Cara Lidia, grazie per la tua mail, alla quale rispondo con una riflessione generale.
Sono anche andata a leggermi le riflessioni che hanno scaturito la tua lettura del libro della Erickson.
E' da anni che sto cercando di intraprendere qualcosa di vicino all'esperienza estera dei gruppi AMA costituiti direttamente da persone con diagnosi di decadimento cognitivo e non dai familiari.
Il punto prevalente, e dolente, è che, diversamente che altrove, la comunicazione della diagnosi al malato avviene molto raramente, vuoi per l'età avanzata del soggetto, vuoi per specifica interdizione del familiare.
Se tale ostacolo è stato superato per il cancro, grazie alla necessità dell'alleanza terapeutica, per la demenza il problema è che non ci sono attualmente speranze di cure risolutive. Inoltre, la perdita della memoria, costringe qualcuno esterno a verificare che la persona malata assume quel che oggi offre il mercato.
Tornando ai gruppi AMA, quindi, non ho mai avuto l'occasione di incontrare nello stesso periodo di tempo un numero minimo di persone che per età, cultura, e soprattutto motivazione, potesse costituire almeno un mini-gruppo.
Viceversa, ho avuto occasione di accompagnare persone che, casualmente, sapevano di avere l'Alzheimer. Dico casualmente perché si sono trovate di fronte a medici che, a domanda diretta, hanno offerto risposta diretta (e qui si aprirebbe un dibattito infinito sull'arte del "comunicare cattive notizie"). Alcune erano persone giovani (dai 50 ai 60 anni), altre più anziane (in realtà solo una di 81 anni con cui sono tuttora in contatto).
Per tutti la richiesta prevalente era di tipo comportamentale rispetto alla perdita della memoria e la richiesta di aiuto per i congiunti.
Tali persone si sono rivolte a me solo grazie all'esistenza dell'associazione di volontariato con cui per anni ho condotto varie attività direttamente con le persone malate e con i familiari (il testo Intime erranze che ti avevo mandato racconta nel capitolo iniziale la mission del centro).
Il mio lavoro professionale si svolge prevalentemente in case di riposo e centri diurni. Spesso le riflessioni che mi vengono, e che confronto anche con gli educatori, sono legate a fenomeni sporadici, ma che in un certo senso vanno nella direzione del gruppo AMA. Cosa intendo dire con questo? Soprattutto che nei centri diurni specifici per l'alzheimer affluiscono persone con un livello di cognitività sufficiente per affrontare – quando capita l'occasione giusta – il bagaglio emotivo del "coping".
In genere ci si arriva per via traverse. Conduco gruppi in cui presento determinate parole, con l'accompagnamento di fotografie, illustrazioni, che rimandano a stati d'animo e poi seguo i vari interventi. Come ben sai, con questo tipo di malattia non si può pretendere la costruzione di un lungo ragionamento, tuttavia emergono sicuramente pezzi di ricordo autobiografico, emozioni, sostegno vicendevole con frasi che innescano un clima molto potente, anche se di durata effimera. Esistono poi situazioni autogestite, dove la disperazione dell'uno diventa motivo di protezione dell'altro, o dove la rabbia cerca di essere contrastata con affiancamento di gesti specifici e parole consolatorie. Insomma, sono dei contesti in cui occorre effettivamente essere sempre presenti, per poterli cogliere e farli diventare risorsa relazionale.
Resto convinta, comunque, che è impossibile pensare di istituire un gruppo AMA se alla base non c'è consapevolezza di ciò che si ha.
Dalla tua mail mi sembra anche di capire che il tuo interesse volge verso anziani non autosufficienti.
Anche in questo caso personalmente ho belle esperienze del lavoro di gruppo. Stante alla letteratura classica, dubito di poterli definire di mutuo-aiuto, ma se guardo agli effetti ti dirò che poco m'importa che nome dare.
Di fatto, in questi gruppi di una dozzina di persone, convivono persone con gravi problemi di dipendenza fisica e altre con decadimento cognitivo non troppo avanzato. Il tema narrante viene deciso da loro e portato avanti per circa un anno. In genere è sempre basato sulla narrazione autobiografica, mescolata con altri "ingredienti" portati dalle esperienze individuali. Un esempio: una persona con gravi disturbi psichiatrici ha una memoria formidabile di poesie e capacità di costruirne lì per lì di proprie; un'altra il cui mimi mental è 10, scriveva poesie e si attiva con grande piacere quando viene interpellata per fornire singole parole che richiamino una certa immagine; un'altra persona aveva l'hobby della fotografia; un'altra, psicologa e pedagogista, interviene quando c'è qualche intoppo comunicativo-emotivo; un'altra, calabrese, conosce a menadito arti "magiche", superstizioni, antidoti... potrei continuare con le tessitrici, le migranti dal sud. Un bel repertorio che amalgama racconti di cui io diventa "raccoglitrice" e organizzatrice, facendo alle fine dell'anno un piccolo "libretto" in cui vengono raccolte poesie, giochi di parole, favole costruire con la loro fantasia, specifiche memorie autobiografiche.
Gli operatori con cui mi confronto (dai quali era scaturita la richiesta di un mio intervento per problemi relazionali fra alcuni ospiti) riferiscono buoni cambiamenti e, soprattutto, hanno anche loro "materiale" utile per relazionarsi con alcuni, la cui personalità è veramente molto complessa.
Sai, Lidia, credo che come me, siano molte le persone che all'interno delle istituzioni inventino e sperimentino modalità creative e costruttive per rispettare la dignità dell'Altro. E' che, purtroppo, sulla carta vanno in genere i grandi nomi, le grandi teorie, le grandi scoperte (mi astengo dal virgolettare la parola grandi), mentre ciò che osservi su numeri contenuti non viene considerato degno di "evidenza" (lo dico per certo perché alcune volte ho provato a proporre risultati di lavori fatti con persone con demenza, ma ,appunto, 15 persone non costituiscono "materia" sufficiente).
Ti sembrerò polemica, ma a distanza di quasi vent'anni di lavoro quotidiano in questi contesti, ogni volta che mi accingo a letture, convegni, giornate studio, seminari, non sono più così disponibile a lasciarmi incantare dall'ultima scoperta del secolo.
Trovo invece fondamentale curare l'inserimento di personale adeguato in contesti così complessi, soprattutto ora che anche le persone anziane ex-ospedale psichiatrico non vengono più accolte nelle comunità, ma spedite nelle RSA, dove c'è un mondo assolutamente impreparato a gestire tali patologie (e non parlo solo degli operatori di base, ma anche del personale sanitario)
Potrei continuare a lungo, su questo tema, con particolare riferimento pure alle famiglie, alle loro aspettative, alla loro capacità di mettere in pratica quanto acquisito nella formazione.
Come sempre non si può fare di tutta l'erba un fascio, ma ti assicuro che davvero ognuno preso nella sua singolarità è un caso a sé con le sue zone di luce e zone d'ombra.
Auguri per il tuo compito di rabdomante e spero anch'io che l'occasione da te offerta di poter raccontare esperienze nascoste, diventi utile per tutti gli operatori che in questo lavoro davvero ci credono.
A proposito di demenza e partecipazione. Una riflessione di Luciana Quaia
- Autore/rice Luciana Quaia
- Categoria: Note & pensieri