Qual’ è l’idea di giustizia che può aiutarci nel garantire o promuovere/realizzare la dignità umana in una società dove la quota di popolazione che ha bisogno di cura, per motivi non necessariamente negativi, è crescente rispetto alla attuale capacità di risposta che la stessa società oggi riesce a dare?
Quali sfide questa situazione pone a chi pensa che i principi sanciti nella Costituzione repubblicana, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nel nuovo Trattato europeo– e tutto ciò che ne discende: carte dei diritti, legislazione sanitaria e sociale, normative relative ai diritti dei lavoratori, livelli essenziali, prestazioni previdenziali, ecc. – abbiamo un valore e possano aiutare a guidare lo sviluppo di una società più a misura di uomo e di donna, per tutti e tutte?
La prima cosa che colpisce è che rispetto al tema della cura non abbiamo sistemi di misurazione che assumano questi fattori come variabile rilevante nella ricostruzione della ricchezza e del benessere di un paese1.Eppure non si tratta di una componente irrilevante. Da una indagine svolta nel 2007 tra i paesi UE2, risulta che:
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più di 1/3 dei cittadini europei, più donne che uomini, sono impegnati con persone che da almeno 10 anni necessitano di aiuto regolare o di long term care;
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i caregivers sono soprattutto adulti-anziani (30% dei 55-64 enni) che assistono persone ancora più anziane;
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minore risulta essere il caregiving in Romania e Portogallo e maggiore in Svezia e Danimarca, ma in generale non sembra che i sistemi di welfare “erodano” significativamente il family care;
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le attività del caregiving sono: tenere compagnia (49%), fare acquisti (42%), aiuto per le pulizie (34%), aiuto per la mobilità (33%), cucinare (32%), svolgere compiti finanziari e amministrativi (30%); per quanto riguarda l’assistenza “hard” – vestirsi, lavarsi, alimentarsi, gestire il quotidiano, usare la toilette – il range varia dal 21 al 27%;
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gli assistiti sono per il 37% conviventi e per il 14% ospiti di strutture residenziali; il 12% risiede a più di 20 km dalla residenza del caregiver;
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sempre gli assistiti, il 45% preferisce stare nella propria casa e essere curato da parenti stretti, un 25% da un servizio professionale, il 10-12% da un assistente personale, il 5% da familiari e non più del 9-10% essere ricoverati in strutture residenziali;
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il range tra i paesi, per quanto riguarda l’aspettativa di essere seguiti da propri parenti, è ampio: idal 22% della Danimarca al 75% della Turchia viceversa, l’aspettativa di avere assistenza dai servizi è del 55% in Danimarca e del 51% in Croatia;
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alta e diffusa è l’aspettativa di intervento pubblico tra i cittadini europei: il 93% chiede strutture residenziali, il 91% servizi professionali integrativi per il caregiving familiare, l’89% un “salario compensativo” al minor reddito percepito per chi assiste.
Contesti culturali diversi, diverse opportunità dei sistemi di welfare, diverse culture “familiari”: il lavoro di cura familiare, in altri termini, risulta un elemento centrale per la tenuta della società europea tutta.
Una dimensione, però, non priva di profondi elementi di contraddizione (pensiamo alla violenza sulle donne), in cui si mescolano spesso sovraccaricamento, abbandono e una crescente fragilità e vulnerabilità interna, e in cui si innesta, in particolare in Italia, la presenza delle assistenti familiari/badanti.
Questa consistente realtà – secondo le stime tra le 840 mila e il milione 450 mila persone – è un indicatore della capacità delle famiglie di risolvere con “il fai da te” i problemi che esse vivono, che lascia molte aperte contraddizioni e problematiche: per le famiglie, sole e impreparate nel trasformarsi in datori di lavoro; per le assistenti familiari/badanti, sole a gestire la domanda per cui sono state chiamate/venute; per le altre dimensioni della vita sociale (chi e come “regola” la filiera di ingresso e di permanenza?), nonché della vita familiare lasciata da queste persone (soprattutto donne) nei propri paesi di origine.
Sappiamo che le principali criticità che si riscontrano in questa zona grigia del nostro sistema di welfare sono: l’alta incidenza del lavoro irregolare; l’inadeguata professionalità; il peso del lavoro di cura informale; l’insufficiente riconoscimento; l’intensità di cura insufficiente per i casi più gravi. A queste si possono aggiungere i costi materiali e immateriali delle catene illegali di fornitura della manodopera, l’insicurezza/fragilità reciproca famiglia/badante nel rapporto di lavoro, i costi aggiuntivi materiali e immateriali di regolarizzazione e di integrazione (sempre per famiglie e badanti).
Rispetto a questi problemi le idee per affrontarli non mancano. Quello che sembra mancare è la volontà/capacità politica di assumerle nell’interesse dell’intero paese, soprattutto delle nuove generazioni. La assenza di un disegno giuridico coerente sulla non autosufficienza, o i cortocircuiti con le normative sull’immigrazione, ne sono esempi emblematici.
In altri termini, rispetto ai cambiamenti in atto nei sistemi familiari (invecchiamento, assottigliamento, frammentazione), per quanto tempo e con quale grado/qualità, possono continuare a svolgere la loro funzione di “welfare informale”? Il confine fluido tra formale (i servizi) e informale, come si andrà a definire con l’impatto che la crisi sui bilanci della sanità e dell’assistenza sociale? Per quanto tempo possiamo immaginare che l’offerta di manodopera immigrata continui e che risponda alla domanda crescente di assistenza familiare?
Fino ad ora la copertura del costo dell’assistenza familiare è stata coperta dai risparmi accumulati col lavoro e dalle pensioni. Dentro traiettorie professionali con esiti previdenziali ben più contenuti precari, chi sarà in grado da qui a 15-20 anni di pagare questo tipo di servizio? Aumenterà il lavoro di cura autoprodotto, ma da chi, viste le tendenze demografiche in atto? Le donne saranno costrette a dover accudire più persone non autosufficienti e quindi a rinunciare ulteriormente alla propria esperienza professionale, o anche solo a godersi una vecchiaia serena? E che effetti questo avrà sull’assetto economico-di benessere- di sviluppo del nostro paese?
Se vogliamo cercare di rispondere in modo adeguato a queste domande ci pare sia necessario prendere in considerazione il tema della giustizia sociale o, per essere più diretti, scomodare la filosofia, il diritto e le misure di benessere.
Perché? La prima risposta ha riguarda la legittimazione del lavoro di cura come componente imprescindibile di ogni politica di welfare seria, o quanto meno ragionevole. La seconda il fatto che per dare ad esso il necessario riconoscimento pubblico bisogna che si costruiscano gli strumenti per renderlo visibile, conoscibile, discutibile. Terzo, tali risultati si ottengono a condizione che si sia consapevoli che non è un accessorio della vita di ognuno di noi, bensì è condizione della nostra esistenza. Quando siamo nella culla, e anche dopo, per non pochi anni, per periodi più o meno lunghi prima di andare nella tomba; quando ci ammaliamo in modo più o meno grave e continuativo. Lo è poi per chi, per disabilità congenite o acquisite, non potrà raggiungere l’autonomia e la capacità produttiva. E per ognuno tutti i giorni, perché non siamo mai completamente autonomi per l’espletamento delle funzioni vitali, ed è raro che non ci occupiamo di qualcun altro o di qualcosa che serva a qualcun altro. Lo è soprattutto per le donne, e spesso, questo impegno si conferma/trasforma in un obbligo di cura, con tutte le conseguenze che porta con se, per chi da (caregiver) e per chi riceve.
Se si condivide questa prospettiva non si può non affrontare la doppia sfida etica e politica, come sostiene M.C. Nussbaum, che il tema del caregiving richiama:
“Una società giusta, potremmo pensare, guarderebbe anche all’altro lato del problema, cioè all’onere che grava sulle persone che provvedono a prendersi cura di coloro che vivono in condizioni di dipendenza. Queste persone hanno molti bisogni: il riconoscimento della loro attività come una forma di lavoro; il sostegno, sia umano che finanziario; la possibilità di una carriera gratificante e la partecipazione alla vita sociale e politica …. Questo problema è strettamente connesso alle questioni di giustizia di genere …. Inoltre la maggior parte del lavoro finalizzato a fornire cure necessarie a una persona in condizioni di disabilità non viene retribuito, ne viene riconosciuto nel mercato del lavoro e ha tuttavia importanti conseguenze sul tempo che rimane a disposizione di una persona che lavora.” 3.
Esso è “attraversato” e “stressato” dalle questioni che hanno a che fare con la giustizia sociale nella sua dimensione di vissuto delle persone, perché in esso si affermano e consolidano disuguaglianze/iniquità che riguardano: rapporti tra i generi (lavoro femminile); statuti del lavoro (lavoro servile); disuguaglianze determinate dalle genealogie (i non cittadini, immigrati/e); valore economico attribuito/riconosciuto (iniquità salariali); gravosità in termini di salute (significativo il non riconoscimento di “malattia professionale” delle condizioni patologiche determinate dal caregiving). A queste, altrettanto rimosso, si deve aggiungere che lo stesso esercizio del diritto alla salute e all’assistenza è reso effettivo da chi di questi si prende cura, ovvero negare il (diritto del) caregiver significa automaticamente negare anche il (diritto del) cared-for.
Di nuovo, come ben sintetizza la Nussbaum, è necessario:
“ che la chiave della giustizia sociale tanto per i disabili quanto per coloro che se ne prendono cura consista in un ampliamento dello sguardo che potenzi l’immaginazione. Se consideriamo i cittadini nostri simili anzitutto quali parti di uno scambio reciprocamente vantaggioso, non saremo mai in grado di annettere valore a coloro che hanno handicap permanenti. E saremo capaci di annettere valore agli anziani disabili solo pensandoli come persone che in altri tempi sono state produttive e che meritano una ricompensa anche solo per la loro precedente produttività. Non è però certamente questo che viene richiesto dalla loro dignità. Infine se annetteremo scarso valore o scarsa dignità alle persone in condizione di dipendenza, non saremo capaci di riconoscere dignità al lavoro di coloro che le vestono o le lavano, così come non accorderemo a tale lavoro il riconoscimento sociale che merita.”4.
Insomma, abbiamo bisogno di interrogarci, di fare più ricerca, di andare oltre il perimetro un po’ chiuso della discussione su questi problemi, mettendo al centro la possibilità di costruire, almeno tendenzialmente, una coerenza/corrispondenza tra:
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una teoria etico-politica della giustizia (è la forte sollecitazione che riprendiamo dalla Nussbaum)
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i diritti universali e fondamentali/costituzionali (è l’humus culturale dei movimenti e organizzazioni di rappresentanza delle persone con disabilità)
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i livelli essenziali (è il grande tema che interroga e di cui il sindacato e gli attori sociali da sempre si sono fatti promotori)
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le evidenze epidemiologiche (le condizioni di vita delle popolazioni) confrontate con quelle di accountability, cioè di ciò che possiamo sapere in termini di bisogni e risposte, riconosciuti o non riconosciuti i primi, erogate o non erogate e come le seconde.
Si tratta di dimensioni che si in-formano e rinviano l’una con l’altra, nonostante il diverso livello di maturazione e di elaborazione di ognuna di esse, e la strada per sviluppare questo percorso di ricerca non è semplice.
Una guida ci può venire ancora dalla filosofia morale. Tra gli approcci possibili quello basato sulle capacità ci sembra il più adeguato. Esso definisce il modo con cui una persona riesce a convertire/far proprie le risorse/opportunità (che il mondo circostante offre) in funzionamenti, cioè in risposte appropriate e coerenti ai propri bisogni, primo tra tutti quello di essere se stessa, ovvero libera di scegliere e di libera di definire i criteri con cui scegliere. Per esempio ogni essere umano ha bisogno di nutrirsi; ma ci può essere qualcuno che per motivi personali (religiosi o politici) decide di non farlo; di converso, ci sono persone, e nel mondo troppe, che non lo possono fare perché povere, o discriminate, senza disponibilità concreta di accesso al cibo; altre ancora che in realtà si stanno avvelenando lentamente quello a disposizione è inquinato, avariato, ecc.. La capacità sta nel poter scegliere tra nutrirsi e non nutrirsi, e nel sapere ciò di cui ci si nutre, ovvero nell’esercitare una scelta/azione competente5.
L’essere curato è il corrispettivo del nutrirsi. La cura può essere professionale (paid) o informale/familiare (unpaid). Può afferire al sistema sanitario, o educativo, o assistenziale, o sociosanitario, o familiare. Ogni sistema ha proprie regole di “somministrazione” della cura. Nella misura in cui si è capaci di scegliere, si può accettare o meno di essere accuditi/curati, e come esserlo. Questa capacità (di scelta) dipende, anche in questo caso, dalla competenza di cui dispongono le persone nel poter decidere in modo consapevole cosa fare e quindi essere. Rispetto all’esempio del cibo c’è una aggiunta. La libertà di scegliere se e come farsi “curare” deve fare i conti con la libertà di chi si prende(rebbe) cura, ovvero di farlo o non farlo e come. In altri termini, la cura, se si vuole rispettare la dignità delle persone coinvolte, rinvia all’incontro-corrispondenza di almeno due capacità6.
Per la Nussbaum il modo di declinare l’approccio delle capacità si pone l’ obiettivo di:
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ridefinire in chiave universale – ovvero comprensiva dello stato di dipendenza/ disabilità temporanea o permanente, parziale o totale, delle persone, nel fisico e nella mente le idee di contratto sociale e vantaggio reciproco;
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fornire una guida solida per il diritto e le politiche pubbliche quando queste affrontano i temi della disabilità;
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costruire una “base filosofica necessaria a dare conto dei diritti umani che dovrebbero essere rispettati dai governi di tutti le nazioni, e una base minima per il rispetto della dignità umana”7;
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costruire una teoria sostantiva di una serie di capacità (centrali) “concepite come lo spazio rilevante all’interno del quale fare confronti sulla qualità della vita nelle società, e che funzioni come parametro decisivo per chiedersi se una data società ha distribuito un livello minimale di giustizia fra i suoi cittadini”;
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definire i requisiti essenziali di una vita dignitosa in termini di capacità centrali, attraverso cui si affermano gli scopi generali/diritti fondamentali che la società intende garantire, componendo una teoria della giustizia in cui le diverse capacità siano mutualmente rafforzanti e centralmente rilevanti, e stabilendo un nucleo minimo di diritti sociali, che siano espandibili nel tempo.
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Dietro questo programma troviamo indicazioni utili per il nostro percorso. Traducendo schematicamente la struttura di quella che Nussbaum chiama “lista delle capacità centrali”, possiamo inquadrare in uno schema logico il disegno di ricerca, ovvero il mettere insieme, con coerenza/corrispondenza, capacità, diritti, indicatori, livelli essenziali.
La “lista delle capacità centrali” ne prevede 10.
Lo schema logico su cui impostare operativamente la ricerca potrebbe essere così articolato, ovvero per ogni capacità si tratta di ricondurre il diritto/diritti conseguenti, gli indicatori a sostegno della effettività dei diritti, i livelli essenziali corrispondenti. In altri termini, la ricerca che ipotizziamo è il riempimento, per l’appunto coerente e conseguente, delle caselle vuote (tabella).
CAPACITA’ DI |
CONTENUTO |
DIRITTO/I |
INDICATORE/I |
LEP/LEA |
Vita |
Vivere fino alla fine una vita di normale durata Vivere senza limitazioni tali da rendere indegna la vita che si vive |
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Salute fisica |
Godere di buona salute Vivere una riproduzione sana Godere di una nutrizione sana Avere una abitazione adeguata |
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Integrità fisica |
Libertà di movimento Protezione dalle aggressioni Godere del piacere sessuale Libertà di scelta in tema di riproduzione |
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Sensi, immaginazione, pensiero |
Poter usare i propri sensi Immaginare, pensare e ragionare “ in modo informato e coltivato da una istruzione adeguata” Libertà di espressione Libertà di culto “poter andare in cerca del significato ultimo dell’esistenza a modo proprio.” “Poter fare esperienze piacevoli ed evitare dolori inutili" |
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Sentimenti |
Poter provare attaccamento a cose, persone e a noi stessi Amare, soffrire, provare desiderio, gratitudine e ira giustificata Non vivere ansia e paura Non subire abuso o abbandono |
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Ragion pratica |
Sviluppare una concezione di ciò che è bene Programmare criticamente la propria vita |
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Appartenenza |
Vivere con gli altri e per gli altri Riconoscere e preoccuparsi per l’umanità altrui Impegnarsi in varie forme di interazione sociale Provare compassione Sviluppare il senso della giustizia e della amicizia Disporre di basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati Essere trattati con uguale dignità |
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Altre specie |
Vivere con gli animali e nella natura Provare interessi |
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Gioco |
Ridere, giocare e godere di attività ricreative |
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Controllo del proprio ambiente |
Partecipare alle scelte politiche Diritto di partecipazione Libertà di parola e associazione Proprietà come opportunità concreta e uguale Lavoro Garanzia di non essere perquisiti o arrestati senza autorizzazione |
La ricerca a chi può interessare?
Il sindacato e le organizzazioni sociali, nella loro attività ordinaria, per la mission che debbono svolgere non possono non fare ricerca: dai bisogni non riconosciuti, ai diritti negati, all’impatto delle scelte di politica economica e sociale, alla personalizzazione delle risposte attraverso i servizi che erogano, ecc..
La rappresentanza impone ad esse di essere organizzazioni di ricerca.
Queste organizzazioni sono interessate a questo tipo di ricerca? La risposta, ovviamente, non possiamo che lasciarla ad altri, convinti come siamo però che sensibilità e impegno su questi temi non mancano.
1 Il presente articolo è sintesi di un più ampio elaborato, presentato sul trimestrale della Federazione Nazionale Pensionati della CISL “OGGI DOMANI ANZIANI” n.4/2010.
2 Eurobarometer, Health and long-term care in the european union, special report 283, Bruxelles, dicember 2007; R. Anderson, Care work in Eu: support measures in a context of demografic change, European Papers on the New Welfare, Trieste- Geneva, n.13, october 2009.
3 M.C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 118.
4 M.C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, 2002 pag.47.
5 cfr M. Campedelli, V.Lepore, G. Tognoni, a cura di, Epidemiologia di cittadinanza. Salute, welfare, diritti, Roma, Il pensiero scientifico editore, 2010.
6 Per approfondimenti mi permetto di rinviare a M. Campedelli, Ripartire dai bisogni. Per una nuova concertazione sociale, in A. Geria, a cura di, Famiglia, equità e servizi alla persona, Roma, Edizioni Lavoro, 2009.
7 M.C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia, cit., pag. 87.