggetti di fiducia, in grado di difenderlo.
# - Qualcosa del genere vale anche per i deficit di ordine tecnologico. Conosco un famoso scrittore - tutt’oggi attivo sul piano creativo-letterario - il quale nemmeno possiede un computer, stenta a manovrare il cellulare, confonde la lavatrice con la lavapiatti; che non è soggetto tuttavia all’amministrazione di sostegno; che profitta largamente, per sopravvivere, del supporto di amici e colf, a rappresentanze volontarie, a gestioni di affari altrui.
Arriverà probabilmente il tempo in cui l’analfabetismo tecnologico genererà – presso gli italiani meno evoluti - situazioni di precarietà civilistica: nel qual caso vedremo sbocciare sul mercato, verosimilmente, servizi/figure professionali in grado di risolvere le questioni; con un’entrata in campo dell’AdS - opinerei - soltanto in presenza di ulteriori, drammatici, co-fattori di deficit psicofisico.
Parlando di tecnologie avanzate sicuramente uno degli ambiti più in evoluzione riguarda la medicina e la cura. Gli studi e le applicazioni dell’intelligenza artificiale e le strumentazioni in grado di entrare nel profondo del cervello delle persone e leggerne le manifestazioni, le informazioni più recondite, le emozioni ed altro ancora, possono “rubare la privacy” dell’individuo.
Anche in questa fattispecie, se esistono pericoli per chiunque sia sottoposto a queste pratiche, per le persone più deboli e meno preparate, le violazioni possono diventare vere e proprie violazioni della privacy e della libertà di scelta sulle cure da adottare.
Come sarà possibile difendersi e difendere i più “deboli”?
Sono aspetti su cui non ho meditato più di tanto. Direi in via di massima:
● Quelle da porre - quando decidiamo di aiutare un essere fragile - sono anzitutto domande di ordine pratico; a non funzionare di solito, tra le voci in campo, è il fatto che l’interessato non sta conducendo la vita migliore per lui, tenuto conto sia delle sue ‘’necessità oggettive’’, sia dei suoi ‘’desideri bizzarri e profondi’’; si tratterà allora (x) di inventariare i sogni/bisogni hic et nunc calpestati, nel suo caso, ad esempio con riguardo al versante dei sentimenti, della scuola, del lavoro, della creatività e così via, e (y) di intervenire rimodellando tutto quanto lo richieda, eliminando spigoli e lucchetti, secondo le emergenze biologico-economico-affettive del caso.
● Il rischio che si verifichino incomprensioni - nei passaggi del dialogo, del riscontro circa il ‘’chi sei e cosa vuoi’’ - esiste sempre a questo mondo; e, trattandosi di individui fragili, il problema sarà da prendere più seriamente che mai. Penso che il pericolo di saperne troppo poco, circa la creatura da far rifiorire, nasca quasi sempre dal fatto che non si è lavorato abbastanza - a monte - per cogliere/preservare quei filamenti identitari (tutti al mondo parlano). Questioni di ‘’colpa’’ dunque, più che non di dolo; intendendo per colpa gli errori legati all’indifferenza, alla scarsa organizzazione, al disinteresse burocratico. Non si ascolta a sufficienza, non si fa abbastanza. Per questa ragione insistiamo tanto, come Diritti in movimento, sulla strategia dei ‘’Progetti esistenziali di vita’’.
Il titolo “Diritti in movimento” mai è stato attuale come in questa epoca. Il sistema paese, nelle sue articolazioni, è in grado, secondo lei, di garantire il rispetto formale non solo delle leggi fondamentali del nostro ordinamento, ma anche l’integrità, la privacy, la libertà di pensiero e l’identità individuale di ogni cittadino, qualunque sia la sua età, condizione sociale ed economica e capacità cognitiva e intellettiva?
Ricorderei due figure di supporto che abbiamo già tratteggiato, che in qualche parte sono state realizzate, nelle quali spiccano due motivi centrali, per la filosofia dell’attenzione: la valorizzazione delle faville nascoste anche negli esseri più a disagio, l’impegno a non lasciare troppo solo l’apparato giudiziario.
@ - Ecco allora, anzitutto, la proposta di un “Ufficio-sportello triangolare per la fragilità e l’amministrazione di sostegno” (Ustfas), da insediare quanto prima a livello di Comune o di Consorzi di Comuni. Un’agenzia di supporto affidata al coordinamento dall’Assessore alle Politiche Sociali, gestibile eventualmente attraverso un’apposita Fondazione, o Agenzia, sotto il controllo dell’ente locale.
Composta al suo interno da vari soggetti, pubblici e privati: personale del Comune stesso, rappresentanze degli amministratori di sostegno, operatori del Tribunale, enti della Cooperazione sociale, uffici del Dipartimento di salute mentale della A.S.L., espressioni del volontariato, delle famiglie dei malati di mente, del terzo settore, o comunque delle persone anziane, dei portatori di dipendenze, delle persone con disabilità.
”Non vi spiegherò cari utenti come fare le cose, - questo il motto dell’Ustfas, - le faccio io direttamente per voi”.
A monte una legge-quadro nazionale, istitutiva dell’Ufficio-sportello per l’intero paese, seguita da leggi regionali di attuazione. Tre interfacce soggettive di riferimento: (a) cittadinanza, famiglie, persone a rischio nel territorio; (b) ufficio del giudice tutelare, (c) amministratori di sostegno in carica.
Obiettivi di fondo: accogliere, prendere in carico tutti i non autosufficienti, sgravare il magistrato e l’amministratore da una serie di mansioni (meccaniche, burocratiche, computerizzabili); consentendo a entrambi di gestire, al meglio, i rapporti personali con gli assistiti (dialogo, confidenze, passaggi maieutici, rassicurazioni).
@ - Mettere a punto il ‘‘Progetto esistenziale di vita’’: uno strumento a garanzia degli svantaggiati, qualcosa da porre al centro di una legge apposita; un testo che andrà approvato al più presto dal Parlamento.
Ecco in breve i punti chiave. I genitori, una volta intenzionati a dotare il figlio di quello scudo, o in mancanza i Servizi Socio-sanitari, si rivolgono all’apposito Ufficio del Comune. Si attiva così un procedimento teso alla confezione del Progetto: mirante cioè a raccogliere, sotto la regia di un esperto incaricato dal Comune stesso, i dati biografici necessari. Materiali che forniranno il disabile per primo, gli esperti che lo hanno seguito poi, i genitori, i restanti membri della famiglia.
Nessun dettaglio trascurato: abitazione quale e con chi, tipi di film, insofferenze coi negozi, gusti nei vestiti, uso del frigo, hobby, paure, fantasmi. Il tutto convogliato entro un format di una decina di pagine. Documento destinato a essere parte, per un verso, della carta di identità della persona; da trasfondere, per altro verso, nell’apposito registro del Comune: a sua volta in rete con la Banca-dati nazionale dei Progetti esistenziali di vita.
Da allora nessun operatore avrà più facoltà di prendere decisioni, sul conto di quella persona, qualora ignori o non assecondi il Progetto esistenziale di vita. Consultazione scrupolosa, al microscopio, specie dopo che i genitori sono mancati. E ogni scelta difforme dal Progetto - riguardante il cibo, il tragitto della carrozzina nelle passeggiate, la presenza nei social, il colore delle tende - sarà impugnabile in via automatica.
Il testo andrà aggiornato all’occorrenza; un organo apposito in Municipio vigilerà su quel fragile, minuziosamente: verificando che tutto funzioni al meglio, mese per mese.
L’ultima domanda interroga lo studioso, ma anche la persona. Quali sono le sue previsioni per il futuro, in Italia e nel mondo, nel campo dei diritti? Qualcuno sostiene che ci vorrebbe meno democrazia. Non è che invece ci vorrebbe più partecipazione?
Penso proprio di sì anche più ‘’cuore e intelligenza’’ magari, il che significherà ad esempio:
Pietismo no - No approcci paternalistici nel 2022, verso chi è sfortunato, mai frasi commosse dall’alto, quand’anche in sé edificanti: ‘’Poveretto, ti è andata male, pazienza, farai intanto un fioretto alla Madonna”. La pietà di regime serve poco, può offendere chi è orgoglioso, ferisce pure chi non se ne accorge; viva i riscontri paritari invece, lo sguardo ad altezza uomo, i punti fermi nell’agenda. “Non è il fiore a mancare in chi è a disagio; qualche petalo e basta, momentaneamente appassito”. Sono come tutti quanti, gli individui non autonomi: si alzano la mattina e cominciano a prefigurarsi incontri, a fare programmi, “Comprerei quella scodella blu, oggi, telefonerò a Cecilia, mangio il passato di piselli”.
Mitezza sì - Mai interdire le persone in coma, né quelle in stato vegetativo. La condizione di buio naturale basterà a sventare qui insidie mercantilistiche: sub specie di disguidi via web, di malintesi per telefono o dal vivo, con o senza l’inganno di terzi. Eluana Englaro andava anch’essa disinterdetta, sin dal marzo 2004, e protetta di lì in avanti con l’amministrazione di sostegno.
Mai infierire con lacci e divieti formali, sui beneficiari inconsapevoli; una rappresentanza ‘’semplice’’ appare più che sufficiente per l’AdS. Grottesca l’idea di un magistrato proteso sul giaciglio di un’Eluana 2022: “L’abbiamo disinterdetta, signorina, avrà in futuro un guardiano meno arcigno”. “Non potrà fare grossi acquisti però, neanche sposarsi, disconoscere figli”. “Nessun testamento, proibiti per lei i regali di valore, non potrà adottare un bambino …”.
Diritto dal basso – Sempre più vestiti su misura, nel terzo millennio, per chi è ai margini; crucci e speranze, paura che arrivi una colica, nostalgie, l’attesa che Geltrude chiami dalla Spagna. In calendario la manicure da fare, gli acquisti di canfora, i pagamenti in cartoleria. Mai regole calate dall’alto, sensi unici di marcia; sì invece un assemblaggio ad hoc di poteri/restrizioni, modulato sulla fisionomia di chi ha bisogno. La cartha delle “sue” valenze intime, più liquide; in nessun caso facsimili per il giudice, fotocopie di modelli; prestare orecchio sempre, cercare di comprendere, e soltanto dopo intervenire, a ragion veduta.
Debolezza anagrafica no, indebolimenti mondani sì - Non esistono per il diritto soggetti “deboli intrinsecamente”; tali una volta per sempre; soltanto esseri indeboliti dal mancato apprestamento delle opportune rimozioni, ad opera della p.a., in attesa dell’approdo ai giusti ritmi. Non sarà fragile così, non per forza, il bambino orfano, esposto a insidie circostanti, albino, con ritardi di apprendimento; casomai il minore privo di figure adulte di riferimento, istituzionalizzato sconsideratamente.
Disturbi mentali? Di nuovo a contare sarà il rapporto con le cose, il funzionamento con gli altri.
Indebolito? Ad esempio l’oligofrenico che i familiari sequestrino in casa; quello obeso per pigrizia, con gli occhiali da miope mentre servirebbero da presbite. Sarà meno in scacco il giorno in cui gli operatori avranno rivisto il dosaggio di psicofarmaci; inserendo l’utente in un circuito di relazioni, di agganci, nominandogli un custode, procurandogli una pensione di invalidità.
Empowerment - Non è fragile il giovane o spastico avvolto in coltri idonee a valorizzare, al meglio, quanto il nostro è in grado di compiere. Non la donna incinta, vittima di afflizioni psico-somatiche, che il consultorio sappia guidare sino al momento del parto, con scrupolosità. Né il gay messo in condizione di accompagnarsi a qualcuno, alla luce del sole, di non testimoniare ai processi contro il suo compagno.
Dolore – È una realtà che fa parte dell’universo, la sofferenza, meglio sarebbe se così non fosse. In passato si è spesso guardato al male con spirito di rassegnazione, quasi di gratitudine; come ci fosse qualcosa di nobile, di catartico, nelle fitte e negli spasmi. È sempre più chiaro oggi che così non è. ‘’Qualità della vita’’ è solo un nome per chiamare la vita stessa. Quanto meno dolore ci sia, fra gli uomini, tanto più l’esistere sulla terra diverrà fonte di lieviti, di ossigeno; in ogni evenienza, dal primo all’ultimo giorno.
Nozze speciali - Affetto dalla sindrome di Down Tonio sarebbe intenzionato – ben d’accordo lei - a sposare Carlotta, Down a sua volta. Cresciuti insieme, le famiglie si conoscono, hanno sempre vigilato su quella che era, per anni, una semplice amicizia. I due novizi hanno frequentato buone scuole, vantano un mestiere sicuro, lui magazziniere, lei sarta; tanti li conoscono, non mancherà mai a un metro di distanza un’ala protettiva. Due le coppie ‘’normali’’ sposatesi ultimamente fra i coetanei, perché non anche loro? Carlotta con l’abito bianco che ha già adocchiato, in una boutique del centro; Tonio quel completo grigio perla, nuovo, risvolti lucidi e il cravattino a righe.
Danno psichico - Non è raro che una lesione di tipo mentale sia riconducibile all’illecito di qualcuno, occorrerà un risarcimento allora; esistono vittime potenziali che si trascinano dietro serie ombre, da sempre, creature indifese rispetto a soprusi per altri sopportabili, vanno anch’esse difese, take your plaintiff as you find him: i soldi servono eccome ai danneggiati; certo un’implosione psicotica o anche nevrotica può avere molteplici cause; basterà però, al diritto, che quel fattore abbia svolto un ruolo pregnante nella catena eziologica; in tal caso un ristoro finanziario a chi non è più lo stesso di prima, non potrà negarsi.
Sussidiarietà - Albertino, quarant’anni, qualche ramo storto; vive da solo, gestisce la propria azienda agricola, campa decentemente. Ogni settimana si reca in centro; simpatico, beve a volte, in Comune sanno chi è. Il giudice tutelare ha sentito i Servizi, scoprendo vari dettagli, sulla scuola, i passatempi. Così lo psichiatra tre anni fa: “Leggera sindrome dissociativa, qualche ossessione; ben compensato”. Un infermiere che passa ogni mese a trovarlo: “Non mi preoccuperei più di tanto”. Un vicino di cascina: “Arriva lentamente, con la motocicletta; appena lo sentono, i suoi animali alzano la testa: i due cani scodinzolano, si buttano a correre, le capre lo guardano avvicinarsi, i conigli zampettano, le oche schiamazzano felici”. Il giudice ha deciso di aspettare, per il momento niente amministrazione di sostegno; più in là magari, se sarà necessario.
Logiche generose - Sfortunata Camilla, i disturbi sono cominciati a diciassette anni: ne ha ora venticinque. Grande passione il pianoforte, suonava uno Steinway a coda, poi alle soglie del diploma ha dovuto smettere: è iniziata quella brutta malattia, alle articolazioni. Due anni fa zia Flora è diventata sua amministratrice di sostegno: il male di cui Camilla soffre tocca un po’ anche la testa. Con la musica un rapporto speciale, non sarà così in eterno. Recentemente, girando per Internet, Camilla ha scoperto che c’è in vendita uno Steinway; verticale, proprietà di uno svizzero, diecimila euro: se n’è innamorata, i soldi sul conto ci sarebbero, qualcosa la mamma le aveva lasciato. Cosa fare? Incerta la zia, anche il giudice era combattuto; hanno deciso infine per un sì all’acquisto
Rimedi - Ai congiunti poveri vanno garantiti gli alimenti, chi s’imbatta per strada in un corpo esanime deve prestare soccorso. I migranti non lasciamo che anneghino, certe vaccinazioni è bene siano obbligatorie, le violenze sessuali contro un bambino richiedono pene speciali. Agli scolaretti con disabilità necessitano congrue ore di sostegno, con capaci insegnanti. Se uno commette stalking andrà incontro a un divieto di avvicinamento. La pedopornografia è da combattere in tutte le forme. I mariti che picchiano le mogli vanno messi fuori casa e, quando abbiano espiato le loro colpe, occorre impedire loro di fare ancora i despoti. I cani abbandonati debbono essere portati nel canile municipale, quanto prima, quelli bastonati vanno tolti subito al loro padrone.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Cinque domande a...
Roberto Camarlinghi- Laureato in filosofia all’Università di Cà Foscari di Venezia, è giornalista pubblicista dal 2001. Entrato a far parte della redazione di Animazione Sociale nel 1993, è stato assunto nel 1994 dall’Associazione Gruppo Abele, di cui è socio. Oggi è direttore della rivista. Ha scritto articoli e realizzato interviste con personaggi del nostro tempo, muovendosi ai confini tra saperi e discipline.
“Animazione Sociale”, la rivista per gli operatori sociali edita dal Gruppo Abele, compie cinquant’anni. Li festeggerà in un convegno a Torino in dicembre, dal titolo “Per una Costituente delle parole” (come premessa a una “Costituente del lavoro sociale, del lavoro educativo, di cura” prevista per il prossimo anno).
Alcuni termini nella presentazione del convegno sono centrali, ma anche inusuali per un convegno sul lavoro sociale: “ anima politica” e “parole”, “destini individuali.
Quale il significato che attribuite loro e per quali obiettivi?
Anima politica perché il lavoro sociale, educativo, di cura, è “politico”. Politico nel senso che tratta una materia per sua natura pubblica, non privata né privatizzabile, che sono i diritti delle persone. Tutti i diritti: sia quelli legati alla sfera di cittadinanza (come il diritto alla salute, alla cura, all'abitare, all'istruzione, all'educare, all'assistenza, alle relazioni, ecc.), sia in senso più ampio i diritti umani: perché tante persone destinatarie dei servizi non sono “cittadine” in senso legale. Sono “persone”, con storie di fatica alle spalle, a volte vere e proprie tragedie come nel caso dei migranti che scappano da guerre e miserie. E tanto basta per considerarle titolari di diritti.
In questi anni le professioni sociali, educative, di cura si sono un po' allontanate da questa anima. Hanno prevalso i linguaggi della tecnica, gli specialismi, dimenticando che se i servizi del welfare ci sono e vengono finanziati dalla fiscalità generale, è per una scelta politica. E che se le professioni sociali, educative, di cura sono un bacino occupazionale, è perché la società ritiene che la loro presenza umanizzi la società, renda civile il vivere sociale. Magari – si dirà – il welfare sociale potrebbe essere finanziato di più, e anche le professioni legate alla cura potrebbero essere pagate meglio: ma anche qui si tratta di scelte “politiche”, che dal basso siamo chiamati a sostenere, rendendo maggiormente visibile l'importanza del ruolo che i servizi e i professionisti svolgono.
In questo senso a Torino, nella tre giorni di dicembre (16.17.18, al Cinema Massimo in via Verdi 18) scriveremo insieme un vocabolario “politico” del lavoro di cura. Perché i “destini” non possono mai essere mai solo “individuali”. Noi individui ci associamo in società per trarne e darci aiuto reciproco. E in democrazia, se c'è un diritto che non può mai essere teorizzato, è il diritto all'abbandono. Nessuno può essere abbandonato al proprio destino. Mai.
Per questo oggi è tempo di rilanciare l'anima politica del lavoro sociale, educativo, di cura. Specie in una società ferita da due anni di pandemia.
Perlungavita.it vorrebbe aggiungere un altro “elemento” che ha a che fare con le parole, anche quelle non dette, con l’esperienza di questi ultimi due anni di pandemia, di eventi tragici e dolorosi.
Gli operatori del sociale, quelli che operano nel territorio e nei servizi assistenziali, non sono quasi mai menzionati, non hanno uno spazio adeguato per raccontarsi. Non hanno potuto raccontare che le prestazioni inserite nei piani di assistenza e di cura (accompagnamento, vestizione, igienico/ sanitarie, abbigliamento) non sono solo pratiche di accudimento ma un legame personale di supporto che s’instaura - organizzazione permettendo - tra operatore e persona.
La Costituente delle parole e quella del lavoro sociale riusciranno a dare visibilità, spessore e significato alle figure sociali, che nel corso degli anni hanno perso ruoli e identità?
Oggi serve “riscrivere” un lessico perché spesso le parole, a furia di usarle o non usarle, perdono di forza o vengono “manomesse”, per usare l'espressione dell'ultimo libro di Gianrico Carofiglio. Ma le parole oggi ci servono per dare vita a nuove progettualità di lavoro, per scrivere un nuovo racconto della nostra società. Un racconto che dia visibilità e protagonismo a tutto quel mondo di operatori del sociale che troppe volte rimane sottotraccia.
Nella pandemia si è data giusta enfasi al personale sanitario – medici e infermieri in primis – perché hanno dovuto far fronte a un'emergenza immane e inedita. Si è data meno enfasi al personale sociale, educativo, sociosanitario che, anche nei mesi del lockdown, teneva aperti i “servizi essenziali” per le persone più fragili: dalle comunità terapeutiche ed educative alle residenze per anziani, dai servizi sociali all'assistenza domiciliare. Senza questa presenza operosa, capillare, quotidiana, che ne sarebbe stato delle persone in condizione di fragilità? Una fragilità che peraltro oggi si estende sempre di più, se pensiamo a quante persone anziane vivono sole, in condizioni a volte di abbandono.
Oggi serve una nuova narrazione che restituisca il valore profondo dell'opera di questi professionisti e volontari. Persone che tengono insieme la società, arginano solitudini, tessono legami, umanizzano la società. Zygmunt Bauman, il grande sociologo polacco scomparso alcuni anni fa, ricordava sempre la “data d'inizio della civiltà”: una data che non corrisponde a un anno preciso, ma a un ritrovamento archeologico. Quello dello scheletro di un uomo vissuto chissà quanti millenni fa, morto anziano, ma rottosi una gamba in giovane età. Se quell'uomo non fosse stato aiutato da altri che si sono presi cura di lui – spiegava Bauman – non avrebbe potuto vivere così a lungo. Quell'episodio ci dice allora che la civiltà inizia con un gesto di cura. E la storia della civiltà prosegue, anche a distanza di millenni, grazie ai quotidiani gesti di cura che oggi vengono fatti nei tanti servizi alle persone fragili della nostra società.
La cura è il fondamento della convivenza, la cura è un gesto potente, fondativo della umana convivenza.
Si cita nella presentazione del convegno l’importanza del contesto di vita per i destini individuali. È una condizione che per gli anziani fragili diventa essenziale perché il contesto di vita racconta relazioni e rete di protezione in cui si è inseriti.
Assistenza domiciliare e strutture residenziali sono state di volta in volta presentate come contrapposte e alternative, senza forse considerare che il “contesto di vita” non è solo uno spazio abitato, anche se porta i ricordi di una vita, ma un luogo ove poter ricevere l’aiuto e la protezione necessaria, necessaria e/o continuativa, nei tempi e nei modi adeguati.
Partendo dalle parole, con lo sguardo alla “Costituente del lavoro sociale” sarà possibile costruire una nuova cultura del lavoro sociale e dei suoi strumenti anche organizzativi, che superi l’attuale impostazione ancora legata ad un’idea del lavoro sociale frammentato tra le diverse figure professionali, tra i servizi e gli Enti coinvolti?
L'essere umano è indisgiungibile dal suo contesto di vita. Per le persone anziane questo è particolarmente evidente, perché dal contesto di vita una persona anziana trae le sue memorie, i suoi affetti, la forza per sperare ancora nel futuro. I contesti di vita devono perciò essere contesti vitali, densi di relazioni sociali e affettive. Senza socialità, senza affettività, una persona deperisce, perde slancio vitale. Intorno alla casa delle persone anziane si tratta allora di allestire un sistema di cure che permetta loro di vivere al domicilio il più a lungo possibile.
Certamente intorno all'abitare degli anziani si gioca una delle sfide più grandi dei prossimi anni, in una società che ha indici di invecchiamento preoccupanti. L'Istat ci informa infatti come sia in costante aumento l'indice di vecchiaia, che ha raggiunto quota 179,3 anziani ogni cento giovani. L'Italia è uno dei Paesi più vecchi dell'Ue, dove la vecchiaia si associa spesso alla solitudine. Tra gli over 75 la percentuale di persone che vivono sole è intorno al 40% ed è drammaticamente alta la percentuale di coloro che non hanno parenti né amici cui riferirsi in caso di bisogno (è sempre l'Istat a segnalarcelo).
È evidente che se – come ci ricordano Diego De Leo e Marco Trabucchi in un volume di cui consiglio la lettura, Io sono la solitudine – “il problema principale della persona anziana è la perdita di senso nella propria vita”, si tratta di re-immaginare il sistema delle cure, certo, ma più radicalmente i modelli abitativi e di vita nei quartieri e nei paesi.
Chiediamoci: è possibile pensare e costruire modelli di casa maggiormente comunitari? È possibile pensare e progettare città dove le solitudini siano ridotte al minimo? Sono belle sfide, che merita giocare. Sfide politiche, non tecniche. Perché riguardano la finalità stessa del lavoro di cura, che non è mai solo offrire una prestazione, pur tecnicamente ineccepibile, ma è consentire a chi è in una condizione di fragilità di non subire una sofferenza aggiuntiva da parte di modelli di cura che non tengono conto delle soggettività.
Sempre nel libro di De Leo e Trabucchi compare una frase che mi ha molto colpito: “La vecchiaia non può essere il mestiere di morire”. Allora su questo versante si tratta oggi di sviluppare un pensiero forte. E gli stessi operatori sociali, sociosanitari e sanitari che vivono a contatto con le fragilità e le solitudini delle persone hanno molto sapere da mettere in gioco. Qui sta la funzione “politica” (non solamente tecnica) del loro lavoro, per tornare alla domanda iniziale.
Consultando edizioni passate e recenti di “Animazione Sociale” si ritrovano alcuni concetti che oggi sono ripresi: come stare vicino e individuare gli anziani fragili invisibili, il lavoro di comunità, la necessità di dotare il lavoro sociale di strumenti di valutazione del proprio operato.
Quale sarà il percorso che da questo Convegno porterà alla “Costituente del lavoro sociale, educativo, di cura?
Oggi crediamo che la “comunità” sia l'orizzonte di senso entro cui muoversi.
Dopo la pandemia tutti raccomandano le relazioni comunitarie, la medicina di territorio. Tornano con forza concetti come sviluppo di comunità, animazione locale, lavoro di rete. Lo stesso volontariato, la stessa cooperazione, lo stesso welfare diventano sempre più “di comunità”.
L'orizzonte della comunità – possiamo dire – è l'eredità buona della pandemia. “Nessuno si salva da solo”, tutti siamo interdipendenti, ognuno di noi ha bisogno dell'aiuto dell'altro. Quando sui territori si è abbattuta la pandemia, nel marzo 2020, abbiamo visto quanto la resilienza di soggetti, famiglie e territori sia stata legata proprio al “capitale sociale” presente nei diversi contesti. Il capitale sociale sono le relazioni di un territorio, la qualità delle sue reti, il livello di fiducia in esso circolante.
In quei giorni abbiamo potuto restare chiusi in casa con una certa “fiducia” perché sapevamo che fuori c'era una “regia collettiva” all'opera. Lì abbiamo tutti capito quanto sia importante avere mappe aggiornate delle fragilità di un territorio, per poter portare l'aiuto là dove emerge il bisogno. Abbiamo capito quanto sia cruciale avere mappe delle risorse di un territorio, perché quando scatta l'emergenza bisogna sapere a chi chiedere, chi può dare, chi ha le competenze.
Tutti noi, a partire dagli operatori sociali, custodiamo la lezione di quei giorni in cui ci siamo sentiti, forse per la prima volta, “comunità di destino”. Ora è passata l'emergenza e il rischio che si torni alle vecchie routine si fa concreto. Per questo serve ora un sovrappiù di pensiero e di memoria. Dobbiamo ritornare col pensiero a quei giorni, ricordare i nostri timori, le nostre speranze, rivivere le emozioni di quelle settimane buie in cui, se intravedevamo una luce, era la luce che veniva dalla solidarietà reciproca.
Allora oggi si tratta di uscire dai propri uffici e dai propri ambulatori, e prendersi cura delle relazioni e delle connessioni nei territori. Perché il capitale sociale si alimenta in tempo di “pace”, perché poi in tempo di “guerra” (fuor di metafora, in tempo di emergenza) non ci sarà il tempo per costruirlo e ci sarà invece urgenza di attingervi.
Per questo la parola chiave diventa oggi “comunità”. Dobbiamo trasformare i territori in comunità. Dobbiamo passare dai luoghi di cura alla cura dei luoghi. Dobbiamo aprire porte e finestre dei nostri ambulatori, delle nostre strutture residenziali, delle nostre comunità terapeutiche ed educative, dei nostri centri diurni e cercare con tenacia una “connessione di qualità” con i territori.
Dobbiamo pensarci anche oggi, e per il futuro, comunità di destino. Rompere l'individualismo che è una logica perdente non solo dal punto di vista etico, ma anche pragmatico. Perché da soli possiamo fare ben poco, da soli siamo impotenti davanti a problemi che chiedono il contributo di più saperi, di più sensibilità, di più forze.
Da questo punto di vista la pandemia può produrre, come controfinalità insperata, una diffusione di comportamenti di solidarietà reciproca, di attenzione al destino degli altri. Ci siamo sentiti tutti fragili in quei mesi di incertezza. Una incertezza che non si è oggi diradata, anzi. Negli ultimi vent'anni abbiamo subito tre shock globali: l'11 settembre con i conflitti mondiali che ne sono conseguiti, la crisi finanziaria del 2007-2008 divenuta poi crisi economica e sociale, infine il Covid-19. Una accelerazione degli elementi di incertezza e insicurezza terrificante, che porta a definire la nostra società “società del rischio”.
È utopistico pensare che il lavoro sociale oltre che nuove parole che possano sollecitare una nuova visione e cultura dell’agire e una proposta “politica” forte possa acquisire un’identità riconosciuta come indispensabile nella crescita democratica del paese in tema di diritti, di lotta alle diseguaglianze, di tutela dei soggetti fragili, ma anche di riferimento certo per tutti, al momento del bisogno?
Il lavoro sociale è figlio del progetto della Costituzione. In un certo senso si incarica di tradurlo quotidianamente. Non ci può essere democrazia senza il coinvolgimento e la partecipazione delle persone. Né ci può essere democrazia dove i diritti sono negati, calpestati, mortificati.
Oggi sappiamo quanto le disuguaglianze crescano nella società. Se si entra in una qualunque libreria, la mole di volumi dedicati allo stato di crisi in cui versa la nostra società occupa interi scaffali. L'analisi è ampia e documentata, sul piano delle azioni si tratta invece di fare di più. Per questa ragione chi già oggi è impegnato nel contrasto alle povertà e alle disuguaglianze – penso in particolare agli operatori del sociale – deve far sentire di più la propria voce. Non soltanto impegnarsi nel quotidiano lavoro, ma prendere maggiormente parola.
Le parole possono sembrarci poca cosa, ma sono la nostra forza, se associata alla testimonianza delle pratiche. Gli operatori del sociale hanno veramente tanto sapere da mettere in gioco per la costruzione e la rigenerazione dei tessuti democratici. Come un tempo si diceva che tante fabbriche non sarebbero fallite se avessero dato più ascolto al sapere degli operai, così oggi possiamo dire lo stesso per il destino della nostra convivenza democratica.
La democrazia, per avere un futuro, non può fare a meno della voce di chi ogni giorno lavora per ricucire strappi nei tessuti sociali, per restituire dignità a soggettività ferite. Ma d'altro lato occorre che tutti noi, operatori del sociale, ci autorizziamo di più a far valere il nostro sapere. Che è un sapere fine, sofisticato, profondo, perché costruito nelle esperienze di lavoro quotidiane, in un circolo virtuoso tra le teorie e i riscontri delle pratiche.
Da questo punto di vista possiamo dir che gli operatori “sociali” sono operatori “culturali” perché ciò che fanno nel quotidiano rigenera una cultura del vivere e del convivere. Si tratta ora di diventare maggiormente operatori “politici” nel senso che la sfida è delineare assetti di convivenza più sostenibili, giusti e inclusivi. Sappiamo che arriveranno molte risorse nei prossimi mesi. È importante che siano ben utilizzate. Perché il treno che passerà sarà un treno decisivo per il futuro della società e dei diritti che la rendono umana e coesa. Dovremo esserci con tutta la nostra intelligenza e la nostra coerenza di cittadini e di professionisti.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Cinque domande a...
Antonella Santuccione Chadha - Medico, patologo clinico con profonda conoscenza delle neuroscienze e delle malattie del cervello e della mente.
È co-fondatrice con Maria Teresa Ferretti dell'organizzazione non-profit "Women's Brain Project" che si occupa dell'influenza che il nostro DNA e i ruoli di genere assunti all’interno della nostra società possono avere sulle malattie del cervello e della mente
Maria Teresa Ferretti - Laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche è una neuroscienziata.
Ha svolto ricerche e studi in Università in Inghilterra, Svizzera e Canada. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Farmacologia e Terapia Farmacologica all’Università McGill di Montreal. Esperta in Alzheimer e medicina di genere, studia in particolare la connessione tra il cervello e il sistema immunitario.
Parto per questo colloquio dalla vostra penultima pubblicazione “ Una bambina senza testa” presentato nell’aggiornamento di Perlungavita.it di settembre, mese dedicato alla lotta all’Alzheimer.
In quella presentazione richiamavo sinteticamente l’organizzazione non-profit “Women’s Brain Project”, di cui lei e l’altra autrice del libro Maria Teresa Ferretti siete cofondatrici, che interpreto come manifestazione di un interesse professionale sollecitato da una sensibilità personale per una ricerca, finalizzata ad obiettivi specifici. Con altre scienziate coinvolte già siete impegnate in istituti ed equipe scientifiche ma nel WBP aggiungete qualcosa d’altro.
Perché la scelta di fondare questa Associazione e con quali finalità?
Il Women’s Brain Project (WBP) è un’associazione non-profit internazionale che studia i determinanti di sesso e genere in ambito neurologico e di salute mentale. Fondato nel 2016, WBP è composto da un gruppo di scienziati provenienti da diverse discipline - tra cui medicina, neuroscienze, psicologia, farmacologia e comunicazione- che collaborano con caregivers, pazienti e famigliari, policy makers e numerose altre parti interessate. WBP ha come obiettivo quello di capire come i fattori legati al sesso e al genere influenzino il decorso delle patologie, la diagnostica, i farmaci e lo sviluppo di nuove tecnologie, oltre a quello di raggiungere la medicina di precisione, per una sanità sostenibile e inclusiva. Ci stiamo impegnando per la creazione di un Istituto di ricerca finalizzato allo studio delle differenze di sesso e genere per il raggiungimento di una medicina di precisione.
Un tema è spesso al centro dei colloqui nel libro che citavo: le malattie della mente e del cervello- oggi drammaticamente rappresentate dalla demenza nelle varie forme- registrano un ritardo nelle conoscenze sulle prime cause del deterioramento, nello sperimentare medicinali mirati per la cura, nel riformulare protocolli assistenziali per contenere il decadimento che non riproducano le vecchie contenzioni e gli isolamenti. Ritardi e lacune sono poi forse neppure riconosciuti o ammessi se si parla delle differenze tra uomini e donne nelle manifestazioni dei sintomi, nelle risposte ai farmaci, nell’affrontare la malattia. Su Perlungavita.it sono costantemente presenti articoli di denuncia di prescrizioni di farmaci errate e pericolose soprattutto per l’organismo femminile.
È un retaggio culturale che si trascina nei secoli che rallenta l’interesse in questa direzione o possono esserci altre motivazioni per cui le scarse conoscenze in materia non attivano curiosità e progetti specifici?
Noi crediamo che oggi giorno la medicina dispone di mezzi unici quali i big data e l’intelligenza artificiale per migliorare lo stato attuale e con l’obbiettivo di raggiungere una medicina personalizzata e mirata alla comprensione delle caratteristiche di ciascun individuo.
Quando smetteremo di parlare di differenze tra pazienti ed esseri umani e piuttosto studieremo le caratteristiche individuali avremo una medicina precisa ed equa nonché sostenibile. Infatti ridurremo sprechi in termini di ricoveri non necessari a causa di terapie non specifiche, di medicine ritirate dal mercato perché non efficaci o causa di effetti collaterali pericolosi, di mancata aderenza alla terapia perché’ non efficaci.
Ora nei Centri di ricerca e nelle strutture sanitarie la presenza femminile in molti casi sorpassa quella maschile, ma quanto riesce a incidere nella individuazione dei temi da indagare, nella valutazione dei programmi di cura, nell’evidenziare le peculiarità del sesso e del genere (fisiche, psicologiche, neurologiche, mentali) e anche il loro diverso combinarsi e intrecciarsi a fronte degli eventi?
Sappiamo che spesso il pregiudizio è intrinseco in coloro i quali conducono le ricerche scientifiche o la pratica clinica semplicemente perché la tendenza degli esseri umani è quella di focalizzare maggiormente l’attenzione su ciò che più gli è familiare o gli interessa. È necessario perciò una maggiore rappresentazione di scienziate e medici donne in modo tale da affrontare con maggiore interesse gli argomenti al femminile che vadano oltre la “bikini medicine”, ossia le malattie dell’apparato riproduttivo.
La stessa cosa vale per le minoranze quali etnie oppure razze non caucasiche. È necessario avere più scienziati e medici di razza diversa da quella caucasica, ossia europea e bianca.
Nel WBP e in altri scritti e dichiarazioni si indica come metodologia e strumentazione quella adottata con la medicina di precisione. La medicina di precisione, come anche l’Intelligenza artificiale, ti offre dati e conoscenze esatte, ma serve l’apporto “umano”: la competenza e l’impegno del medico, ad esempio per la prescrizione di farmaci, spesso un “buco nero” nel programma di cura, specie per le donne. Pochi i “bugiardini” che presentano i rischi nell’assunzione della sostanza da parte di una donna, ad esempio se in età fertile o in menopausa. Anche nell’affrontare la Pandemia COVID 19 avete denunciato che si è ignorata la diversità di sesso nelle reazioni al contagio e nel formulare i programmi di cura.
Come è scritto nell’ultima pagina del libro noi siamo “singolari e irripetibili”. Quali i possibili percorsi innovativi?
Una medicina personalizzata e cucita su misura. Questa è la medicina del futuro che soppianterà la medicina che si basa sull’approccio del paziente medio e che in realtà non esiste. Nel “real world setting” avremo infatti un paziente che ben differisce dal paziente campione incluso nello studio clinico; avrà infatti spesso delle polimorbilità un peso diverso, un metabolismo diverso ed anche uno stato socioeconomico diverso che avrà una forte influenza sulla responsività ad una data terapia. È su questo che ora anche grazie alla intelligenza artificiale dobbiamo focalizzare i nostri studi.
È una domanda che ha sempre un carattere personale. A vostra scelta rispondere individualmente o formulare una risposta comune.
Cosa e chi nella vostra storia personale (famiglia, studi, incontri specifici etc.) vi ha indirizzato, partendo da studi universitari diversi a trovare un punto comune di interesse nella ricerca sulla medicina di genere per un ambito specifico: cervello e mente; quali gli obiettivi a breve e medio termine per la vostra Fondazione?
Antonella
A me personalmente hanno ispirato le persone, uomini e donne, che ho conosciuto ed incontrato sul mio percorso di medico e che convivevano ogni giorno con la malattia del cervello e della mente. È in loro nome che applico il mio operato ed intelletto, a migliorare lo stato di chi soffre. Anche la mia storia personale narrata nel libro “Una bambina senza testa” e che or diverrà una serie televisiva mi ha insegnato tanto.
Mi inspirano anche gli scienziati che lavorano per il Womens Brain Project: dimostrano una devozione alla tematica da noi analizzata unica ed irripetibile tanto è che per la maggiaranza contribuisce pro-bono. È giunto però il momento di fare della nostra organizzazione una struttura ancora più grande ed organizzata per cui servono ancor più fondi da collocare e supporto dagli investori e donatori
Maria Teresa
Quella che per me è cominciato come un interesse scientifico e di ricerca, confrontandomi con Antonella e i colleghi del WBP è diventata una vera e propria passione, rafforzata dall’incredibile supporto e risposta avuta anche dal grande pubblico. C’è chiaramente un immenso bisogno nell’ambito delle malattie del cervello e della mente, e il WBP si propone di fondare un istituto di ricerca per potere dare più spazio alla ricerca in questo campo. La mia esperienza personale con la medicina di precisione, a seguito di una diagnosi di tumore al seno, mi ha aperto gli occhi sul potere di questo nuovo approccio, dal punto di vista sia del medico che del paziente, e mi ha motivata ancora di più a battermi perché questa sia applicata anche in neurologia e psichiatria. La racconto nel mio tedx:
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Cinque domande a...
Paola Barbarino- Amministratore delegato ADI (Alzheimer's Desease International)
L’Alzheimer’s Disease International (in seguito ADI), associa (nell’ultima ricognizione fatta sul vostro sito) 125 organizzazioni sparse per i cinque continenti. Propone una visione globale, esplicitata nel Piano strategico triennale con tre valori guida: riduzione del rischio, diagnosi tempestiva, cura e inclusione sin dall’inizio.
Il Piano strategico si concentra su cinque obiettivi:
Fare della demenza una priorità sanitaria globale-
Ridurre lo stigma-
Rafforzare l'adesione-Facilitare la ricerca-
Impegno per riuscire a raggiungere i traguardi prefissati.
Si sottolineano i principi per voi fondamentali: ogni persona con demenza ha il diritto a ricevere una diagnosi tempestiva, cure adeguate e supporto che deve estendersi al famigliare che assiste, combattendo ogni forma di stigma e discriminazione, un’assistenza professionale adeguata e un riconoscimento da parte degli Stati che combattere la demenza è una priorità di salute pubblica.
Con la tragica esperienza di questi lunghi mesi di pandemia COVID 19, di lockdown, ma soprattutto di decessi tra gli anziani- e in particolare se residenti in strutture assistenziali- quali elementi sottolineerebbe delle vostre azioni?
Alzheimer’s Disease International was founded in 1984 as the international umbrella organisation of 4 Alzheimers associations aiming to give global voice to the Alzheimers and dementia community at multilateral level (WHO, UN etc), at that time nobody advocated globally for dementia and indeed nobody knew what the prevalence and incidence figures were. As ADI continued to grow from its initial 4 members, it quickly realised that the stigma and discrimination that surrounded dementia would also need to be addressed globally and so it increased its effort to include data gathering, public policy and awareness raising. We have now grown in number to over 125 (full and in-development) members however sadly, after 36 years of advocacy, the inaction by some governments and the prevailing stigma which surround the condition mean our five strategic plan still mirror many of our founding principles. That said, much progress has been made and all over the world and awareness about dementia being a disease is growing. Awareness of care being critical in the treatment process is also steadily growing.
Poignantly, the COVID-19 pandemic has highlighted just how important these founding principles still are in the modern world. Many lives of older people were lost all over the world due to governments ignoring the clear and present danger the virus posed to them in a number of different and chilling ways. An example is the decision to deprioritise treatment for those having COVID-19 with dementia as an underlying condition. Shockingly in Canada, of all COVID-19 deaths in 2020, dementia or Alzheimer’s disease was reported on 36 per cent of death certificates; in Australia dementia constituted 41% of all COVID-19 deaths; 25-33% in the UK. Even in Italy, we observed deaths as high as 20% in some regions. Many governments are still to publish their data, and, more worryingly, many are not capturing this data at all. On top of this, emerging evidence is suggesting that COVID-19 is associated with Long-Term Cognitive Dysfunction and the acceleration of Alzheimer’s symptoms in some individuals.
During initial stages of the pandemic, ADI highlighted the disproportionate impact of COVID-19 on those living with dementia, through a series of blog posts aimed at alerting people of these inequalities, such as the reprioritisation of ventilation equipment and calling on governments to act to rectify them. Subsequently ADI released more blogs providing advice and support to those living with dementia and carers. ADI’s members also engaged in this activity, Huali Wang from Alzheimer’s Disease China held a webinar for all associations, as well as health and care professionals, people affected by dementia and their carers explaining how China had addressed the specific challenges of people living with dementia during the pandemic, offering details, perspectives and advice. ADI has also been advocating at a multilateral level, at the World Health Organisation’s (WHO) World Health Assemblies and regional committees, ADI has been continuing to highlight the dipropionate impact of COVID-19 on those living with dementia and calling on Member States to address it.
Alzheimer's Disease International è stata fondata nel 1984 da 4 organizzazioni nazionali dell’ Alzheimer (Regno Unito, Australia, Canada e Stati Uniti) come organizzazione internazionale con l'obiettivo di dare voce globale alla comunità dell'Alzheimer e della demenza a livello multilaterale (OMS, ONU, ecc.). A quel tempo nessuno sosteneva la demenza a livello globale e nessuno sapeva quali fossero le cifre di prevalenza e incidenza. Mentre ADI continuava a crescere dai suoi 4 membri iniziali, si è rapidamente resa conto che lo stigma e la discriminazione che circondavano la demenza avrebbero dovuto essere affrontati a livello globale e così ha aumentato il suo sforzo per includere la raccolta di dati, la politica pubblica e la sensibilizzazione. Ora siamo cresciuti in numero di oltre 105 membri in altrettante nazioni, ma purtroppo, nonostante 36 anni di impegno, l'inazione di alcuni governi e lo stigma prevalente che circonda la demenza c’è ancora molto da fare. Detto questo, molti progressi sono stati fatti in tutto il mondo e la consapevolezza che la demenza è una malattia che sta crescendo. Anche la consapevolezza che la cura è fondamentale nel processo di trattamento è sempre più diffusa.
In modo significativo e toccante, la pandemia COVID-19 ha evidenziato quanto siano ancora importanti questi principi fondanti nel mondo moderno. Molte vite di persone anziane sono andate perse in tutto il mondo a causa dei governi che hanno ignorato il pericolo chiaro e presente che il virus rappresentava per loro in una serie di modi diversi e agghiaccianti. Un esempio è la decisione di privare di priorità il trattamento per coloro che sono stati contagiati da COVID-19 con la demenza come condizione sottostante. Scioccamente in Canada, di tutti i decessi per COVID-19 nel 2020, la demenza o la malattia di Alzheimer è stata riportata sul 36% dei certificati di morte; in Australia la demenza ha costituito il 41% di tutti i decessi per COVID-19; 25-33% nel Regno Unito. Anche in Italia, abbiamo osservato decessi fino al 20% in alcune regioni. Molti governi non hanno ancora pubblicato i loro dati e, cosa ancora più preoccupante, molti non li raccolgono affatto. Oltre a questo, le prove emergenti suggeriscono che il COVID-19 è associato alla disfunzione cognitiva a lungo termine e all'accelerazione dei sintomi dell'Alzheimer in alcuni individui.
Durante le fasi iniziali della pandemia, ADI ha evidenziato l'impatto sproporzionato di COVID-19 su coloro che vivono con la demenza, attraverso una serie di post sul nostro blog volti a mettere in guardia le persone su queste disuguaglianze, come la ridefinizione delle priorità delle apparecchiature di ventilazione e a chiedere ai governi di agire per porvi rimedio. Successivamente, ADI ha pubblicato altri blog che forniscono consigli e supporto a coloro che vivono con la demenza e a chi li assiste. Anche i membri di ADI si sono impegnati in questa attività, Per esempio Huali Wang di Alzheimer's Disease China tenne un webinar per tutte le associazioni già ad Aprile del 2020 spiegando come la Cina avesse affrontato per prima le sfide specifiche delle persone che vivono con demenza durante la pandemia, offrendo dettagli, prospettive e consigli. ADI ha anche sostenuto la demenza durante il periodo del COVID a livello multilaterale, alle assemblee mondiali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e ai comitati regionali e ha continuato a evidenziare l'impatto disproporzionato che COVID-19 ha avuto su coloro che vivono con la demenza e a chiedere agli Stati membri di affrontarlo, di riconoscere la vulnerabilità della nostra comunità e assegnare la priorità per i vaccini.
Se dovessi riassumere, leggendo le vostre relazioni e le vostre iniziative, il ruolo che ADI assolve parlerei di tre diversi livelli:
a) favorire lo scambio e i contatti tra le diverse associazioni sparse nel mondo,
b) promuovere la ricerca in un contatto continuo con le istituzioni pubbliche e private, no profit o societarie
c) tradurre e diffondere i risultati della ricerca empirica e intellettuale con una diffusione di conoscenze, esempi, azioni e interventi pratici per chi opera sul campo.
Questo ultimo impegno credo abbia un valore aggiunto che permette ai diretti interessati (malati, famigliari, operatori, ricercatori,) la possibilità di sperimentare, arricchire e migliorare esperienze e risultati.
Il vostro rapporto 2020 sulla progettazione “Design, dignità, demenza: design correlato alla demenza e all’ambiente costruito (1) diffonde tre messaggi importanti: l’ambiente con le sue componenti è un primo grado di inclusione, la progettazione di edifici e spazi di vita, deve partire dalle esigenze di chi vi abita; la qualità dell’abitare dei residenti deve influire, incidere e determinare anche gli spazi delle attività di servizio.
Quali sono stati i risultati e i riscontri da voi raccolti dopo la sua pubblicazione?
As a federation of over 125 member associations, ADI continues to strive to build relationships between member organisations from all around the world. We also ami to empow Alzheimer and dementia associations to advocate for dementia as a national priority, to raise awareness and to offer care and support for people with dementia and their care partners. Globally, we strive to focus attention on dementia, maintain it as a global health priority, campaign for better policy from governments and encourage investment and innovation in dementia research.
To aid with our advocacy, each year ADI release the World Alzheimers Month report. The World Alzheimer Reports are a comprehensive source of global socioeconomic information on dementia. Each World Alzheimer Report is on a different topic, so the previous reports remain important sources of information with global relevance. These reports are commissioned by ADI from a range of highly respected international researchers, universities and authors.
The World Alzheimer Report 2020, ‘Design, dignity, dementia: Dementia-related design and the built environment’, is a global perspective of dementia-related design that takes a cross cultural approach, reflects regional and economic differences in low-, middle- and high-income countries, and considers urban versus rural settings. It highlights the role of innovation, entrepreneurship and the importance of aesthetics.
It also looks to benchmark against progress made in the physical disabilities movement and demands the same progress is now made in design solutions for people living with dementia. The report calls for design solutions to be included in national governments’ responses to dementia, including in their national plans, recognising design as a vital, non-pharmacological intervention.
Since its launch during the COVID-19 pandemic, we have advocated for the principles of the report be included in residential care to reduce the risk of COVID-19 disease transmission and/or improve infection control for residents, staff and visitors – where possible without excessive negative impact on other areas of resident wellbeing. In addition to this, we advocated for residential care to be adaptable to rapidly changing levels of threat from coronavirus and/or other future emerging infectious agents in ways which, in every configuration, maintain the opportunities for stimulation through activity and social interaction that are critical to residents’ wellbeing and quality of life.
Moving forward we are also turning our attention to governments national dementia plans calling for the design solutions from the report to be included in national governments’ responses to dementia to ensure those living with dementia experience the best quality of life possible. The decision was also made to present these specific recommendations and design solutions in a manifesto to encourage others to adopt these design principles in their designs. To date the manifesto has been signed by over 300 professionals from all over the world.
Each year, the European Healthcare Design (EHD) Awards aim to recognise and celebrate outstanding excellence in the realm of healthcare design in Europe and around the world across nine different categories. The competition is part of the European Healthcare Design Congress, an annual event organized by Salus Global Knowledge Exchange. On 17 June, the World Alzheimer Report 2020, ‘Design, dignity, dementia: Dementia-related design and the built environment‘, was awarded the European Healthcare Design (EHD) 2021 Award for Outstanding Contribution to Global Knowledge.
Come federazione di oltre 105 associazioni, ADI continua a sforzarsi di costruire relazioni tra le organizzazioni di tutto il mondo. Ci impegniamo anche a dare alle associazioni che intervengono sull’Alzheimer e sulla demenza l’indicazione di sostenere e difendere la demenza come priorità nazionale, di aumentare la consapevolezza e di offrire assistenza e sostegno alle persone con demenza ai familiari e a coloro che li assistono. A livello globale, ci sforziamo di focalizzare l'attenzione sulla demenza, mantenerla come una priorità sanitaria globale, fare una campagna per una migliore politica da parte dei governi e incoraggiare gli investimenti e l'innovazione nella ricerca sulla demenza.
Ogni anno ADI pubblica il Rapporto Mondiale dell'Alzheimer. Il Rapporto Mondiale Alzheimer è una fonte completa di informazioni socioeconomiche globali sulla demenza. Ogni Rapporto Mondiale Alzheimer è su un argomento diverso, quindi i rapporti precedenti rimangono importanti fonti di informazioni con rilevanza globale. Questi rapporti sono commissionati da ADI a una serie di ricercatori, università e autori internazionali di gran rilievo.
Il World Alzheimer Report 2020, "Design, dignità, demenza: Dementia-related design and the built environment", è una prospettiva globale del design legato alla demenza che adotta un approccio interculturale, riflette le differenze regionali ed economiche nei paesi a basso, medio e alto reddito, e considera gli ambienti urbani rispetto a quelli rurali. Evidenzia il ruolo dell'innovazione, dell'imprenditorialità e l'importanza dell'estetica.
Cerca anche di fare un paragone con i progressi fatti nel campo delle disabilità fisiche e chiede che lo stesso progresso sia fatto ora nelle soluzioni di design per le persone che vivono con la demenza. Il rapporto chiede che le soluzioni di design siano incluse nelle risposte dei governi nazionali alla demenza, anche nei loro piani nazionali, riconoscendo il design come un intervento vitale e non farmacologico.
Dal suo lancio durante la pandemia di COVID-19, abbiamo sostenuto l'inclusione dei principi del rapporto nell'assistenza residenziale per ridurre il rischio di trasmissione della malattia COVID-19 e/o migliorare il controllo delle infezioni per i residenti, il personale e i visitatori - dove possibile senza un eccessivo impatto negativo su altre aree del benessere dei residenti. Oltre a questo, abbiamo chiesto che l'assistenza residenziale sia adattabile ai livelli in rapido cambiamento della minaccia del coronavirus e/o di altri futuri agenti infettivi emergenti in modi che, in ogni configurazione, mantengano le opportunità di stimolazione attraverso l'attività e l'interazione sociale che sono fondamentali per il benessere dei residenti e la qualità della vita.
Andando avanti, stiamo anche rivolgendo la nostra attenzione ai piani nazionali di demenza dei governi, chiedendo che le soluzioni progettuali del rapporto siano incluse nelle risposte dei governi nazionali alla demenza per garantire che coloro che vivono con la demenza sperimentino la migliore qualità di vita possibile. Si è anche deciso di presentare queste raccomandazioni specifiche e soluzioni di design in un manifesto per incoraggiare altri ad adottare questi principi di design nei loro progetti. Ad oggi il manifesto è stato firmato da oltre 300 professionisti di tutto il mondo.
Ogni anno, gli European Healthcare Design (EHD) Awards mirano a riconoscere e celebrare l'eccellenza nel campo del design sanitario in Europa e nel mondo attraverso nove diverse categorie. Il concorso fa parte dell'European Healthcare Design Congress, un evento annuale organizzato da Salus Global Knowledge Exchange. Il 17 giugno, il World Alzheimer Report 2020, "Design, dignità, demenza: Dementia-related design and the built environment', ha ricevuto il premio European Healthcare Design (EHD) 2021 per l'eccezionale contributo alla conoscenza globale.
Il rapporto 2021, che sarà presentato a settembre, ha un titolo significativo “Viaggio verso una diagnosi di demenza”, della cui presentazione è stata incaricata la McGill University di Montreal in Canada. Chiunque in qualsiasi veste si confronti con la demenza (paziente, famigliare in primis, ma anche gli stessi operatori) sa quanto sia difficile ricevere/ formulare una diagnosi in merito e soprattutto poterla associare ad una cura che possa assicurare il massimo dei risultati possibili. Si sa che una diagnosi accurata, ma anche tempestiva, è il primo strumento di cura e per questo non potrà mai essere generica.
Un aspetto ancora trascurato riguarda l’attenzione alla medicina di genere. Recenti studi pubblicati in Svizzera proprio sulle demenze, sottolineano le diverse manifestazioni della demenza nelle donne e negli uomini da cui l’esigenza di piani di cura personalizzati. Può anticiparci se questa differenza è stata esaminata nel Rapporto?
The World Alzheimer Report 2021 will focus on the crucial and timely subject of diagnosis and will be launched on World Alzheimer’s Day on the 21st of September. Diagnosis is still a major challenge globally, with estimates that as many as 90% of cases in LMICs and 60% in HICs still go undiagnosed. We are at a pivotal moment with an evolution in diagnostics and potential treatment breakthroughs. The report includes over 50 essays from leading experts around the world and is supported by findings from 3 key global surveys, including: 1,111 clinicians, 2,325 people with dementia and carers, and over 100 national Alzheimer and dementia associations.
In addition to many other important areas, Gender is explored in the World Alzheimer’s Report 2021, through a chapter on ‘Sex, gender and cultural factors’. Similar to the findings from Switzerland, evidence suggests that minority groups and women are not being diagnosed with dementia in as timely a manner as others, and that precision medicine with inclusion of sex and gender factors will optimise not only the diagnostic pathway but also patient experience. The World Alzheimer Report will also contain an expert essay from the Women Brain Project in Switzerland, Biogen, University of Lucerne, Motol University Hospital, Eli Lily and the Sorbonne University titled ‘Optimal Alzheimer’s disease detection and diagnosis under the sex and gender lens: a crucial step towards precision neurology’.
Il Rapporto Mondiale Alzheimer 2021 si concentrerà sul tema cruciale e attuale della diagnosi e sarà lanciato nella Giornata Mondiale dell'Alzheimer il 21 settembre. La diagnosi è ancora una grande sfida a livello globale, con stime secondo cui ben il 90% dei casi nei paesi a basso e medio reddito e il 60% in quelli alto reddito (come l’Italia) ancora non vengono diagnosticati. Siamo in un momento cruciale con un'evoluzione nella diagnostica e potenziali innovazioni di trattamento. Il rapporto include più di 50 saggi di esperti tutto il mondo ed è coadiuvato dai risultati di 3 survey globali a cui hanno preso parte 1.111 clinici, 2.325 persone con demenza e badanti, e oltre 100 associazioni nazionali di Alzheimer e demenza.
Oltre a molte altre aree importanti, il genere è esplorato nel Rapporto Mondiale Alzheimer 2021, attraverso un capitolo su "Sesso, genere e fattori culturali". Simile ai risultati della Svizzera, l'evidenza suggerisce che i gruppi di minoranza e le donne non vengono diagnosticati con demenza in modo tempestivo come gli altri, e che la medicina di precisione con l'inclusione dei fattori di sesso e di genere ottimizzerà non solo il percorso diagnostico ma anche l'esperienza del paziente. Il World Alzheimer Report conterrà anche un saggio di esperti del Women Brain Project in Svizzera, di Biogen, dell'Università di Lucerna, del Motol University Hospital, di Eli Lily e dell'Università della Sorbona intitolato "Individuazione e diagnosi ottimali della malattia di Alzheimer sotto la lente del sesso e del genere: un passo fondamentale verso la neurologia di precisione".
Nel suo ruolo di Amministratore delegato ha certamente un quadro complessivo di come nel mondo è affrontato il tema della demenza nelle sue varie declinazioni: le cure adottate, i servizi a disposizione, l’attenzione alla vita della persona con demenza, il ruolo dei famigliari o di chi comunque presta assistenza. Quale fotografia traccerebbe delle diverse modalità di agire nelle comunità, nei paesi, negli Stati?
We are now beyond the halfway point of the World Health Organization’s (WHO) Global action plan on the public health response to dementia 2017-2025, conceptualised following 10 years of advocacy for a global response to dementia by Alzheimer’s Disease International (ADI) and others worldwide. Each year since its launch, ADI has tracked the progress towards the global implementation of the 7 action areas outlined in the plan through the annual report ‘From Plan to Impact’. This year marks the fourth iteration in the series and unfortunately, demonstrates that there will need to be a monumental effort by Member States if the 2025 deadline is to be achieved. Currently, there are only 43 national dementia plans globally, of which only 35 are in WHO Member States. To reach the original target set out in the plan we will need around 28 new plans every year until 2025.
To achieve the momentum required to obtain the targets set out in the global action plan ADI continues to advocate on a global, regional and local level; a global health crisis requires a truly global response (much as the experience of Covid 19 has thought us), comprised of action at all levels. ADI works with the WHO and other multinational body’s including the G20 and the UN in order to ensure that dementia maintains a multilateral presence, in addition to strengthening regional and national networks, and working closely with Civil Society at all levels.
Maintaining Dementia as a public health priority also requires a local response, which ADI achieves through supporting the work of its 120 national Alzheimer’s or dementia associations from across the world. Every year since 2011, ADI creates, facilitates and supports a global dementia awareness campaign, World Alzheimer’s Month, in line with action area 2 of the WHO global action plan on dementia. During the month, associations, organisations, businesses, the public and other civil society bodies hold events and activities both in person and online in order to raise awareness around a particular theme or pertinent dementia topic. The focus for this year’s World Alzheimer’s Month campaign, similar to the World Alzheimer’s Report is diagnosis, stimulated by recent developments, and potential breakthroughs, in both dementia treatment and diagnostics.
Siamo ormai oltre la metà del piano d'azione globale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla risposta di salute pubblica alla demenza 2017-2025, concepito dopo 10 anni di sostegno per una risposta globale alla demenza da parte di Alzheimer's Disease International (ADI) e altri in tutto il mondo. Ogni anno dal suo lancio, ADI ha monitorato i progressi verso l'attuazione globale delle 7 aree di azione delineate nel piano attraverso il rapporto annuale "From Plan to Impact". Quest'anno segna la quarta iterazione della serie e, purtroppo, dimostra che ci sarà bisogno di uno sforzo monumentale da parte degli Stati membri se si vuole raggiungere la scadenza del 2025. Attualmente, ci sono solo 43 piani nazionali sulla demenza a livello globale, di cui solo 35 negli Stati membri dell'OMS. Per raggiungere l'obiettivo originale stabilito nel piano avremo bisogno di circa 28 nuovi piani ogni anno fino al 2025.
Una crisi sanitaria globale richiede una risposta veramente globale (proprio come l'esperienza di Covid 19 ci ha fatto capire), che comprende l'azione a tutti i livelli. ADI lavora con l'OMS e altri organismi multinazionali tra cui il G20 e l'ONU per garantire che la demenza mantenga una presenza multilaterale, oltre a rafforzare le reti regionali e nazionali, e lavorare a stretto contatto con la società civile a tutti i livelli.
Mantenere la demenza come priorità di salute pubblica richiede anche una risposta locale, che ADI realizza sostenendo il lavoro delle sue 120 associazioni nazionali di Alzheimer o di demenza di tutto il mondo. Ogni anno dal 2011, ADI crea, facilita e sostiene una campagna globale di sensibilizzazione sulla demenza, il Mese Mondiale dell'Alzheimer, in linea con l'area d'azione 2 del piano d'azione globale dell'OMS sulla demenza. Durante il mese, associazioni, organizzazioni, imprese, il pubblico e altri organismi della società civile organizzano eventi e attività sia di persona che online per aumentare la consapevolezza intorno a un tema particolare o un argomento pertinente alla demenza. La campagna di quest'anno, come il World Alzheimer's Report, è sulla diagnosi, stimolata dai recenti sviluppi e dalle potenziali scoperte nel trattamento e nella diagnostica della demenza.
Chiediamo a Paola Barbarino, amministratore delegato di ADI che nella sua carriera ha ricoperto ruoli importanti in associazioni operanti in campi diversi. I suoi studi a Napoli erano orientati alle Lettere classiche e all’Archeologia.
Da cosa nasce la sua scelta di occuparsi di demenza e quali gli insegnamenti che ne ha tratto ed anche le delusioni che non mancano mai in una professione.
Io ho avuto la fortuna di cambiare molte carriere, passando dall’archeologia, alla scienza dell’informazione, l’arte, lo sviluppo internazionale, i beni culturali, finanza, business, l’ambiente e ora la salute. Amo approfondire argomenti che mi interessano e, se posso, portare il mio contributo, specialmente specializzandomi nell’innovazione, la comunicazione e la crescita delle organizzazioni. Quando ADI mi ha contattato per questa posizione mi è sembrata una opportunità incredibile di combinare le mie esperienze di gestione e internazionali in un’organizzazione il cui mandato è complesso e ambizioso considerato tutto quello che non sappiamo su come funziona il cervello e come si sviluppa questa malattia. Ho visto e vedo sempre più amici passare momenti difficilissimi o perché’ colpiti dalla demenza e dall’Alzheimer o perché’ si prendono cura di cari con la malattia. Ogni mattina quando mi sveglio penso che è un altro giorno in cui il contributo di ADI manda avanti un po’ di più la discussione sulla demenza. Alcune delle aree che abbiamo studiato negli ultimi anni hanno davvero aiutato a fare tangibili passi avanti. Le delusioni ci sono, come è ovvio. La demenza è considerata la cenerentola delle malattie. Pur essendo la settima causa di mortalità al mondo è ancora invisibile agli occhi di molti governi, molti ministri della salute mi hanno deluso con la loro sufficienza di avere priorità ben più grandi. Ma questa è una priorità assoluta, a ignorarla non andrà mai via. Il nostro movimento sta crescendo tangibilmente, abbiamo alcuni punti di riferimento chiari. Sappiamo che sta crescendo in maniera esponenziale. Per farcela dobbiamo lavorare tutti insieme e devo dire che la nostra comunità è unita e davvero collaborativa. Sappiamo tutti che questa è una causa essenziale. Ce la faremo, ne sono certa, ma ci vorrà ancora tempo., nonostante la mia impazienza!
(1) Tutti i rapporti annuali sono consultabili al sito https://www.alzint.org/what-we-do/research/world-alzheimer-report/
2) È possibile registrarsi per partecipare al webinar per la presentazione del Rapporo 2021 di ADI a questo link
https://www.alzint.org/news-events/events/world-alzheimer-report-2021-launch-webinar/
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Cinque domande a...
Remo Siza - Collabora con riviste di politiche sociali in Italia e nel Regno Unito. È componente dell’Editorial Board del Journal of International and Comparative Social Policy (Cambridge University Press) e consulente scientifico dell’Osservatorio nazionale e delle politiche sociali. Docente di Politiche sociali e progettazione dei servizi presso l’Università di Sassari.
Il PNRR ( Piano nazionale Resistenza e Resilienza) ha superato il primo esame davanti alla Commissione Europea, come annunciato da Mario Draghi e Ursula von der Leyen. Subito dopo i “falchi” dei paesi Europei hanno richiesto che, per la sua attuazione, l’Italia sia messa sotto sorveglianza.Partiamo da un giudizio generale sulla Missione 5 (Inclusione e coesione) e sulla Missione 6 (Salute): qual è la sua valutazione sui contenuti di questi ambiti e sul percorso/ confronto che li ha definiti ?
Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza prevede massicci investimenti pubblici da realizzare nell’arco temporale di riferimento 2021-2016 con l’obiettivo di modernizzare e rafforzare il potenziale di crescita della società italiana e affrontare alcune storiche criticità: l’assenza di infrastrutture digitali adeguate, la limitata capacità amministrativa della pubblica amministrazione, la concorrenza e le barriere di accesso al mercato.
Il Piano destina molte risorse al sociale, stiamo parlando di quasi 20 miliardi e questo è sicuramente un fatto molto positivo.
Sono evidenti però alcuni aspetti critici L’approccio che permea il Piano fortemente orientato al cambiamento profondo della società italiana e teso a superare arretratezze storiche si ferma alle soglie del sociale. Le notevoli risorse destinate al settore non cambiano le logiche che oramai si sono consolidate in Italia: frammentare le risorse in mille rivoli, aggiungere interventi innovativi lasciando inalterato la struttura delle politiche sociali esistente, avviare interventi sperimentali, di testimonianza e di attenzione senza, a dire il vero, commisurare adeguatamente le dotazioni finanziarie.
L’ambiziosa strategia di riforma che accompagna i primi due assi strategici (la digitalizzazione e la transizione ecologica) si affievolisce notevolmente nell’asse strategico Inclusione soprattutto nella Missione 5 (Componente C2 Infrastrutture Sociali, Famiglie, Comunità e Terzo Settore) e, in termini meno marcati, nella Missione 6 Salute nelle sue due componenti: la componente M6C1 Reti di Prossimità e la seconda componente M6C2 Innovazione, Ricerca e Digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Credo che nella stesura del Piano il ruolo delle varie associazioni sia stato un po' frainteso: si inseriscono nel Piano interventi puntuali che tante associazioni hanno sollecitato da tempo, ma si dimentica il quadro generale che rimane immutato.
Il giudizio condiviso da cittadini, operatori, esperti di varia provenienza ha sempre denunciato la frammentarietà, burocratizzazione e scarsa incidenza dell’attuale sistema nell’apportare benefici alle persone in stato di bisogno, con una logica perversa, anche forse non voluta, per cui più si è fragili, più si moltiplicano le difficoltà a ottenere supporti adeguati e veloci. La strada più praticata rimane sempre quella del ricorso agli interventi monetari.
Questo Piano e quanto scritto nelle Missioni 5 e 6 sono in grado di costruire un diverso sistema di welfare e, in primo luogo, una cultura e una pratica di controllo e valutazione dei risultati ottenuti?
Il Piano sin dalle prime pagine esprime l’esigenza di affermare in Italia il modello di welfare adottato da gran parte delle nazioni europee: il social investment welfare, una configurazione di welfare che investe sulle risorse umane, sulle capacità delle persone, che promuove programmi volti a conciliare i tempi di vita con i tempi di lavoro, a rafforzare i servizi per l’infanzia, a contrastare la trasmissione intergenerazionale delle povertà economica ed educativa. Questo modello privilegia politiche di attivazione finalizzate alla crescita delle persone e delle famiglie, è finalizzato a favorire l’acquisizione di qualifiche e capacità lavorative, alla prevenzione dei rischi connessi ai cambiamenti occupazionali.
Il Piano infatti prevede un incremento degli asili nido e il potenziamento dei servizi educativi dell’infanzia, investe cifre rilevanti sull’istruzione, un rafforzamento delle misure attivanti le capacità delle persone, politiche per i giovani, politiche organiche di contrasto della non autosufficienza e di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare.
Quello che però stupisce è che questo modello di welfare non permei le politiche sociali nel suo complesso, lascia inalterata la struttura di welfare esistente, si aggiunga e rafforzi solo alcuni ambiti di intervento. Nulla di strategico è previsto per il sociale, non sono previste riforme come condizione per l’utilizzo degli ingenti fondi previsti. A differenza, invece, di quanto è previsto per altri ambiti, penso alle previste riforme della pubblica amministrazione, riforma della Giustizia, di semplificazione amministrativa e normativa, di tutela e promozione della concorrenza, riforma fiscale. In realtà, il welfare territoriale non ha bisogno di ulteriori linee di intervento frammentarie, finanziate con risorse non commisurate agli obiettivi stabiliti e da una moltiplicazione di fondi vincolati destinati in modo esclusivo a target circoscritti.
In un modello di investimento sociale, le misure passive di erogazione monetaria sono inserite nell’ambito di progetti di crescita delle persone. In molte nazioni, oramai è consolidata la convinzione che le misure passive sono comunque necessarie e siano il requisito di base di qualsiasi politiche attivanti (formazione, riabilitazione ma anche supporto economico per superare la fase più critica). Comunque devono essere erogate nell’ambito di un progetto che prevede insieme anche interventi attivanti perché nessuna condizione di disabilità o di malattia, di povertà è immodificabile e deve essere solo protetta. Il Piano ha una finalità espansiva e pertanto non intende ridurre le prestazioni monetarie (pensione di invalidità, assegno mensile, indennità di accompagnamento, pensione ai ciechi assoluti, assegno sociale…) ma non promuove condizioni affinché il supporto economico si sviluppi nell’ambito di un progetto di progressiva di crescita delle persone.
In realtà abbiamo bisogno di una strategia ambiziosa che riordini complessivamente la materia così come previsto per la transizione ecologica e quella digitale, che avvii una progressiva ricomposizione in una strategia organica di infiniti interventi settoriali. Ciò che si ripropone a più di 20 anni dalla legge 328/2000 è la costruzione di un sistema integrato di servizi alla persona che individui attraverso norme puntuali soggetti gestionali solidi, ambiti territoriali di riferimento ampi e stabilmente strutturati al fine di affrontare organicamente vecchi e nuovi rischi sociali, per promuovere strategie di prevenzione e azioni collettive.
Nel 2018, ultimo anno disponibile, l’Istat nella sua ricerca annuale ha rilevato che la spesa dei Comuni italiani per i servizi sociali è stata pari a 7 miliardi e 742 milioni di euro. La Corte dei conti rileva che nel 2020 la spesa complessivamente erogata dalle Amministrazioni pubbliche centrali esclusivamente per prestazioni assistenziali in denaro è risultata pari a 67,3 miliardi di euro, con un incremento annuo del 28,4 per cento rispetto al 2019.
L’attuale rete dei servizi con difficoltà potrà svolgere un ruolo centrale nella progettazione e gestione delle ulteriori risorse e aree d’intervento che il Piano attribuisce ai Comuni, collaborare attivamente con il terzo settore per l’attuazione dei previsti investimenti di rigenerazione urbana, volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale, ai Piani integrati urbani, agli interventi per combattere la povertà educativa.
La riforma della normativa sulla disabilità e la riforma del sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti non può essere anche questa volta semplicemente anticipata da interventi specifici come recita il Piano e agganciata soltanto alle risorse finanziarie previste dal Fondo disabilità e non autosufficienza (800 milioni per il triennio 2021-2023.
Ugualmente il Piano non affronta criticità strutturali non secondari del sistema sanitario italiano. Mi riferisco, in particolare, agli effetti che ha avuto la crescente dualizzazione nell’accesso ai servizi sanitari e alla relazione che si intende instaurare fra servizi privati e servizi pubblici. In quest’ultimo decennio la maggioranza delle famiglie ha potuto contare su un sistema pubblico universalistico sempre meno efficiente sia nei servizi territoriali e sia nella rete di ricovero e di cura, e che ha garantito una copertura dei rischi sempre meno estesa. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative soddisfacenti hanno potuto integrare le prestazioni pubbliche con assicurazioni private e con ulteriori benefici, quali il welfare aziendale, derivante dalla loro posizione lavorativa. In questi anni il modello di riferimento delle trasformazioni auspicate da molte forze politiche e sociali è stato quello adottato da anni da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico ha subito di politiche di austerità molte severe mentre il sistema privato è stato favorito con politiche fiscali e condizioni normative favorevoli.
In Italia storicamente fino a qualche anno fa la dualizzazione del welfare riguardava essenzialmente due ambiti d’intervento: la protezione dalla perdita del lavoro e il sistema pensionistico. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, le protezioni sono state sempre molto differenziate tra gli insiders – i dipendenti pubblici, i lavoratori delle grandi imprese ed alcuni settori dell’industria – e gli outsiders – gli occupati in piccole imprese, nel settore edile, nel commercio, una parte considerevole dei lavoratori autonomi - che ricevono misure di sostegno molto basse in caso di disoccupazione. Il sistema pensionistico non ha svolto storicamente una funzione redistributiva e si è limitato a riproporre queste distinzioni differenziando significativamente le prestazioni economiche garantite e avvantaggiando alcune categorie occupazionali.
Ora la dualizzazione è diventata un principio sulla base del quale si riorganizzano tutti gli ambiti di vita (una differenziazione nel sistema dei trasporti dall’alta velocità ai treni dei pendolari, nell’organizzazione degli spazi urbani, nello sviluppo economico di aree territoriali differenti) e si costruisce una società dinamica e moderna, senza alcuna preoccupazione sulle troppo estese disuguaglianze e separazioni che inevitabilmente contribuisce a creare. La dualizzazione sta diventando una regola di vita, un principio ovvio e naturale, che crea una socialità separata non solo in alcuni ambiti, ma coinvolge con naturalità tutte le relazioni sociali, creando collettività profondamente divise (quartieri residenziali, quartieri fortezza; scuole e università, servizi sanitari …).
La dualizzazione ha avuto un impatto molto elevato sul sistema sanitario. Rispetto a questa logica, Il Piano dovrebbe individuare più chiaramente la linea di sviluppo che intende privilegiare. Il Piano si limita a presentare i dati sulla spesa sanitaria out-of-pocket (prestazioni sanitarie direttamente a carico del paziente) pari a 35 miliardi senza prevedere una riduzione tendenziale della sua entità nell’arco temporale di riferimento. La quota dei pagamenti a carico dei pazienti nella spesa sanitaria è passata dal 21 % del 2009 al 23,5 % del 2017, una percentuale nettamente superiore alla media dell’UE, pari al 16 %. Nonostante la copertura completa per le prestazioni sanitarie di base, il 7% degli italiani segnala bisogni sanitari non soddisfatti per motivi di natura economica, geografica (distanze eccessive) o di attesa. Tale percentuale è superiore alla media europea (inferiore al 4 %) e negli ultimi anni ha riportato un aumento, risultando particolarmente elevata nella fascia di reddito più bassa: oltre il 15,0%, contro meno dell’1,5% nella fascia di reddito più elevata.
La spesa privata per la sanità in Italia (comprendente polizze assicurative, pagamenti diretti e partecipazioni ai pazienti) è molto alta, ammonta a circa 35 miliardi di euro. In questi anni la preoccupazione non è stata quella di ridurre la spesa sostenuta autonomamente dalle famiglie, ma di favorire l’intermediazione assicurativa. La quota dei pagamenti a carico dei pazienti nella spesa sanitaria è passata dal 21% del 2009 al 23,5% del 2017, una percentuale nettamente superiore alla media dell’UE, pari al 16%. L'assicurazione sanitaria privata in Italia viene stipulata molto meno frequentemente che in altri paesi europei: è considerata una anomalia nel quadro europeo. In Italia, solo il 15% della spesa privata totale è gestita attraverso fondi assicurativi complementari, contro il 44% in Germania, il 67% in Francia e il 41% nel Regno Unito.
Si aggiunga che, nonostante la copertura completa per le prestazioni sanitarie di base, il 7% degli italiani segnala bisogni sanitari non soddisfatti per motivi di natura economica, geografica o di attesa.
Tale percentuale è superiore alla media europea (inferiore al 4%) e negli ultimi anni ha riportato un aumento, risultando particolarmente elevata nella fascia di reddito più bassa: oltre il 15,0%, contro meno dell’1,5% nella fascia di reddito più elevata. Saranno sufficienti per invertire queste tendenze gli interventi del Piano? Sinceramente mi sembra di no.
La logica che appare dominante nella costruzione delle diverse ipotesi d’intervento “riduce” il raggiungimento dei vari traguardi alla costruzione di luoghi, spazi e sistemi ( ad esempio la digitalizzazione della PA) che dovrebbero in quanto tali avvicinare anche temporalmente i servizi alla popolazione e favorirne l’accesso. Già parlare di riconversione o costruzione di nuovi edifici, apre un tasto doloroso della storia del Paese, perché in troppi casi ha significato scandali, tempi lunghi di realizzazione che nei fatti consegnavano un manufatto non più idoneo.
Si parla di infrastrutture sociali, comunità, terzo settore e formazione del personale per digitalizzare un sistema in cui pochi sono gli operatori formati a leggere i bisogni del cittadino.
L’integrazione socio- sanitaria è frutto solo di manufatti, in genere spazi di recupero, con pochi studi sulla loro idoneità come collocazione logistica, condivisi da diverse professionalità o di programmi condivisi di ricerca, di progettazione e di monitoraggio dei bisogni delle diverse categorie di persone che dovrebbero fruirne a cominciare dagli anziani?
Il Piano riconosce il valore universale della salute, la sua natura di bene pubblico fondamentale e la rilevanza macro-economica dei servizi sanitari pubblici. La Missione 6 Salute dell’asse strategico Inclusione sociale prevede il potenziamento delle strutture e dei servizi sanitari di prossimità e dei servizi domiciliari, l’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero prevede l’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero, il potenziamento della dotazione di posti letto di terapia intensiva e semi-intensiva. L’investimento più consistente è costituito dall’incremento delle prestazioni rese in assistenza domiciliare, dall’attivazione di 381 Ospedali di comunità e 1.288 “Case della Comunità”. L’investimento Casa come primo luogo di cura prevede il potenziamento dell’assistenza domiciliare, l’attivazione di 602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari e sociali assicurando, progetti di telemedicina al fine di promuovere un'ampia gamma di funzionalità (tele-assistenza, tele-consulto, tele-monitoraggio e tele-refertazione) lungo l'intero percorso di prevenzione e cura.
La costruzione di luoghi territoriali può essere rilevante ma se rimane inalterata la strategia sanitaria di quest’ultimo decennio non credo che i cambiamenti possano essere molto ampi. Il Piano non affronta aspetti strutturali non secondari del sistema sanitario italiano. In particolare, è necessario definire il tipo di relazione che si intende stabilire tra pubblico e privato, perché l’equilibrio che si è stabilito in questi ultimi anni non è soddisfacente per le famiglie italiane. Così come è stato stabilito per la riforma della Giustizia e del Fisco bisogna stabilire alcune condizioni strategiche del settore sanitario e sociale.
Il PNRR inverte, almeno in questo stadio, la continua riduzione delle risorse per l’area sociale e sanitaria, anche se sembra aver sposato tesi da molti non condivise come la chiusura delle strutture residenziali alla cui conversione sono dedicati 300 milioni(!!!)
Quali dovrebbero essere secondo lei i punti prioritari su cui confrontarsi, chi dovrebbe essere chiamato a esprimersi, quale il sistema di “governo e di relazioni” da adottare tra i diversi soggetti coinvolti ( Stato, regioni, Asl ecc.)?
Il problema è che Stato, Regione, aziende sanitarie non costituiscono un sistema decisionale coeso, con obiettivi e modalità di intervento condivisi. Il Sistema nazionale è frammentato in ambiti di competenza pressoché esclusivi forzando la normativa esistente. Per questo motivo penso che il Piano dovesse considerare la costruzione di una strategia come condizione per l’avvio di nuovi interventi. Nel settore sociale persistono tre criticità: la frammentazione degli interventi: l’elevata consistenza delle misure monetarie; la frammentazione dei soggetti gestionali. Forse un richiamo alle disposizioni sull'obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali dei Comuni, individuando forme associative adeguate ed evitando ulteriori deroghe alle attuali norme. Per certi versi sembra che la scelta delle misure e degli interventi (i più innovativi, i più avanzati in Europa) sia stata fatta indipendentemente dalle priorità del settore sociale non commisurando adeguatamente le risorse finanziarie e organizzative alla complessità delle problematiche che si intendono affrontare. Molte azioni previste dal Piano sono ampiamente condivisibili, mi riferisco, in particolare, all’housing temporaneo, alla realizzazione di nuove strutture di edilizia pubblica, di rigenerazione urbana. Ma ancora le risorse gestionali rimangono troppo limitate per raggiungere qualche significativo risultato e si aggiungono alla rete esistente.
È sempre più personale. Lei oltre che componente di Comitati scientifici, più volte ha ricoperto incarichi di direzione in Enti pubblici come la Regione Sardegna. Conosce quindi le logiche di funzionamento in un organo amministrativo e politico che deve progettare, gestire e valutare i risultati del proprio lavoro.
Se dovesse occuparsi dell’attuazione del PNRR da dove partirebbe?
Prima di tutto dobbiamo tener conto che un programma d’intervento si avvale di competenze tecniche e di risorse collaborative e di consenso. Per le prime è sufficiente coinvolgere le professioni e le competenze più autorevoli tenendo conto che si tratta di formulare programmi ma soprattutto di attuarli. Per le seconde è necessario avere piena consapevolezza che i cittadini, le associazioni costituiscono una risorsa conoscitiva e una risorsa collaborativa, possono collaborare all’attuazione di una iniziativa oppure ostacolarne costantemente l’attuazione. La ricerca valutativa ci ha proposto una formula molto semplice:
progetto + contesto = risultato
Questo vuol dire che chiaramente dobbiamo lavorare al progetto e che, allo stesso tempo, dobbiamo costruire un contesto che intenda accogliere la sua capacità trasformativa, i suoi obiettivi, che si mobilita per raggiungerli.
Detto questo, le amministrazioni pubbliche si differenziano in relazione ad una di queste nella prospettiva che utilizzano: Top-down, in cui i tecnici predispongono i programmi attuativi e ricercano un consenso formale dei cittadini, Bottom-up in cui i cittadini assumano un ruolo rilevante e influenzano le decisioni tecniche; infine Bottom-only in cui sono i cittadini che per lo più autonomamente propongono progetti che le istituzioni tendenzialmente recepiscono. Secondo me dovremmo adottare un approccio bottom-up basato sulle risorse conoscitive e collaborative di tutti i soggetti. Un livello di conflittualità è inevitabile, ma bisogna in qualche modo conoscerlo, circoscriverlo, e gestirlo adeguatamente. In questo modo interattivo dovremmo costruire la teoria del programma. Come è noto, la teoria del programma non si riferisce alla formulazione rigorosa e sistematica di principi. La teoria del programma è semplicemente la descrizione della catena degli eventi (una istituzione avvia una determinata attività che consente ad un altro soggetto di realizzare un obiettivo, se avvio una determinata azione e ragionevole pensare che posso ridurre l’incidenza di una determinata patologia). Ecco alcune parti del Piano hanno una teoria del programma molto debole: per esempio il Piano stanzia 300 milioni alla conversione delle strutture residenziali. È evidente che considerato il numero di strutture residenziali e i costi di un progetto di conversione, il risultato di questa azione sarà molto al disotto delle nostre attese.