Nicola Martinelli - Assistente sociale e formatore, laureato in programmazione e gestione dei servizi sociali e scienze del servizio sociale, perfezionato in Bioetica presso l’Università degli studi di Padova con un corso di Alta formazione post laurea ed una ricerca sul ruolo dell’assistente sociale nella pianificazione delle cure di fine vita. Gli ambiti di ricerca sono il servizio sociale, la bioetica, il fine vita, la religione. Insegna nei percorsi formativi rivolti al personale di cura e nei corsi di formazione per operatori socio sanitari. Membro della rete nazionale assistenti sociali in cure palliative.
Iniziamo questo colloquio con una premessa e un’osservazione. Quando si parla di cure palliative, di educazione alla morte, di testamento biologico o suicidio assistito, quasi inevitabilmente, il pensiero di tutti va alle equipe mediche, che appaiono avere la parola finale sulle decisioni. Nella realtà gli attori sono tanti: la persona coinvolta ovviamente, la sua rete famigliare e amicale e anche pubblica (il tutore e l’Amministratore di sostegno), gli operatori sanitari in generale e l’assistente sociale. Parliamo di questo operatore, forse un po’ in ombra, del cui ruolo parla nel libro da lei scritto con il suo collega Ugo Albano. (1)
Perché un/un’assistente sociale è o dovrebbe essere sempre presente? Qual è il suo apporto professionale e anche umano, quale la sua funzione? È solo un “buon samaritano” o offre una visione e una conoscenza “altra” della persona coinvolta?
Le condizioni sociali in cui le persone versano influenzano in modo significativo la salute e la malattia. La centratura è sugli aspetti medici, prevalentemente, anche se come dirò più avanti non per tutti i sanitari è così. Le cose stanno cambiando anche all’interno delle stessa scienza medica, la quale si rende sempre più conto che deve integrarsi con i saperi delle altre scienze. La valutazione sociale garantisce l’attribuzione di significato a questa tappa critica della vita, consente di cogliere le fragilità familiari, di non dissociare la persona dal suo contesto familiare, di supportare persona, famiglia e caregiver stimolando resilienza ed empowerment e favorendo l’accesso alla rete dei servizi e alle misure di protezione e tutela. E’ bene ribadire con forza che se si trascurano gli aspetti sociali della malattia tutto il percorso di cura risulta inficiato.
Spesso questa dimensione è completamente sottovalutata dagli stessi assistenti sociali che sovente si sentono degli estranei a queste valutazioni. La stessa legge 38/10 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” all’art. 5 individua le figure professionali necessarie a supportare le persone in questa fase critica della loro vita. Così recita: “….... sono individuate le figure professionali con specifiche competenze ed esperienza nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore, anche per l’età pediatrica, con particolare riferimento ai medici di medicina generale e ai medici specialisti in anestesia e rianimazione, geriatria, medicina di comunità e delle cure primarie, neurologia, oncologia, radioterapia, pediatria, ai medici con esperienza almeno triennale nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore, agli infermieri, agli psicologi e agli ASSISTENTI SOCIALI nonché alle altre figure professionali ritenute essenziali.
La stessa legge 38/10 ritiene che la valutazione debba essere multidimensionale prevedendo quindi all’interno delle equipe gli assistenti sociali. La legge riporta all'interno dell'équipe di cura la dimensione sociale della malattia e della morte, riporta nella medicina la componente sociale all'origine della scienza medica. Il termine medicina contiene al suo interno la radice di derivazione indeuropea MED. Essa rimanda alla capacità di trovare la giusta misura, la via di mezzo tra il curing, attenzione alla malattia e caring, attenzione al malato.
Il dolore, la morte, la perdita, il lutto sono fattori sociali specifici, legati quindi a quella determinata persona, famiglia che sono unici ed inseriti in un determinato contesto di vita e di relazioni. Il morire diventa quindi una questione relazionale e l'accompagnamento nel fine vita una competenza trasversale a più professionalità che devono integrarsi convergendo su obiettivi condivisi e accordando i propri punti di vista professionali. Il contributo del servizio sociale professionale diventa cruciale, la valutazione sociale contribuisce così a garantire continuità assistenziale evitando ospedalizzazioni improprie. Consente di valutare la tenuta del nucleo sul piano organizzativo, economico, emotivo nel decorso della malattia del familiare, monitorando i fattori connessi all’insorgere e cronicizzarsi del dolore nella sua dimensione sociale.
La valutazione e la metodologia che adotta l’assistente sociale- uno dei professionisti dell’aiuto- si traduce nella “diagnosi sociale”. Come si costruisce in queste occasioni questa relazione, con quale approccio e con quali finalità?
La valutazione sociale, detta anche diagnosi sociale, è considerata nel percorso di cura e nel procedimento metodologico dell’assistente sociale una fase determinante. Ogni valutazione professionale come ho già detto è sempre multidimensionale e complessa. La diagnosi sociale è la comprensione e valutazione relativa ad una situazione sociale o una domanda d’aiuto rivolta ad un professionista o ad un servizio da parte di persone, famiglie, gruppi sociali.
Ogni diagnosi sociale è costituita di ricerca ed esplorazione, di ascolto ed attenzione ed è è finalizzata alla costruzione di un progetto di cura. La cura ha a che vedere con la capacità di ascoltare la storia dell’altro, di riconoscere la sua unicità, le priorità della sua vita, di rendere il consenso informato non una mera procedura ma uno spazio di autentico incontro tra persona, operatori della salute, familiari.
In questa prospettiva le professioni d’aiuto sono chiamate a integrare curing, attenzione alla malattia e caring, attenzione al malato. La diagnosi sociale diventa di conseguenza:
- un processo di conoscenza, un percorso dinamico che mette al centro la persona nella sua globalità e con una sua storia personale e familiare da valorizzare;
- compagna di viaggio del professionista dell’aiuto, per conoscere e valutare risorse e vincoli personali e familiari, organizzativi e istituzionali.
Una diagnosi sociale alle frontiere della vita diviene cruciale per 7 motivi:
1) Verificare il livello di assistenza che la rete familiare è in grado di garantire e identificare le fragilità sociali, la presenza nella famiglia di altre persone fragili: familiari con disabilità, disturbi psichici, dipendenza da sostanze, minorenni. È necessario verificare la presenza dei caregiver e il loro livello di stress;
2) Valutare la persona nella sua globalità offrendo, una chiave di lettura socio relazionale delle implicazioni legate al dolore nella sua dimensione sociale;
3) Permettere l’ottenimento dei diritti e delle tutele previste dal sistema di welfare. La Legge 6/2004 sull’ Amministratore di Sostegno è stata definita abito su misura. Il decreto di nomina dell’amministratore va calibrato sul caso concreto al vaglio del Giudice Tutelare, tenendo conto dei desideri e bisogni del beneficiario;
4) Concorrere a garantire la qualità di vita del malato e della sua famiglia favorendo resilienza ed empowerment;
5) Facilitare l'accesso alla Rete dei Servizi Socio Sanitari ed evitare ricoveri ospedalieri impropri e accessi inopportuni al pronto soccorso.
6) Identificare le eventuali aree di bisogni insoddisfatti come sovente quelli di natura economica;
7) Accompagnare la persona verso la propria autodeterminazione.
Quando si parla del “fine vita” non si può non citare il medico indo-canadese Atul Gawande e i suoi libr- già presentati su questo sito da “Essere mortale” a “Con cura"- che più di tanti documenti ha dato concretezza alla filosofia del suo agire: salvaguardare sino alla fine l’autodeterminazione e la scelta della persona e saper distinguere tra curare e prendersi cura. Quanto, nel nostro paese, questa cultura del “to care” è diffusa? Quanto il rispetto della volontà della persona è entrato nell’etica e nel comportamento degli operatori pubblici, in primis, e nell’agire quotidiano?
Credo che il diritto di decidere della propria vita faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali: il diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto alla salute, il diritto a una giustizia equa, il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla procreazione responsabile, il diritto all’esercizio del voto, il diritto di scegliere il proprio domicilio. Il lavoro dei professionisti dell’aiuto, è per definizione un lavoro che si svolge nella complessità, non può ridursi quindi a un unico punto di vista professionale o di intervento pratico.
La tesi più interessante del testo Being Mortal di Atul Gawande, chirurgo statunitense di origine indiana, che le cita è che la comunità medica è più concentrata sulla malattia che sulla vita delle persone. Che senso ha, per esempio, dice Gawande, impedire ad un malato terminale di mangiare quello che gli piace, come fanno molte cliniche e ospedali? O perché vietargli di portarsi in clinica il proprio cane o gatto?
Agli immensi progressi raggiunti dalla medicina nella cura delle malattie o nella gestione della nascita non corrispondono, secondo Gawande, progressi paragonabili nel modo di affrontare la vecchiaia e la morte. Siamo arrivati a medicalizzare l’invecchiamento, la fragilità e la morte, trattandoli come se fossero solo un problema clinico in più da sconfiggere. Invece non si ha bisogno solo della medicina negli anni del declino, ma della vita: una vita con un significato, una vita ricca e piena, per quanto sia possibile in quelle circostanze. La cultura del “to care” è ancora poco diffusa nel nostro paese. Certamente la medicina non può sempre salvare vite, ma può sempre provare ad accompagnare a vivere meglio il fine vita; se non sempre può guarire, sempre può curare. Accompagnare una persona non è solo un atto medico; invecchiamento, fragilità, morte, non sono solo un problema clinico. L’intervento sociale alla fine della vita, l’incontro con il paziente e con la sua famiglia non richiede minori capacità di un’operazione chirurgica perché la malattia non colpisce solo il corpo, ma la storia di vita di una persona, la sua biografia.
Nel libro, si esplicita come le scelte della persona sul suo fine vita, siano determinate da fattori diversi: religiosi, culturali, antropologici, oltre a considerazioni bioetiche. In questi tempi queste scelte subiscono anche le influenze che le piattaforme social e le nuove tecnologie hanno apportato nelle azioni individuali e comunitarie che circondano la morte. Nello stesso tempo però viene offerto una sorta di manuale pratico su quali sono le diverse situazioni in cui i due poli-autodeterminazione e condizione di salute- s’incontrano: dall’eutanasia al suicidio assistito, dalle cure/ sedazioni palliative, sino alle DAT (Disposizioni Anticipate di trattamento) e al biotestamento, illustrandone, oltre alle indicazioni operative, le finalità e i presupposti. Come lei scrive, informarsi e conoscere come esprimere una dichiarazione di volontà, non è solo un atto verso l’esterno ma un percorso di “Death Education”, soprattutto per i più giovani. Perché questa sottolineatura e con quale intento?
Le DAT sono l’affermazione di un principio: il principio di autodeterminazione della persona alle frontiere della vita. Il codice deontologico dell’assistente sociale all’art. 26 afferma: “L’assistente sociale riconosce la persona come soggetto capace di autodeterminarsi e di agire attivamente”. Il codice deontologico infermieristico del 2009 all’articolo 37 recita: “L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita”. Le persone non perdono il diritto all’autodeterminazione quando non sono più in grado di esprimersi. Un testamento biologico, come qualsiasi altra disposizione testamentaria, va rispettato. In quest’orizzonte le DAT assumono un valore profondamente educativo, costituiscono un percorso di Death Education perché sollecitano ciascuno di noi: adulto, giovane, adolescente, anziano ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli e a interrogare sé stessi su come ciascuno vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso ci trovassimo nell’impossibilità di decidere autonomamente. Stiamo assistendo, di conseguenza, ad un mutamento di paradigma nella visione della vita umana. Ci si sta rendendo sempre più conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all'infinito.
Si va delineando sempre più una nuova visione dell’inizio e della fine dell’esistenza all’insegna dell’autonomia. Ne consegue quindi un diritto alla cura, non un obbligo di terapia. Dalla dignità dell’uomo scaturisce il diritto all’autodeterminazione per la vita nella sua interezza, e quindi anche per l’ultima tappa dell’esistenza, ossia la morte. Il diritto alla vita non sottintende in nessun caso il dovere di vivere e di continuare a vivere a tutti i costi. Indubbiamente l’autodeterminazione non va assolutizzata, deve connettersi alla responsabilità verso gli altri. Non deve d’altro canto prendere il sopravvento l’eteronomia. Proprio perché la persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta, e questo sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell’epoca della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di protrarre la morte in misura considerevole.
Elementi chiarificatori di questo concetto li troviamo nel film del 2004, “Mare dentro” diretto dal regista Alejandro Amenabar, incentrato sul tema dell’eutanasia. Il protagonista del film Javier Bardem, interpretando Ramon Sampedro, un uomo diventato tetraplegico a causa di un grave incidente, sostiene una discussione con un ecclesiastico, un gesuita, anch’egli tetraplegico venuto a casa sua per convincerlo a desistere dai suoi propositi eutanasici. Fra i dialoghi scambiati fra i due, vi è il botta e risposta per cui l’uno sostiene che “una libertà che elimina la vita non è una libertà”, e a cui Ramon risponde che “una vita che elimina la libertà non è vita”.
La vita umana non è solo biologia, è soprattutto biografia, ossia connessione e relazione con le persone e con il mondo animale; la vita è costituita dalle esperienze che facciamo e che la rendono umana, dai successi e dagli insuccessi, dalle gioie e dai dolori. La vita è resistenza, resilienza ed empowerment.
È sempre di carattere più personale. Da anni lei s’interessa di questi temi che, sintetizzando, chiamiamo di “fine vita”. Già l’interpellai nel 2009 (2), quando nel vuoto normativo del paese, era diventata tema di confronto/scontro nazionale la battaglia di Beppino Englaro perché alla figlia Eluana fosse “concesso” il diritto di morire dopo 17 anni di vita vegetativa. Se lei dovesse riassumere ciò che è successo in questi dodici anni quali sono gli aspetti positivi e quali quelli negativi da registrare?
I momenti cruciali dal 2009 ad oggi, dal mio punto di vista, ritengo siano stati:
a) L’approvazione della L. 219/17 di cui ho esposto. Nel libro il tema è approfondito soprattutto nel cap. 2. In Italia dopo quasi 20 anni di acceso dibattito parlamentare si è finalmente giunti all’approvazione della legge sul bio- testamento e sulle DAT, una legge di civiltà che restituisce ad ognuno il governo sulla propria esistenza.
Abbiamo predisposto due video di presentazione dei punti salienti:
b) Il pronunciamento della Corte Costituzionale del 25 settembre 2019 sul caso Cappato.
Voglio soffermarmi brevemente su questo pronunciamento della Corte. Il suicidio assistito è considerato un reato ai sensi dell’articolo 580 del codice penale. Il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito a quest’articolo nella parte riguardante la punibilità dell’aiuto al suicidio assistito. Con questa sentenza non viene riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito, ma viene individuata un’area di non punibilità per chi decide di accogliere la richiesta di solidarietà da parte di una persona che soffre, ma tuttavia è in grado di autodeterminarsi (autodeterminazione intesa come espressione della libertà positiva dell’uomo). La Corte ha determinato che non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. “Si tratta, quindi, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare” - dice la Corte, che così prosegue: in questi casi “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.
La Corte subordina “la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle Cure Palliative e sulla sedazione profonda continua – articoli 1 e 2 della legge 219/2017-”; contestualizzando e rafforzando il consenso informato, art. 1 della Legge 219/2017 e il diritto di accesso alle cure palliative (Legge 38/2010) ribadito nell’art.2 della Legge 219/2017. Qualora ci fosse un ottima rete di cure Palliative e di terapia del dolore, possono comunque esserci persone che non ritengono degna di se quella vita e che richiedono di anticipare la morte. Tale richiesta va presa in seria considerazione. Adesso tocca al Parlamento prendere una posizione con una legge dello Stato. Speriamo i tempi siano più brevi di quelli richiesti dalla legge sulle DAT.
Oltre al libro di cui, scritto con il collega Ugo Albano "Accompagnare alle frontiere della vita. Lavoro di cura, cure palliative, death Education" (Maggioli, 2020) e ai libri di Atul Gawande sopra citati, vorrei proporre una bibliografia minima su questo tema:
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Bibliografia
BANKS S., Etica e valori nel servizio sociale, Ed. Erickson, 1999.
BUBER M., Il Cammino dell'Uomo, Qiqajon, 1990.
FRANKL VE. Alla ricerca di un significato della vita. Ed Mursia, 2012.
LAMB D., L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino, 1998.
LISI P., FLORIDIA R., MARTINELLI N., ALBANO U., La dignità nel morire. Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita, (a cura di), La Meridiana, 2010.
PIGLIUCCI M., Come essere stoici. Riscoprire la spiritualità dei classici per vivere una vita moderna. Garzanti, 2017.
KUNG H., Morire felici? Lasciare la vita senza paura, Rizzoli, Milano, 2015.
TESTONI I. L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, 2015.
VERONESI U - DE TILLA M., “Nessuno deve scegliere per noi” - La Proposta del Testamento Biologico, a cura di Lucio Militerni, Sperling & Kupfer Editori, Roma, 2007.