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- Autore/rice Laura Nave
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Tra i divieti e le privazioni più o meno facili da accettare di quest’anno e fonte di un forte dolore emotivo, c’è quello, straziante, di far visita ai propri cari ospiti delle Residenze Protette, l’accesso alle quali, per nove mesi, è stato completamente vietato o fortemente contingentato. Un provvedimento determinato naturalmente dalla necessità di prevenire la diffusione del virus, purtroppo inevitabile, ma non privo di “effetti collaterali“ e percepito come una violenza, seppur perpetrata in nome della sicurezza, sia dai ricoverati che dalle famiglie.
Certamente l’aspetto più eclatante del terribile impatto della pandemia sulle Case di riposo è stata l’elevata mortalità, che purtroppo si riscontra anche in questa seconda ondata, e che ha costretto i direttori sanitari a vietare l’accesso. Tuttavia non va sottovalutato il problema psicologico dell’isolamento delle persone più fragili e contemporaneamente più esposte ai rischi del contagio.
Gli anziani, soprattutto quelli cognitivamente più deboli, i malati di demenza, si sono sentiti abbandonati dalle famiglie, soli in questa delicata fase della loro vita, immersi in un clima di inquietudine, circondati solo da un personale reso irriconoscibile dai dispositivi di protezione e inevitabilmente più “distante” sia fisicamente, per il rispetto dei protocolli di sicurezza, sia emotivamente per non soccombere al senso di impotenza davanti all’immane compito di garantire una buona cura in condizioni così estreme.
I familiari da parte loro hanno avuto paura di perdere i propri affetti senza un vero commiato. In alcuni casi gli operatori hanno provveduto a rendere possibili dei contatti su tablet o attraverso WhatsApp, tuttavia questa modalità ha assolto allo scopo di rassicurare le famiglie sullo stato di salute dei propri cari, ma non ha potuto rappresentare un “ponte” in grado di superare la solitudine dei residenti, salvo rare eccezioni, poco consueti all’utilizzo della tecnologia e del digitale. Per i malati di demenza, in particolare, per i quali è già difficile mantenere la relazione in presenza, questi mezzi decisamente non rappresentano una valida alternativa.
Nella migliore delle ipotesi, quando durante l’estate c’è stata una riduzione della curva dei contagi, i familiari hanno potuto, previo appuntamento, fissato a volte anche a distanza di un mese, incontrare il proprio congiunto per un quarto d’ora, preferibilmente all’aperto o in un locale dedicato, naturalmente rimanendo a distanza, dietro un plexiglass di separazione, indossando i dispositivi di protezione e alla presenza di un operatore. Spesso queste visite “asettiche” hanno provocato più dolore che conforto, pochi sorrisi imbarazzati e tante lacrime.
Il paradosso che si è potuto osservare a bilancio di questo difficile periodo, è che le misure anti covid per tutelare la salute della popolazione anziana hanno avuto sulla stessa un effetto devastante. Hanno favorito su persone già fragili e in larga misura cognitivamente deboli, un ulteriore decadimento cognitivo, apatia, inappetenza, depressione, disturbi del sonno e ansia con il conseguente peggioramento anche delle patologie di tipo organico.
Si sa che “c’è un dolore che nasce nella carne e un dolore che viene dall’anima, ma raramente restano disgiunti” (Mortari) e quando il dolore dell’anima diventa insostenibile si manifesta nel corpo, rendendolo potenzialmente anche più esposto agli attacchi del virus.
Nell’approssimarsi di questo Natale anomalo in cui auguri e doni con gli amici, cenoni e tombole in famiglia si sono trasformate da consuetudini a trasgressioni, a reati perseguibili, un documento ministeriale approvato il 30 novembre scorso ha preso atto di questo problema e ha provato a porvi rimedio.
In sintesi il documento prevede che all’interno di residenze protette e RSA vengano riprese le attività occupazionali eventualmente sospese e che debbano essere assicurati non solo regolari collegamenti in modalità digitale con i propri familiari, ma anche la possibilità di “pieno accesso” dei parenti e dei volontari agli ospiti delle strutture. Si precisa peraltro che devono avvenire in piena sicurezza, che devono essere subordinati all’esito negativo di tamponi rapidi antigenici da effettuare a ogni accesso nella struttura e con la realizzazione, compatibilmente con le caratteristiche della struttura stessa, di locali idonei, ad esempio una “sala degli abbracci”. E, naturalmente, che devono venire sospese in presenza di focolai. Sinceramente poco cambia nella sostanza, se non che si è preso atto della difficoltà insita in un buon accudimento a trovare la “giusta misura”, della scelta etica tra proteggere dal punto di vista organico e sostenere dal punto di vista psicologico.
Per quanto rappresenti un documento importante, non affronta il problema alla radice. Ratifica qualcosa che gli psicologi sostengono da sempre, ovvero che mente, corpo e relazione sono aspetti imprescindibili, che ciascuno di essi è condizione essenziale del vivere; che l’uomo non ha solo dei bisogni primari, di nutrizione o di igiene personale, ma ha bisogno della relazione, uno strumento terapeutico centrale e potente, “come le piante hanno bisogno dell’acqua” (Vernooij). All’interno delle strutture assistenziali quindi all’anziano va garantito il mantenimento dei legami e dei rapporti in cui era inserito e le attività socio relazionali sono da considerare altrettanto necessarie di quelle sanitarie.
Il bisogno di carezze e sguardi accoglienti che possono comunicare la vicinanza dell’altro, di una parola che cura e può addolcire il vissuto di chi sente di perdere tutto ciò su cui fondava la propria identità, non è sentimentalismo, ma una necessità. Soprattutto dove il senso di sé è in crisi, dove il linguaggio della logica non è utilizzabile, è il contatto a rendere raggiungibili, a generare comprensione e fiducia. Si è sempre sensibili al tatto e alla relazione, agli abbracci che fanno sentire ancora degni di attenzione, che restituiscono un’immagine positiva di sé.
Lo ha compreso anche un writer che ha riportato su una parete del centro di Udine una frase che attribuisce ad Anais Nin : ”Tutto quello che ho da dirti posso dirtelo solo con le carezze”. Sia che si intenda che l’unica cosa che vale la pena dire, ovvero quanto l’altro è importante, si può comunicare solo attraverso il contatto, sia che le carezze sono l’unico modo di comunicare rimasto, suggerisce l’essenzialità di questo approccio.
Quello di cui il documento ministeriale non tiene conto è che forse non è possibile chiedere questo tipo di cura, in grado di garantire una buona qualità di vita e una “buona morte” all’attuale sistema assistenziale, che in questa situazione di emergenza non ha retto e sta dimostrando la propria inadeguatezza.
Già in tempi normali nelle Case di riposo e nelle RSA il tempo dedicato a ogni ospite è stabilito sulla base di una rigida tempistica organizzativa, al punto che i minuti di assistenza dedicati quotidianamente a ogni paziente sono il parametro abitualmente usato per qualificare il livello di assistenza assicurato da una RSA. Gli standard vanno da 90 a 150 minuti al giorno in media (e comprendono igiene personale nutrizione assistenza infermieristica ecc.). Anche nelle strutture migliori i grandi numeri dell’accoglienza e l’organizzazione stringente non consentono un incontro autentico con l’altro. Fanno inevitabilmente perdere personalizzazione, sensibilità e attenzione all’unicità della persona di cui si ha cura. Avviliti dall’impossibilità di sentirsi ascoltati, sentendosi inutili o “sbrigati” come una faccenda, i residenti finiscono spesso per attendere che si compia il loro destino in silenzio, o “silenziati” dai farmaci. Dal canto loro i familiari, dopo il ricovero, vengono privati della priorità del proprio ruolo, devono “farsi indietro” rispetto alla maggioranza delle decisioni che riguardano i propri cari che possono incontrare solo da “visitatori”, come estranei, con pesanti ricadute sul piano psicologico.
La pandemia da Covid ha ulteriormente, drammaticamente, aggravato la situazione.
Soprattutto in questa seconda ondata in Friuli la situazione delle Residenze protette è piuttosto allarmante, peggiorata rispetto al primo lockdown. In regione in 107 delle 170 case di riposo presenti si registrano focolai di contagio, probabilmente veicolato dagli operatori. Purtroppo le disposizioni della Regione e delle Aziende Sanitarie obbligano le strutture a continuare ad assistere i contagiati invece di ricoverarli. Allo stesso tempo molti degli operatori contagiati non vengono sostituiti, con un conseguente aggravio del carico di lavoro e delle condizioni di rischio per chi rimane in servizio e un peggioramento della qualità di assistenza ricevuta dagli ospiti.
In queste condizioni, in cui non è nemmeno possibile ottemperare alle disposizioni contenute nel documento ministeriale, come si può immaginare di garantire una buona cura all’anziano fragile, che gli restituisca dignità e fiducia in sé e in un mondo percepito come estraneo e avverso, che lo incoraggi e ne rinforzi le capacità adattative? Come è possibile dare ascolto e appoggio ai familiari e al complesso coacervo di emozioni che provano?
Forse sarebbe più opportuno immaginare per il futuro di investire in soluzioni assistenziali alternative, più flessibili e informali e proprio per questo più adatte a rispondere a esigenze di maggiore personalizzazione. Un’ alternativa ad esempio sono le realtà di cohousing per anziani, o per malati di demenza, da decenni presenti nei paesi del nord Europa e che vanno diffondendosi anche in Italia. Trattandosi di piccoli nuclei residenziali, che riproducono nei numeri le dimensioni di una famiglia, vengono percepiti come accoglienti e rassicuranti da i residenti, consentono al tempo stesso di garantire la massima personalizzazione, un certo grado di socializzazione e il giusto equilibrio tra protezione, sicurezza e rispetto per la libertà, l’identità e l’autonomia residua. In una realtà di questo tipo, soprattutto se autogestita, i familiari, supportati da adeguate figure professionali, possono assumere responsabilità decisionali simili a quelle dei direttori sanitari delle strutture: scegliere le linee guida per la comunità, proporre attività occupazionali calibrate sui reali interessi e capacità dei residenti, ma soprattutto essere presenti con quell’accudimento affettivo che non è possibile aspettarsi dal personale, neanche il più formato.
Un progetto di questo tipo, interamente privato e autogestito dalle famiglie coinvolte, il cohousing Demaison per persone malate di demenza, è attivo in Friuli dal 2013. Certamente non è possibile affermare che non si siano avuti disagi in conseguenza al covid, ma sono stati decisamente contenuti proprio per i piccoli numeri e grazie all’autogestione. Le famiglie, per la sicurezza dei residenti e delle assistenti familiari, hanno scelto di limitare le occasioni di rischio. Per questo, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, sono state temporaneamente sospese alcune delle attività previste (riprese appena possibile) e sono stati molto contenuti anche agli accessi dei familiari, che tuttavia si sono sempre verificati. Il disagio maggiore per i residenti è stata la minor naturalezza nei contatti e nelle presenze, il contatto fisico ridotto rispetto al solito; per le famiglie invece è stato organizzare il rientro dalle ferie estive delle assistenti familiari titolari, che sono partite quando non c’erano limitazioni alla circolazione fra i paesi europei e che al rientro erano invece tenute a un periodo di quarantena. Anche in Demaison quest’anno il pranzo di Natale, che generalmente riuniva la tutte le famiglie intorno a una tavolata imbandita con un menu multietnico, sarà meno gioioso del solito, come purtroppo avverrà per la maggior parte della popolazione, tuttavia complessivamente il cohousing Demaison ha dimostrato anche in queste circostanze drammatiche di avere dei punti di forza, perché è una modalità di assistenza equilibrata, in cui nessuno si sente solo e che consente di ottimizzare le risorse, flessibile e facilmente replicabile, a patto di essere disponibili a interazione e condivisione.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
“Vecchi sbagliati si diventa da bambini” è una frase che uso molto nelle mie conferenze sulla prevenzione verso una vecchiaia più sana e indipendente.
È ormai scientificamente assodato che molte delle più comuni malattie croniche degli occidentali hanno un legame con lo stile di vita e che certamente è il comportamento complessivo durante la propria esistenza ad influenzare con benefici o danni l’ultimo tratto del nostro cammino sulla terra. Sì, il cammino...
Osteoporosi, malattie degenerative muscolo-scheletriche (artrosi), diabete mellito, obesità, patologie cardio e neuro-vascolari, persino demenze, depressione, cancro e disordini immunitari vengono favoriti da un comportamento inattivo.
All’opposto, è dimostrato che esiste una stretta relazione fra attività fisica regolare, stimoli cognitivi, corretta alimentazione e miglioramento dello stato di salute, misurabile in termini di abilità funzionale motoria, cognitiva e di benessere psicologico.
Su The Lancet di luglio 2017 Gill Livingston ed altri 23 esperti internazionali avevano ufficialmente aggiunto due nuovi fattori di rischio modificabili per demenze: la sordità e l’isolamento si aggiungevano, quindi, al preesistente elenco noto dal 2011 che ne segnalava sette. Diabete mellito, ipertensione arteriosa e obesità in età adulta, fumo, depressione, bassa scolarità e sedentarietà adesso hanno altri due compagni di sventura! I nove fattori di rischio, se “modificati” prima possibile nel corso della vita, sono in grado di ridurne i casi di demenza, Alzheimer compreso, di oltre un terzo.
In due articoli su questo sito (qui e qui)mi sono soffermato prevalentemente sulla “nemica solitudine” : la solitudine “amara” (sopportata, non desiderata, subìta) è uno di questi fattori di rischio modificabili per demenze, ma tutti e nove (ed altri che “aggiungerò” e commenterò in successivi articoli) hanno un indubbio valore per la salute globale.
Cos’altro posso aggiungere e raccontare in questi tempi incerti che di allegro hanno solamente il colore sgargiante delle regioni (giallo, arancione, rosso…)?
1. Torno brevemente sull’isolamento. “Con la quarantena aumenta il rischio demenza per gli anziani”. Simona G. Di Santo e colleghi della Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma hanno appena pubblicato (The Effects of COVID-19 and Quarantine Measures on the Lifestyles and Mental Health of People Over 60 at Increased Risk of Dementia. Front. Psychiatry, 14 October 2020) una ricerca sugli effetti della quarantena: viene ridotta la possibilità di fare attività fisiche, sociali e cognitive; modifica la dieta e aumenta la quota di tempo trascorsa passivamente; limita la possibilità di fare attività fisiche, sociali e cognitive. Tutti comportamenti, dunque, che mettono a rischio la salute degli anziani a tal punto che coloro che presentano un quadro di Mild Cognitive Impairment (lieve deterioramento cognitivo) o un Declino Cognitivo Soggettivo vedono aumentare la possibilità di sviluppare forme di demenza.
2. Devo riaffermare in maniera chiara e perentoria che buona parte dei nove fattori di rischio sono applicabili alla salute generale e quindi alla fragilità che ad un certo stadio della vita fa capolino. Questi fattori di rischio sono in qualche modo interconnessi attraverso dinamiche anche semplici da comprendere: ad esempio, chi è depresso è spesso sedentario, mangia male, non “allena” il cervello con progetti, letture ed altro e non coltiva la speranza; chi è sedentario e mangia male ingrassa; chi ingrassa va verso la sindrome metabolica che comprende alterazioni dei grassi e degli zuccheri del sangue e ipertensione; questi danneggiano il cuore ed il resto del corpo; un cuore danneggiato crea problemi al cervello (è la nobile pompa di un nobile organo!) e così via.
“Quel che va bene per il cuore va bene per il cervello”. Affermazione esatta, con uno sguardo ampio esteso al resto del corpo, da mettere in pratica se si vuole invecchiare bene a dispetto di qualche politico (ma non solo!) che ci ritiene inutili in qualità di anziani. Uno studio condotto su 1.588 pazienti (Ruixue Song et al. Associations Between Cardiovascular Risk, Structural Brain Changes, and Cognitive Decline. Journal of the American College of Cardiology Vol 75, Issue 20, May 2020) ha misurato mediante la scala di rischio di Framingham il carico di rischio cardiovascolare, evidenziando che, se aumentato, risulta associato a segni neurodegenerativi e in grado di predire nel tempo il declino cognitivo. In assenza di trattamenti efficaci per la demenza, concludono gli autori, è necessario monitorare e controllare il carico di rischio cardiovascolare come metodo per mantenere la salute cognitiva del paziente con l’invecchiamento.
Una riflessione necessaria, lontana anni luce dall’attuale “medicina della fretta”: dovremmo saper lavorare sul campo come neurologi, ma anche come geriatri, cardiologi, psicologi, infermieri, OSS… insomma, avere un’idea olistica e uno sguardo ad ampio orizzonte della salute propria e degli altri.
3. Accanto all’invecchiamento progressivo mondiale, e italiano in particolare, esiste effettivamente un processo di “giovanilizzazione” che si trova però dall’altra parte della barricata umana molto spesso, in Italia, segnata dagli anni passati in cattive condizioni di salute (Anni di Vita Sana, i cosiddetti YLDs) in situazioni complesse di multimorbilità, soprattutto nelle donne.
Da tempo si dice “aggiungere vita agli anni” ovvero vivere a lungo, sì… ma in che condizioni?
4. Stiamo assistendo paurosamente nel contempo, purtroppo, ad un critico fenomeno emergente: alcune patologie tendono addirittura a presentarsi precocemente, giustificate dall’ipotesi che le generazioni più giovani abbiano stili di vita e di consumo nonché condizioni ambientali meno salubri, oltre che minori capacità di spesa per la cura e la prevenzione (Chang AY et al. Measuring population ageing: an analysis of the Global Burden of Disease Study 2017. Lancet Public Health. 2019 Mar 1;4(3):e159-67).
5. Aumenta l’obesità nel mondo, malgrado un miliardo circa di persone che soffre la fame. Un recente lavoro americano ha coinvolto oltre 17mila individui. È emerso che al crescere del peso si riducono flusso sanguigno e attività cerebrale, specie in aree critiche associate a memoria ed apprendimento come ippocampo e lobi parietali (Daniel G. Amen et al. Patterns of Regional Cerebral Blood Flow as a Function of Obesity in Adults. Journal of Alzheimer's Disease. August 5, 2020). Si, i chili di troppo pesano sull'attività del cervello.
Detto questo. seppure in estrema sintesi, cosa possiamo fare, facilmente e a basso costo per stare meglio e arrivare con successo alla terza e quarta età?
La mia diapositiva è vecchia di 10 anni esatti ma resta attualissima pur nella sua estrema sintesi!
Desidero soffermarmi brevemente – come si sente la mancanza di cinema, teatro, musei in questo autunno… - su un dato di notevole rilevanza, che in qualche modo si trova tra i 9 fattori di rischio modificabili per fragilità e demenze: la cultura, nelle sue varie forme.
L’impegno culturale protegge la salute con diversi meccanismi. Dice Daisy Fancourt: “L’arte dovrebbe essere prescrivibile dai medici. Ha un’influenza positiva sul sistema neuroendocrino riducendo il cortisolo, ormone dello stress; su quello immunitario; sui neurotrasmettitori del benessere”.
Ricordo con rammarico che abbiamo avuto – non sono passati molti anni - un ministro esperto in economia che a suo tempo non ne comprendeva la portata affermando che con arte e cultura non si mangia.La cultura, tuttavia, sta diventando un fuori moda a scuola. Tutti promossi – anche prima del Covid – almeno in certe scuole dirette con un insano criterio manageriale: “se ci facciamo la fama di bocciatori, nessuno si iscriverà nel nostro istituto”!
E ancora: genitori irresponsabili che inveiscono contro insegnanti solidi e impegnati proteggendo figli pericolosamente proiettati verso un futuro professionale incerto, per usare un eufemismo. Lo scrivo confortato (dovrei scrivere sconfortato) dall’esperienza di amici insegnanti seri.
Fuori dalla scuola, poi, imperversa l’uso della “pancia”, dell’agire attraverso le emozioni del momento non filtrate dalla ragione e dalla conoscenza, piuttosto che un agire mediante la sana, lenta, paziente riflessione confortata da qualche lettura o dall’ascolto di chi ne sa di più.
Scolarità. Certamente, quando chiediamo ai nostri pazienti quanti anni di scuola hanno alle spalle per “conteggiare” il profilo di un esame cognitivo, dovremmo tenere nel debito conto che una persona che ha frequentato solo le elementari potrebbe aver condotto una vita ricca di interessi culturali, di prorompente curiosità. Magari diversamente da certi “studiati” che non hanno più aperto un libro o un giornale serio dopo il diploma o la laurea…
Ammainata per il momento la bandiera culturale e rimandati ad un prossimo articolo gli altri fattori di rischio modificabili emergenti, dedico il resto dell’articolo alla sedentarietà (in aumento nel mondo occidentale) e alla apparentemente strana “chimica” che collega l’attività motoria ricreativa al benessere cerebrale.
Il movimento a scopo ricreativo e gli aspetti positivi psicologici che spesso lo accompagnano, come l’impegno, la riflessione, la soddisfazione e l’allegria, producono (sinteticamente) una riduzione della glicemia e del colesterolo “cattivo” (due importanti fattori di rischio vascolare ed anche degenerativo cerebrale), del peso corporeo (a cui consegue facilmente un miglioramento della qualità del sonno, la riduzione del russamento e\o delle apnee nel sonno), dei problemi articolari a piedi e ginocchia e globalmente della personale funzionalità e autonomia motoria. Insomma: della qualità di vita.
L’attività motoria ricreativa induce “chimicamente” un aumento della serotonina (mediatore chimico cerebrale dell’umore e del benessere. Ovvero: ha una valida e comprovata azione antidepressiva, gratuita!), di un fattore di crescita neuronale, il BDNF, e dell’Insulin-like Factor (IGF-1).
Il BDNF, in laboratorio, potenzia la capacità di sopravvivenza dei neuroni, promuove la neurogenesi (la scoperta di neuroni “staminali” del nostro cervello avvenuta circa venti anni fa ha accantonato la Teoria delle 4 N: Non Nascono Nuovi Neuroni) e la crescita dei prolungamenti e delle connessioni, le sinapsi neuronali. Nell’animale l’infusione del BDNF protegge la corteccia dai danni prodotti da una ischemia cerebrale. Anche un ambiente ricco di stimoli induce un aumento di BDNF, ulteriore conferma che una vita culturalmente attiva rappresenta un fattore protettivo.
L’Insulin-like Factor (IGF-1) agisce sul metabolismo del glucosio e con un meccanismo complesso sui neuroni (la malattia di Alzheimer viene chiamata da alcuni ricercatori il “terzo tipo di diabete”). Gli effetti dell’attività motoria ricreativa fatta in modo continuativo sarebbero particolarmente evidenti a carico dell’ippocampo, una regione cerebrale che riveste un ruolo centrale nei processi di apprendimento e memoria, e che appare essere particolarmente colpita in corso della malattia di Alzheimer.
Non è finita: telomeri e telomerasi. La telomerasi, detta “l’enzima dell’immortalità”, impedisce che le estremità dei cromosomi, i telomeri, si accorcino con le divisioni e il passare degli anni. Gli studi su telomeri e telomerasi, cominciati all’inizio degli anni ’80, hanno valso il premio Nobel nel 2009 alle due ricercatrici americane Elizabeth Blackburn e Carol Greider e all’inglese Jack Szstak.
Esistono a tal proposito delle evidenze scientifiche a favore dell’utilità dell’esercizio fisico ricreativo: in un campione di sedentari sani e non fumatori i telomeri sono risultate più corti (di circa 200 nucleotidi) rispetto a quelli di un campione di sportivi professionisti, le cui cellule sono, quindi, più giovani di circa 10 anni.
Solamente due dei tantissimi lavori scientifici pubblicati su riviste autorevoli, di certo non sponsorizzati dalle lobby delle scarpe!
L’esercizio fisico allunga la vita, a qualunque età: 14.599 soggetti tra 40-80 anni sono stati seguiti per 8 anni. Il passaggio da una vita sedentaria ad un’attività fisica moderata per almeno 150 minuti a settimana appare associato a una riduzione del rischio di morte per malattie cardiovascolare del 29%, per qualunque causa del 24%, per cancro dell’11% (Mok A. et al. Physical activity trajectories and mortality: population based cohort study. BMJ 2019 Jun 26;365:l2323).
È emerso persino questo aspetto che trovo sublime: quando si cammina in compagnia la sincronizzazione dei passi diventa una forma di comunicazione non verbale. Per condurre lo studio i ricercatori hanno accoppiato uomini e donne – che indossavano registratori vocali e sensori di movimento - facendole camminare lungo un percorso tranquillo e privo di barriere. Una camminata silenziosa all’andata e conversando al ritorno; una camminata sempre silenziosa e, infine, stare seduti, in silenzio, compilando un questionario per valutare le impressioni sui partner prima e dopo ogni camminata. Le coppie che si erano dichiarate in sintonia hanno registrato una maggiore sincronizzazione nella camminata, soprattutto le coppie femminili rispetto a quelle maschili e i partecipanti più anziani (Miao Cheng et al. Walking together: personal traits and first impressions affects step synchronization. Plos One. February 21, 2020).
Come elaborare un programma motorio? L’attività motoria con gli adulti e con gli anziani non va intesa come intervento riabilitativo offerto a persone colpite da eventi invalidanti (fratture, ictus cerebrale, ecc.), né come attività agonistica destinata a sportivi che per tutta la vita hanno coltivato l’abitudine all’esercizio fisico, ma ha valore di proposta motoria di “mantenimento” finalizzata ad attivare (o riattivare) capacità motorie mortificate da decenni di vita sedentaria al fine di ottenere, compatibilmente con altri fattori sociali e sanitari, un auspicabile “invecchiamento di successo”.
A seconda dell’età, delle abitudini e dello stato di salute appare consigliabile ed opportuno procedere ad una valutazione medica preventiva generale o eventualmente specialistica, a cui far seguire un programma finalizzato e adattato all’individuo secondo requisiti di efficacia e tollerabilità, che tenga conto di alcuni rischi in particolare a carico dell’apparato muscolo-scheletrico e cardiovascolare.
È necessario rapportare l’intensità e il ritmo dell’esercizio fisico alle capacità funzionali, valorizzando anche gli aspetti relazionali, rilassanti e divertenti (ridere fa bene…). Standard internazionali consigliano almeno 150 minuti di camminata a medio-alta intensità alla settimana, ad esempio 30 minuti per 5 volte la settimana, mentre altri propongono 45 minuti per almeno tre volte la settimana. Riuscire ad organizzare gruppi di cammino rappresenta una soluzione ottimale.
Non è mai troppo tardi per cominciare, basta iniziare dicendo no all’ascensore e ai preconcetti legati al “meritato” riposo da pensionamento! Non c’è spazio per le scuse: “non ho tempo, sono stanco, non ho voglia; non sono capace; mi faccio male; non ho soldi; chi pensa alla spesa e a cucinare?”
D’altra parte, al consiglio per la salute da parte del medico “Deve passeggiare almeno mezz’ora al giorno e vedrà che starà meglio” l’anziano potrebbe rispondere, a dire il vero, con un giustificato “Passeggiare con chi, dove e come?” che deve farci riflettere.
Per superare gli ostacoli iniziali a volte serve qualcuno (lo chiamo l’angelo salvatore), un amico, un conoscente, un volontario che ci stimoli o ci metta a contatto con realtà di progetti organizzati di prevenzione e promozione della salute, che sono sempre più numerosi.
I programmi di promozione della salute dovrebbero prevedere il cammino come esercizio fondamentale con l’obiettivo di conservare l’autonomia e l’efficienza il più a lungo possibile… e di evitare almeno qualche farmaco.
L’attività fisica ricreativa in generale possiede un ruolo centrale nell’ambito della gestione del tempo libero degli anziani, e questo sostanzialmente per due motivi. Il primo è dovuto ai benefici che comporta un ottimale stato di efficienza fisica (il mese scorso ho dedicato un articolo ai piedi – e non solo - degli anziani: il secondo è determinato dalla possibilità che offre l’utilizzare il “tempo in movimento”: un atteggiamento positivo verso la vita, l’incontro con altre persone con cui condividere un interesse e la possibilità di intrecciare e consolidare relazioni sociali positive, tutti fattori protettivi.
Camminare in compagnia, fa bene, ne ho accennato prima.
Un consiglio: se siete da soli portatevi un pezzo di carta e una penna perché vi verranno certamente delle idee, a volte delle vere illuminazioni. La camminata è creativa! Nietzsche, nel Crepuscolo degli dei, asseriva convinto che “solo i pensieri che hanno camminato hanno valore”. Ernest Hemingway in Festa mobile scriveva “passeggiavo lungo i quais quando avevo finito di lavorare o quando cercavo di farmi venire qualche idea”. Camminando si medita più agevolmente e si può decidere con appropriatezza: solvitur ambulando, si risolve camminando, affermava Diogene nel IV secolo a.c.
Manipolo Dante allo scopo di regalarvi un sorriso: “Fatti non foste a viver da seduti!”.
E infine Pietro Citati (da la Repubblica di qualche anno fa) ci insegna che si può ancora passeggiare in un mondo che ha smesso di camminare: “Nella mia vita ho passeggiato molto. Per almeno quarant’anni ogni giorno alle 14 uscivo di casa… La passeggiata pomeridiana…aveva, per me, un’importanza capitale. Mi riposava, mi irrobustiva, mi dava calma e quiete. Soprattutto cancellava tutti i pensieri della mattina: la mia mente diventava vuota, si compiaceva di essere vuota; e cominciavano a nascere altri pensieri, che lentamente si formavano, costruivano un’architettura nella quale sarei vissuto il pomeriggio e la sera. La giornata diventava nuova, la mente agile, e il sonno si preparava e si annunciava da lontano. Non ero solo...c’erano i nonni, una stirpe a cui allora non appartenevo ma che mi ha sempre affascinato. Ora, tutto è cambiato. Quasi nessuno passeggia più. E i nonni, i pensionati, gli sfaccendati dove sono andati a finire? Cosa fanno? Vivono prigionieri dei loro tristi pensieri o delle mura delle proprie case. Vorrei che si ricordassero o (se non hanno ricordi) imparassero. Niente è più bello che passeggiare contemplando gli alberi o guardando lievemente, senza preoccupazioni, dentro se stessi…”.
Di quanti intellettuali di rango abbiamo bisogno in questo scenario dominato dall’aumento delle parabole sui tetti e delle porte blindate?
Camminare è indubbiamente l’attività fisica ideale in quanto non richiede attrezzature o abbigliamento particolari, può essere praticata da (quasi) tutti, si svolge all’aperto – e spesso col beneficio delle radiazioni solari sulle ossa e sull’umore, oppure respirando gli odori del bosco, condizioni climatiche permettendo, non fa perdere tempo nei preparativi, non sovraccarica la colonna vertebrale e le articolazioni degli arti inferiori (se il peso corporeo non è eccessivo…).
Su questo argomento interverrà prossimamente in questo sito Chiara Baradello, biologa, nutrizionista e guida ambientale che in modo originale abbina le sue competenze, ovvero i consigli dietetici, associandoli all’attività motoria, culturale e naturalistica. Illustrerà cosa-quanto mangiare completando il quadro del come-quanto-dove muoversi fisicamente, per stare meglio da subito e per rinviare la fragilità del futuro.
Il nordic walking permette di estendere l’esercizio al resto del corpo, in particolare agli arti superiori, peraltro con movimenti alternati e opposti di braccia e gambe che migliorano la coordinazione stimolando nel contempo i centri cerebrali frontali; nel contempo l’uso dei bastoncini alleggerisce il carico del peso, magari superiore alla norma, sulle ginocchia e le altre articolazioni sensibili.
Chi abita in qualche zona di transito, un “non luogo” (succede se si vive in certe periferie piuttosto desolate), attraverso il movimento può essere piacevolmente condotto in un più affascinante altrove.
Renzo Piano prova a immaginare un mondo dove non c’è differenza tra urbano e rurale, centro e periferia. Esiste, dice lui: “basta progettarlo. Ed è da qui che possiamo ripartire. Perché vivere distanziati è vivere di meno: ho passato una vita a costruire luoghi pubblici, scuole, biblioteche, musei, teatri. E poi strade, piazze e ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori, le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi dove ci si confonde gli uni con gli altri, e dove si celebra il rito dell’incontro: questi luoghi sono tutti chiusi oggi, a causa del Covid, ma non ci dobbiamo arrendere (Robinson di la Repubblica del 21 novembre 2020)”.
L’attività fisica è, in conclusione, uno strumento efficace per contrastare i fattori di rischio delle malattie cardiovascolari e dismetaboliche (diabete in primis) ed alle loro conseguenze a livello cerebrale. Agisce anche nel ritardare il possibile declino cognitivo nel soggetto sano e nei soggetti con demenza in fase iniziale, migliora persino il comportamento (in senso lato) delle persone con demenza in stadio avanzato. Combatte la depressione ed accresce la motivazione a prendersi cura di sé per occuparsi del proprio benessere.
L’esercizio va considerato alla stregua di un farmaco che, opportunamente somministrato, previene le malattie croniche da inattività e ne impedisce lo sviluppo, garantendo considerevoli vantaggi sia alle singole persone, sia al Sistema Sanitario Nazionale riducendo ospedalizzazioni e uso di medicinali.
Arrivo alla fine del mio scritto con una battuta del formidabile W. Allen: “Prima di salutarvi vorrei inviarvi un messaggio positivo, ma non ne ho… Vanno bene due negativi?”
Io vi propongo un pari: un tremendo proverbio ebraico utile però a convincere qualcuno a cambiare registro alla propria vita (“Chi non trova tempo per l’attività fisica troverà tempo per le malattie”) e una conclusione allegra, un invito a ballare, un’aurora di spensieratezza!
Movimento, ritmo, gioia, compagnia…
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Una casualità? Nei giorni scorsi ho avvertito il bisogno di rileggere il bel libro di Atul Gawande Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo. E mi sono pure riletto la recensione accurata che ne ha fatto qui tre anni fa la nostra Lidia Goldoni.
Nel frattempo è sopraggiunta la morte di Eddie Van Halen. Che strampalata connessione, penserete! Vado con ordine.
Tra i vari messaggi lanciati nel suo libro da Gawande (notevoli sono gli spunti sui quali l’autore ci aiuta necessariamente a riflettere, e a rileggerlo), Lidia si è soffermata su diversi aspetti rilevanti.
Riporto solo alcuni brani: “… Gawande si sofferma su due condizioni, la vecchiaia con la sua non autosufficienza e un “fine vita governabile”, che non sono in assoluto coincidenti, ma spesso si sovrappongono. Nella prima parte si parla di anziani che per ragioni diverse devono fare i conti con la perdita di non autosufficienza, con previsioni diverse di sopravvivenza, con la necessità di riprogrammare la propria vita. Nella seconda parte è la morte la protagonista con cui fare i conti quando le disabilità funzionali si accompagnano a dolore, sofferenza, condizioni di vita insopportabili sul piano fisico e psicologico… Gawande si sofferma con la consueta sensibilità sulle scelte di fine vita che, come gli viene ricordato dai professionisti, non sono sinonimo di richiesta di morte anticipata, ma di garanzia del massimo di qualità di vita assicurata in circostanze date… Quando alla fine degli anni ’80 si cominciò ad affrontare il tema della non autosufficienza, legato al prolungamento della speranza di vita, non si fece tesoro, adattandolo a questi cittadini, di tutta la cultura deistituzionalizzante che la chiusura dei manicomi, ma anche degli ospizi, degli istituti per bambini o per disabili era maturata negli anni precedenti e aveva trovato risposte nelle comunità alloggio, nelle case protette, negli interventi domiciliari. La vecchiaia come dice Gawande diventò una diagnosi e come tale dovevano essere i medici a gestirla…
C’è in tutto il libro, un’accusa pesante alla classe medica o più in generale alla cultura medica…”.
Rimanendo sempre tra le davvero numerose, documentate, provocatorie osservazioni lanciate da questo testo, io vorrei invece volare basso e soffermarmi, in considerazione del tema che mi sono imposto, su alcune sue pagine “pratiche” che riguardano gli anziani… e i loro piedi.
Prima però trascrivo qui l’incipit di Essere mortale, vale la pena rileggerlo: “Nei libri di testo non c'era praticamente niente riguardo all'invecchiamento, alla fragilità, al morire. I modi in cui si svolge il processo, in cui le persone vivono la fine della propria vita e in cui tutto questo si ripercuote sui loro cari sembravano temi non pertinenti. Per come la vedevamo noi, e per come la vedevano i nostri docenti, l'obiettivo dell'istruzione universitaria era insegnare a salvare le vite, non a prendersi cura di come finivano”.
Insomma, l'università prepara dei guerrieri col camice bianco. A tutti noi viene insegnato a sfoderare l'alabarda spaziale di Goldrake, ma nessuno parla di morte, di limite, di incertezza. Sono parole che non si pronunciano quasi mai in medicina.
Gawande è, quindi, un chirurgo con la sensibilità di un geriatra.
Un giorno decide di andare a “vedere come si fa una visita geriatrica” dal collega Juergen Bludau, primario del reparto. Jean Gavrilles è la prima paziente di quel mattino, ha ottantacinque anni e diverse patologie.
“Quando si era alzata dalla sedia, Bludau aveva notato che non si era aiutata con le braccia per tirarsi su: forza muscolare conservata, calorie introdotte sufficienti…
Bludau le pose domande dettagliate su come passava la giornata… esaminò occhi e orecchie, le chiese di aprire la bocca (la lingua era secca), osservò le mani ben curate…
Provai a pensare a quali risultati poteva arrivare questa visita di soli quaranta minuti. Bludau doveva valutare le principali urgenze diagnostiche concentrandosi o sul problema potenzialmente più letale (le possibili metastasi) o su quello che causava più disagio (il mal di schiena). Lui però non la vedeva così.
Non chiese quasi niente su queste due criticità. Invece dedicò la gran parte della visita all’osservazione dei piedi… Jean faceva fatica a togliersi le calzature, e Bludau, dopo essere rimasto per un po’ a seguire i suoi sforzi, si chinò per aiutarla. Dopo averle sfilato le calze, le prese i piedi in mano, uno per volta. Li esaminò centimetro per centimetro…. Aveva i piedi gonfi, le unghie lunghe, non tagliate da tempo, ulcere tra le dita, callosità rotonde”.
A questo punto il geriatra, dopo avere aiutato la paziente a rimettersi calze e scarpe, espose a lei e alla figlia il suo parere. Sveglia di testa e fisicamente forte, il rischio per lei era rappresentato da una caduta. … i tre principali fattori di rischio per le cadute sono scarsezza di equilibrio, assunzione di più di quattro farmaci prescritti dal medico e debolezza muscolare. Un anziano che non presenti questi fattori di rischio ha una probabilità di cadere del 12 per cento annuo. Per quelli che li hanno tutti e tre, la probabilità sale quasi al 100 per cento. Jean Gavrilles ne aveva due. Il suo equilibrio lasciava a desiderare… Stava anche prendendo cinque farmaci…
… Compito del medico, mi disse più tardi Bludau, è sostenere la qualità della vita, espressione con cui intendeva due cose: la massima libertà possibile dalle devastazioni della malattia e la conservazione di un livello di funzionalità sufficiente per partecipare in modo attivo alle cose del mondo. I medici per la maggior parte curano la malattia, pensando che il resto si sistemerà da sé. E se il resto invece non si sistema, e se un paziente sta sempre peggio e si avvia verso una degenza in casa di riposo, questo non è un vero e proprio problema medico. Certo che no.
Per il geriatra, invece, lo é…
Bludau perciò inviò la signora Gavrilles da un podologo…
Tra le cose che ho imparato nel corso della mia vita professionale, alcune attingono al sapere dei geriatri: nei loro testi le cadute assurgono a capitolo a sé per il reale valore che contengono nel mondo reale sempre più popolato da persone di una certa età. Le cadute sono un segnale di fragilità e nello stesso tempo comportano anche un bagaglio di conseguenze pesanti, immediate e future: sindrome da immobilizzazione, limitazioni articolari, compromissione della mobilità, perdita di massa muscolare, depressione, malnutrizione, carenze vitaminiche e di esposizione solare, possibilità di delirium, enormi circoli viziosi che malevolmente si influenzano tra loro in una corsa al peggio, e persino la sindrome della paura di cadere.
La “Fear of falling sindrome” limita ulteriormente l’autonomia del paziente che è già andato incontro a una o più cadute: un anziano che cade, temendo per successive cadute, evita di camminare e se lo fa si muove per una ridotta distanza, con lentezza ed un esasperato atteggiamento di estrema cautela, aggrappandosi continuamente a supporti che possono salvaguardarlo. Qui il mondo emotivo penetra con prepotenza in quello “organico” cerebrale, che ha il compito di organizzare un cammino indipendente.
La caduta diventa, a questo punto, un tatuaggio emotivo.
Bisogna lottare per il corretto riconoscimento del “valore” delle cadute nella Persona fragile poiché la nostra medicina, sempre più d’organo e tecnicizzata, le trascura ritenendole eventi “non nobili”. E invece, lo stesso Ministero della Salute definisce la caduta come un evento “sentinella” di fragilità.
Dopo Gawande arrivo a Eddie Van Halen. È scomparso pochi giorni fa, a soli 65 anni, l'inventore del suono della chitarra elettrica rock degli anni ‘80, di quello spirito completamente spensierato, estroverso, pirotecnico, un'eruzione inarrestabile di puro godimento elettrico.
Ma cosa c’entra il rock con gli anziani, anzi coi piedi degli anziani e con i confetti M&Ms?
Nel 2017 Andrea W. Scwartz pubblicò sull’autorevole JAMA un articolo dal curioso titolo: What Van Halen Can Teach Us About the Care of Older Patients.
Sembra assodato che il gruppo rock richiedesse per contratto agli organizzatori dei loro concerti di predisporre nel camerino alcuni contenitori di M&Ms, dai quali fossero stati tolti quelli di color marrone. Se ciò non avveniva correttamente, sospendevano il concerto. Per loro era una dimostrazione chiara, da parte di chi organizzava l'evento, della scarsa attenzione ai particolari, ai dettagli seppure apparentemente marginali, una condizione che a loro parere non avrebbe concesso le normali e attese garanzie per una performance ottimale.
Nell’articolo, l’autore si sofferma sul significato dei dettagli che devono richiamare l'attenzione ed è così che dal rock ci conduce per mano a tre condizioni alle quali dare un'attenzione primaria nel prendersi cura degli anziani da parte del mondo sanitario, del medico in particolare.
Il primo dettaglio riguarda il “come si presenta un paziente”.
Chi fa il mio mestiere di neurologo dei vecchi sa che “la visita inizia in sala d’aspetto” attraverso le modalità con cui una Persona anziana si presenta in ambulatorio, la velocità con cui si alza dalla sedia o poltrona, si incammina verso lo studio. Già un’osservazione di questi requisiti per dieci o più secondi può disegnare un quadro di buona o cattiva autonomia, di ottima indipendenza o di ampio timore per l’imminente futuro. In qualche caso orienta subito sulla diagnosi. Gawande ce ne ha parlato attraverso l’esperienza di Bludau. Certamente, per una valutazione completa servono diverse procedure necessarie a comprendere come vanno forza, destrezza e “organizzazione” dei movimenti, equilibrio ed altro ancora. Ma non sempre è necessario procedere al noto test del cammino in 6 minuti Six minutes walking test (6MWT): in molti casi, appunto, può bastare una manciata di secondi per avere un’idea di ciò di cui dovremo poi occuparci con maggior rigore.
Aggiunge Scwartz: la seconda modalità da osservare riguarda le difficoltà o meno con la quale la persona si mette e si toglie le calze, mentre la terza pone l'attenzione proprio ai piedi, in particolare allo stato delle unghie.
L’autore le chiama le tre bandierine di segnalazione. Esse fanno il punto su problemi di salute, sulla prognosi, sulle modalità e sugli obiettivi delle cure: tre aspetti relativamente semplici da rilevare che permettono di cogliere i messaggi che vengono dal canovaccio davvero complesso che fa spesso da sfondo allo scenario della vulnerabilità.
La prima bandierina è in grado di indicarci la presenza di alterazioni osteoartrosiche e di dolore, ma anche di una probabile debolezza e perdita muscolare, di un iniziale parkinsonismo, di alterazioni dell’equilibrio, di una subdola sindrome della paura di cadere.
La seconda condizione è un segnale forte di rischio di ridotta autonomia che può facilmente coinvolgere la possibilità di vestirsi e di avere una normale vita sociale.
La terza, la scarsa o assente cura delle unghie dei piedi, può dipendere anch’essa da una difficoltà personale prettamente fisica a provvedere al taglio, ma può segnalare a volte uno stato di apatia e\o di depressione (magari mascherata, come avviene spesso negli anziani), oppure indicare che la persona non vuole dichiarare “orgogliosamente” i propri impedimenti fisici e di conseguenza non ricerca l'aiuto di un familiare. La mancata ricerca di una soluzione praticabile (il podologo, ad esempio) può dipendere da estrema solitudine, da fattori economici e, infine, da ridotta capacità critica del proprio stato a causa di un processo che coinvolge la cognitività, di cui, appunto, la facoltà di critica fa parte.
Dall’indagine non vanno certamente esclusi i familiari, talvolta stanchi e logorati dal lavoro di cura, oppure disattenti e distanti per motivi affettivi.
Eseguire una regolare e accurata “manutenzione” dei piedi rende liberi di camminare, e camminare fa bene, non ce lo dicono da anni l’Adidas o qualche lobby delle scarpe bensì studi scientifici scrupolosi! Camminare, praticare una consona attività motoria ricreativa, allontana lo spettro della fragilità generale e persino di quella cognitiva attraverso la messa in gioco di fattori di crescita neuronale come il BDNF. Insomma, “ci fa ragionare anche coi piedi”!
- Autore/rice Laura Valentini
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Diario da Ca' nostra in tempo di COVID 19
Laura Valentini – Presidente della Comunità familiare Ca' nostra
La comunità familiare “CA’ nostra” nasce nel 2016 da un progetto pilota a livello nazionale.(link)
Esso si è rivelato vincente in tempi normali, visti i vari benefici raggiunti tra i residenti grazie ad un ricerca di socializzazione e famigliarità, anche alla continua formazione delle assistenti, tramite l’intervento di noi familiari e con il contributo di figure professionali sostenute dall’Associazione G.P.Vecchi, dal Comune di Modena ed dall’Ausl di Modena.
Da quando si è avuta notizia del Covid19 tuttavia, abbiamo dovuto isolare la casa, limitandoci a depositare le spese, i farmaci, i presidi sanitari, ecc. nell’atrio del palazzo.
All’inizio questo isolamento forzato è stato vissuto con la grande paura che i nostri cari a lungo andare non ci avrebbero più riconosciute.
Poi, via via che il tempo passava, abbiamo capito che le assistenti in nostra assenza avevano messo in campo tutte le abilità apprese in periodo “normale pre-Covid”, eseguendo, tra le altre cose, l’utilissima stimolazione cognitiva e motoria in modo esemplare (oltre al necessario lavoro di cura quotidiano).
Abbiamo quindi attivato le videochiamate attraverso il PC o attraverso il telefono oppure siamo andati a trovarli e parlare loro sul balcone e e noi in cortile; abbiamo visto che la relazione con loro non è stata affatto compromessa!
Prova questa che non si era verificato il temuto decadimento cognitivo dovuto all’isolamento, perché a Ca’ nostra stanno bene.
Questo ovviamente ci ha molto rincuorate, soprattutto se pensiamo alla situazione di molti anziani che si sono trovati improvvisamente soli in casa con la badante, o di tante famiglie che sappiamo aver affrontato in solitudine questo tremendo periodo.
Per questo anche in questo frangente sono molto felice di poter affermare che a quattro anni dalla partenza, nell’ormai lontano maggio 2016, il progetto Ca’ nostra ha dimostrato di essere una soluzione vincente, nata in tempi non sospetti.
Nicoletta Cappellini, figlia di Adriana Nicolai.
La mia mamma è entrata a Ca’ nostra nel maggio 2016.
Io partecipo con altre figlie e una nipote alla gestione bellissima di quattro persone tra cui mia madre Adriana Nicolai, affette da Alzheimer, che vivono assieme a Ca' nostra.
Volevo sottolineare che, durante questo assurdo periodo, la vita nella casa è stata gestita da noi parenti e dalle Collaboratrici in modo esemplare.
Le Assistenti, con premura e attenzione, hanno rispettato le regole dettate ufficialmente, come la protezione individuale con guanti e mascherina, assolvendo le loro attività quotidiane verso i nostri cari per mantenere e migliorare le loro capacità residue sia a livello cognitivo che fisiche, con attività motorie dolci di tutte le diverse parti del corpo e ludiche.
In questo piccolo paradiso con tutte le regole, le premure e le attenzioni del caso la nostra e loro vita si è proprio mantenuta quasi come sempre, diversa da quella di tanti altri ospiti di case di riposo e CRA di cui tutti noi abbiamo conoscenza!
E che dire: la cohousing ci ha insegnato che la lontananza rafforza i sentimenti e i buoni propositi.
Siamo riusciti a comunicare con loro solo con delle "video-chiamate", ma con tante emozioni!
È un progetto che salva la dignità dei più fragili e ci aiuta a migliorare anche noi mettendo in gioco le nostre capacità personali, a differenza delle strutture, mantenendoci così anche stando forzatamente lontani, più vicini a loro.
Paola Malagoli, figlia di Oriella Pellati.
Da quando la mamma è a Ca’ nostra dal 2017 ho percepito soprattutto una grande dignità nella malattia. È un modello in cui viene tenuta presente la persona e non solo la malattia, per spiegarmi meglio: la mamma non è la sua malattia.
Durante l’esperienza dell’isolamento dovuto al Covid ho percepito i benefici dell’essere comunità.
Abbiamo preso tutte le decisioni insieme, anche le più forti, assumendocene le responsabilità in prima persona.
A “Ca’ nostra” non esiste la delega in bianco: questo mi fa sentire partecipe nella cura della mamma e mi fa sentire bene.
Cecilia D'Angelo nipote di Carmelo.
l progetto di coabitazione Ca’ Nostra è arrivato per noi in un momento di grossa fragilità e ci siamo trovati davanti a scelte emotivamente molto difficili in merito all'accudimento di mio zio che ha sempre vissuto con la mia famiglia.
L'unica certezza e desiderio è sempre stato il volergli assicurare il calore familiare.
Ca’ Nostra è Casa, dove tutti insieme siamo famiglia. Ognuno con il proprio bagaglio ha fatto e si è fatto posto.
In collaborazione con SPIMo il Sindacato Pensionati Italiani sede di Modena sono stati realizzati tra gli altri due documentari di cui uno durante la quarantena per il COVID-19.
- Autore/rice Laura Nave
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Oggi è il mio turno spesa. Capita una volta al mese, ma mai come in questo periodo lo faccio volentieri.
La stradina è tranquilla. Lo è sempre e se possibile lo è ancora di più in questi giorni di restrizione alla mobilità. Nel silenzio si possono sentire i tintinnii delle campane a vento (ne abbiamo appese un po’ dovunque) che s’intrecciano con i richiami degli uccellini che godono appieno la bellezza di questa primavera sfacciata, dell’aria senza smog, della città silenziosa. Quando mi avvicino al muro di cinta della villetta, intravedo la mia mamma che passeggia nel giardino pieno di fiori con la sua andatura un po’ rallentata. Non è molto anziana, ma da una decina d’anni è malata di Alzheimer e la progressione inesorabile della malattia rende necessario che lei sia accudita anche per lo svolgimento delle attività più semplici. Ormai fatica a parlare e anche a camminare, tuttavia è ancora così bella con il foulard e il suo cappellino viola a tesa larga! Le signore che la accudiscono, e che sono con noi da molti anni, fanno in modo che lei sia sempre curata ed elegante, proprio come quando stava bene e poteva provvedere da sola al suo abbigliamento. Non so se oggi mi riconoscerà, anche perché indosso la mascherina, ma la mia voce riesce ancora a strapparle un sorriso. E mi sento davvero molto fortunata. Sono felice per lei, per la soluzione che ho trovato per lei, la coabitazione nel Cohousing Demaison (1).
Mi fa rabbrividire il pensiero che, se fosse ricoverata in una struttura, anche nella migliore delle strutture, in questo lungo periodo di quarantena non avrei potuto vederla.Mi sono identificata in quei familiari, persone come me, che sono stati private anche dell’abituale grado di accudimento che potevano dare ai propri cari e che in qualche modo li faceva sentire più sereni. Che hanno paura di perdere questi affetti senza nemmeno un vero commiato. Un dolore lunghissimo da sostenere.
Come tutti ho negli occhi le immagini delle bare accatastate e nel cuore le parole di quell’anziano signore, dignitoso ed elegante anche nella sofferenza e nella morte, che lamenta la mancanza di un sorriso, di una carezza, la mancanza di rispetto per lui e il suo modo, speciale e unico, di essere al mondo.Mi ha stretto il cuore la sua perdita e quasi ancora di più la perdita di tutti quelli, senza voce, che non hanno saputo o potuto trovare parole così precise, pacate e sagge per descrivere il proprio dolore. Penso agli altri anziani e ai malati di demenza come la mamma, a tutti quelli che l’emergenza Covid non la capiscono poi tanto bene, anche se gliela spieghi più volte, e che, in effetti, si sentono proprio traditi e abbandonati dai familiari, che non vedono da molti giorni.
Certo ho visto in televisione operatori di buona volontà che cercavano di mostrarglieli su un tablet, ma so per esperienza che per un malato di demenza è proprio come guardare una fotografia, una diavoleria che non serve proprio a nulla, che non gli scalda il cuore. Non li rassicura dallo spavento che provano per il clima di inquietudine che percepiscono intorno a sé, o per la paura che incutono le figure imbacuccate degli operatori che si aggirano tra loro ancora più frettolosamente del solito, che si tengono a distanza di sicurezza, anche emotiva, perché certo non deve essere facile veder morire come mosche le persone che stai accudendo, alle quali magari potresti anche affezionarti, perché ti fanno simpatia, perché ti fanno pensare ai tuoi nonni… Per fortuna in Friuli non abbiamo avuto così tanti contagi come in altre regioni d’Italia a noi vicine, ma anche qui decessi hanno riguardato in buona parte ospiti delle case di riposo. Ovviamente per tutta questa sofferenza si stanno cercando responsabilità ed errori, una risposta al dramma, e viene piuttosto facile puntare il dito contro le strutture residenziali protette. Personalmente non credo che sia del tutto corretto cercare i colpevoli tra le file degli OSS, degli infermieri, o dei dirigenti delle case di riposo. È piuttosto Il sistema che non ha retto. Forse quanto è accaduto in questa situazione di emergenza ha semplicemente portato allo scoperto un problema che già c’era, ma che si preferiva ignorare. Forse la pandemia di Covid 19 ci costringe finalmente a prendere atto del fatto che è una contraddizione in termini chiedere personalizzazione e una cura attenta e sensibile a una struttura che già nei grandi numeri dell’accoglienza è spersonalizzante…Con un personale cui si chiede più di essere veloce che sensibile, per rispettare i tempi, certo, per la funzionalità di una struttura complessa, anche senza voler pensare a motivi puramente economici di risparmio o di lucro, che pure potrebbe essere, purtroppo, la motivazione di alcuni imprenditori. È un po’ come chiedere a un abito industriale di avere cuciture e dettagli fatti a mano e di adattarsi perfettamente a quel nostro particolare fisico, a quelle nostre specifiche esigenze. Magari è un abito magnifico, di ottima qualità, ma non è fatto su misura per noi e ce ne dobbiamo fare una ragione.
L’alternativa che si dà per scontata, quella cui generalmente si fa riferimento parlando di sostegno alla domiciliarità, è quella dell’assunzione di un’assistente familiare, la cosiddetta badante. In tempi di “pace” questa modalità rassicura e convince molti familiari in quanto il malato rimane nella propria casa e l’assistenza è certamente personalizzata. Naturalmente anch’io l’ho valutata, anni fa, ma mi sono resa conto che non solo non mi avrebbe consentito di proseguire nella mia attività professionale il dover coprire le assenze dell’operatrice durante le pause dai turni di lavoro e che il piccolo appartamento di mia madre si sarebbe trasformato in una gabbia, uno spazio inadeguato a contenere il suo bisogno di muoversi senza sosta (wandering) e l’affaccendamento, ma soprattutto che è una modalità assistenziale decisamente povera di stimoli per il malato e che porta spesso al burnout della badante, in buona parte per la mancanza di una dimensione sociale per entrambi. È ormai ampiamente dimostrato che la vicinanza dell’altro, il ritmo della condivisione, lo sguardo che ti accoglie e ti sostiene sono essenziali per tutti gli esseri umani e che nel caso dei malati di demenza la relazione diventa addirittura uno strumento terapeutico centrale e potente.
A causa della pandemia, oltre a questi elementi, sono emerse nuove criticità di questa modalità assistenziale che si è trasformata per molti in un incubo. Alcune badanti, quelle che ci sono riuscite, sono rientrate nel loro paese di origine allo scoppio dell’emergenza sanitaria, lasciando le famiglie dei loro assistiti in grosse difficoltà; altre sono rimaste bloccate qui a causa della chiusura delle frontiere, costrette da quasi due mesi a lavorare senza soluzione di continuità, a convivere con i loro assistiti e le loro difficili patologie senza potersi prendere nemmeno una pausa di svago e di ristoro. Dubito davvero che possa essere un’assistenza di qualità quella prestata da una persona che si trovi in uno stato di così grave disagio. Soprattutto quando parliamo della cura di un malato di demenza al quale è molto difficile spiegare le restrizioni e le necessità dettate dal pericolo di contagio.Invece la realtà di cohousing che ho creato ormai da sette anni per la mamma è “sartoriale” e anche in questa fase di emergenza pandemica si è rivelato una scelta vincente. Essendo Interamente autogestito, tocca a me, e ai familiari degli altri due residenti prendere ogni tipo di decisione. Purtroppo sono state inevitabili alcune limitazioni; abbiamo dovuto interrompere una serie di attività che avevamo scelto, tenendo conto dei gusti e della fase avanzata della malattia, per arricchire di senso e di stimoli la giornata della mamma e degli altri co- residenti. Niente laboratorio artistico in questo periodo, niente shiatsu o campane tibetane. Abbiamo ovviamente ritenuto di essere prudenti e di proteggere il più possibile la sicurezza di questa oasi, nell’interesse dei nostri cari e delle due operatrici residenti. Veniamo qua molto più raramente di prima, soprattutto per portare la spesa, per i farmaci, per risolvere qualche piccolo problema della casa. Quasi sempre ci limitiamo a sostare in giardino nell’ora in cui la mamma e gli altri si crogiolano nel sole, socchiudendo gli occhi con piacere, proprio come i gatti del vicinato, che lo scelgono spesso come teatro di giochi e scorribande. Certo la mamma sente la mancanza delle coccole, dei baci e delle carezze che le davo prima del Covid 19. Entro solo indossando camice, mascherina, guanti di lattice, ma posso esserci. Posso vedere con i miei occhi il suo benessere. Posso accarezzarla con la mia voce.
Posso anche rassicurare le signore, poverine anche loro, che sono lontane da casa e sentono storie sconfortanti. Una loro collega, ad esempio, morta per il Covid 19 e le cui ceneri non sono ancora state restituite alla famiglia, altre che hanno tentato di rientrare in patria, ma sono state fermate ai confini. Ma soprattutto sentono i racconti di quelle colleghe, tante, che dal lockdown sono state intrappolate, ostaggio del Covid 19, in una casa con un assistito, magari un malato di demenza, e non possono più allontanarsi, a causa delle restrizioni alla mobilità e al fatto che i familiari, a loro volta, sono limitati nella possibilità di intervenire per le sostituzioni. Mesi senza potersi concedere le pause di meritato riposo e si sentono infinitamente sole, senza nemmeno le quattro chiacchiere che si scambiano abitualmente ai giardinetti pubblici. Una situazione così insostenibile da farle immaginare di rinunciare a prossimi incarichi e non riprendere più il lavoro una volta che abbiano riguadagnato il proprio Paese.
Le nostre signore invece, sia le due residenti sia la terza che le supporta alcune ore settimanali, hanno continuato a svolgere come d’abitudine e con relativa serenità il proprio lavoro, ma anche i propri turni di riposo. Sono state limitate ovviamente, proprio come tutti noi, nell’uscita da casa, ma essendo in due Si fanno compagnia e si sostengono a vicenda. Considerano la Demaison un po’ la loro seconda casa e noi siamo una specie di famiglia. Sentono, come me e gli altri familiari, di appartenere a una vera comunità, nel senso letterale del termine, di essere parte di un gruppo di persone che compie un incarico assieme, che partecipa di un onere condiviso. Un obbligo che è allo stesso tempo un dono, come suggerisce la parola latina munus da cui deriva.
Il compito straordinario che ci è stato affidato e che ci accomuna, il nostro dono, è l’aver cura con pazienza e con rispetto di tre persone malate di demenza, della loro storia, delle loro fragilità e delle abilità che ancora conservano, facendo loro sentire quanto sono ancora importanti e degne di attenzione, restituendogli un’immagine positiva di sé.
Non vedo l’ora di poter riabbracciare la mamma, perché so che il linguaggio del contatto è il più forte di tutti, viene prima della ragione e ci accompagna oltre il disgregarsi della stessa. Anche quando ogni altra forma di comunicazione è andata perduta, può generare comprensione e fiducia, far sentire protetti sia contro i pericoli esterni che contro lo sconforto interno. Con il mio abbraccio contemporaneamente fisico e psichico, posso onorare la sacralità del suo esserci nel mondo, fino all’ultimo istante della sua vita.
(1)Il cohousing cui si fa riferimento è un progetto pilota che è stato costituito nel 2013 per iniziativa autonoma di tre famiglie di Udine con lo scopo di accogliere tre persone malate di forme precoci di demenza. L’Associazione Demaison promuove e sostiene questo progetto di coabitazione assistita, favorendo la costituzione di nuovi nuclei abitativi, impegnandosi nell’informazione e formazione dei caregiver familiari e del personale addetto all’assistenza e nella sensibilizzazione dei cittadini.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
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Mi stavo preparando a scrivere un altro articolo, un’altra storia, ma è arrivata da parte dei figli di Nino la foto dei suoi 90 anni compiuti in questi giorni, accompagnata da un suo scritto autobiografico dal quale, come immaginavo, traspare una vita onesta e coraggiosa e in cui trovano un posto di rilievo i sacrifici (una delle parole che stanno sparendo), ma c’è spazio anche i sogni e persino per un decisivo, pulito, intuito per gli affari adatto a riuscire a raggiungerli, a dargli corpo.
"Nel ’43 c’era la guerra e noi abitavamo in una casa in affitto, nel cortile della scuola. Io frequentai le elementari e dopo, visto che avevo la passione per i campi, tentai di andare a scuola di agraria, ma in tempo di guerra fu difficile entrare… si viveva in miseria dato che lo stipendio di mio padre era poco per cinque persone (io, mia madre, mio padre e le mie due sorelle, dunque bisognava dare un aiuto a casa). Così io, a 13 anni, trovai lavoro come operatore di cinema (il cinema si trovava proprio vicino casa nostra)… prendevo 50 lire alla settimana, che portavo subito a mia mamma".
Mi sembra di vedere il piccolo, tenero protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore!
La storia va avanti. Fa nuovamente capolino nella vita di Nino l’amore per la terra, per le piante, per le viti, ma anche altro. Scopre a 17 anni, e da un anno già lavora sodo nell’osteria del nonno, un uomo malmesso in salute, il dono del canto: "il maestro mi disse di studiare, ma chi poteva permettersi di pagare il conservatorio dato che mio padre morì giovane, a soli 50 anni, mio nonno era paralizzato (dovetti assisterlo e aiutarlo per 7 anni) e mia madre era senza pensione?"
Storie di ordinaria povertà e di sogni apparentemente spezzati.
"Quando avevo 23 anni mi si presentò l’occasione di rilevare una trattoria con gelateria e così feci il barista e il cuoco; ma la mia passione per i campi rimase. Un giorno un amico mi disse che aveva qualche campo da vendere: era un posto di palude dove scorreva anche un piccolo rigagnolo di acqua sorgiva. Erano 8 campi e il prezzo era buono, così li comprai. Siccome in giro cominciavano a costruire peschiere, anch’io decisi di fare una vasca per allevare avannotti che poi vendetti ai pescicoltori più grossi."
Il fiuto magico, l’intelligente riscatto. Meritato.
L’esistenza di Nino segue il filo immaginabile del lavoro intenso, tanto per non cambiare ritmo di vita. C’è posto però per le nozze con l’amata moglie, la nascita dei figli. C’è purtroppo la perdita di un figlio piccolo dopo la vaccinazione antivaiolosa. Ma vi assicuro che Nino non è diventato un no-vax: ha avuto in tutto 5 figli, se non ho perso il conto, tutti vaccinati!
"Dopo 30 anni di barista e cuoco tornò in me la passione dei campi".
E allora, instancabile e “sveglio”, compra e vende uno stabile, guadagnandoci: con quei soldi comprai un campo e vi impiantai la prima vigna. Poi comprai altri due pezzi di terreno quasi abbandonati e piantai altra vigna. Intanto andai a fare un corso per viticultori.
Non si limita a far vino, Nino! Seguono delle belle idee che riguardano la creazione di “festival del vino” andati gloriosamente e, immagino, gioiosamente in porto, successi professionali, agiatezza tranquilla senza spacconerie per lui e la sua famiglia, persino una particina in una sigla televisiva con un’attrice italiana famosa all’epoca, trasmessa per un anno intero in tv!
Ad un certo punto accade qualcosa. Si fa strada la depressione, scatenata da una “comunicazione di malattia” non solo non appropriata, ma anche sbagliata, da parte di un cardiologo. La prova dell’errore clinico sta nel fatto che Nino è ancora qui tra noi dopo circa 18 anni da quello sciagurato giorno, quella della comunicazione sbagliata sta nel prosieguo della sua storia.
Da quel momento, di fronte al male oscuro, Nino perde la proprietà della sua vita, le sue intuizioni, la capacità di sognare in grande per sé e per gli altri, smarrisce il sonno e la serenità.
Iniziano a comparire alcuni attori, gli psicofarmaci.
Quando arrivò da me, più di un anno dopo, i familiari mi mostrarono un elenco di “quasi tutto” l’armamentario moderno e antico delle benzodiazepine, degli antidepressivi, degli antipsicotici vecchi e nuovi. In qualche caso, la stessa molecola era stata tentata due volte ma con nomi diversi. Sempre senza efficacia.
Ho raccontato su questo sito a gennaio (https://www.perlungavita.it/argomenti/salute-e-benessere/1434-uno-nessuno-e-centomila-il-ruolo-cosi-e-anche-se-non-vi-pare) delle differenze professionali tra neurologo e psichiatra e quindi, per quello che sostengo da una vita, ovvero “a ciascuno il suo”, non avrei dovuto accettare di valutarlo per lo stato depressivo in quanto neurologo. Ma si stava lentamente arrugginendo nei movimenti e nella mente. Insomma, era diventato lento in quelli spontanei e volontari: a volte, per capirlo, basta osservare se una persona si alza con una certa velocità dalla sedia, se le braccia oscillano o meno nel normale cammino, se il viso è tipicamente inespressivo, se le palpebre “battono una volta l’anno”, se la parola ha perduto la sua energica intensità. Ex tenorile, nel caso di Nino.
Stava diventando un parkinsoniano, anche se senza tremore (non è obbligatorio, sappiatelo…) e pure con dei deficit associati cognitivi (memoria ed altro).
Sintetizzo il lungo percorso lastricato di dubbi sulla diagnosi. Intanto, due parole sulla depressione e le sue diverse facce:
- la depressione rappresenta un fattore di rischio per demenze e parkinsonismi (tra cui la malattia di Parkinson);
- la depressione può presentarsi mesi o pochi anni prima della comparsa clinica di tali malattie e in questo caso ha dei connotati “organici”: ovvero, dimostra che qualcosa non sta funzionando a dovere in alcuni nuclei ed aree del cervello, esattamente come avviene anche per malattie non neurologiche, come succede ad esempio tra diabete e pancreas;
- la depressione può essere reattiva ad una situazione critica di malattia che si è venuta a creare. È facile da comprenderlo…
- infine, la depressione può accompagnare la vecchiaia. I motivi potrebbero essere tanti…
Ovviamente non potevo guardare solamente verso una sola direzione, la depressione, era necessario allargare lo sguardo al resto, cercando di capirne le dinamiche: il parkinsonismo e le carenze cognitive erano dovute ad una malattia abbinata alla depressione (malattia di Parkinson con demenza, ecc.) oppure almeno uno dei due componenti, il parkinsonismo, o addirittura anche il deficit cognitivo, erano secondari totalmente, o quasi, all’uso piuttosto prolungato di alcuni psicofarmaci facilmente individuabili nella lunga lista?
Insomma, Nino era così per “via biologica” perché una sua malattia (quale precisamente?) stava progredendo per i fatti suoi, oppure c’era qualcosa di losco: che ruolo avevano gli psicofarmaci assunti da più di un anno?
Ci ho messo energie e pazienza per almeno due anni, togliendo e provando, ma con un lavoro certosino Nino è tornato quasi quello di prima. Probabilmente Madre Natura ha fatto il resto e l’ambito familiare molto affettuoso ha giocato indubbiamente a nostro favore.
Breve angolo per chi vuol sapere qualcosa di più, seppur in maniera semplificata.
Molti farmaci posseggono un profilo che li fa collaborare o, invece, creare contrasti con certi neurotrasmettitori, quelle sostanze che mettono in connessione tra di loro attraverso le sinapsi sistemi complessi neuronali, per farli funzionare a dovere.
Mi limito a due soli neurotrasmettitori.
Tra gli psicofarmaci e tra i “normali” farmaci di uso extra-neurologico ed extra-psichiatrico alcuni “creano problemi” al neurotrasmettitore Dopamina (ne avrete sentito parlare!), altri all’Acetilcolina, meno famosa, ma diffusa in tutto il corpo e con un ruolo decisivo per la nostra memoria.
Esistono poi sostanze che agiscono negativamente su tutte e due…
In breve, quelli che contrastano la Dopamina, ne bloccano in vario modo il funzionamento, provocano soprattutto parkinsonismo, che si manifesta con tremori o molto spesso anche senza, ovvero con una progressiva lentezza e rigidità nei movimenti spontanei, automatici e volontari, persino nell’espressione facciale, nella povertà dei gesti e nell’energia della parola. Vedi Nino…
Fanno anche altro: distonie, la sindrome della Torre di Pisa, la temibile acatisia, temibile perché i medici la conoscono poco (https://www.perlungavita.it/argomenti/salute-e-benessere/809-una-storia-di-ordinaria-acatisia).
L’elenco è lungo e questo sito non è il posto indicato per fare una lezione di farmacologia degli anziani & anziane (le anziane sono più colpite dei maschietti dalle malattie da farmaci!).
Tra quelli che contrastano l’Acetilcolina ci sono tante nostre vecchie conoscenze: mi sbilancio con un solo farmaco, ma non dovete atterrirvi, il Buscopan. Non cito le altre circa 600 molecole anticolinergiche!
L’uso di uno o più di questi farmaci, vere e proprie Mine Vaganti, se inappropriato, aggettivo che significa riflessione, impegno, studio e che affonda le sue radici nella passione professionale e nell’esperienza, nel SAPERE MOLTO in un’epoca di tuttologi e di escalation dell’ignoranza (https://www.perlungavita.it/libri-media-parole/libri/1376-la-conoscenza-e-i-suoi-nemici), è in grado di creare, ad esempio, la storia di Nino!
La ciliegina sulla torta è arrivata dopo: è venuta fuori dalla santa decisione di Nino di farsi operare di protesi d’anca bilaterale (chissà se quegli anni passati a muoversi poco, a camminare lento, avranno contribuito a annodare malamente quelle cartilagini) dopo le insistenze nostre, mie e dei familiari, che per qualche anno non hanno fatto breccia sulla sua ritrovata energia di carattere.
Dopo gli interventi é veramente “tornato quello di prima” e lo è oramai da circa 10 anni. In questi giorni di giugno, come già ho scritto, circondato dalla sua famiglia e dai suoi solidi affetti, ha festeggiato i 90 anni ancora dritto nella postura, chiaro nelle idee, molto emozionato.
Nella storia che mi ha mandato (non so se nascerà un suo piccolo libro) c’è uno spazio di riconoscenza per me… Mi definisce persino “mago della neurologia”! Esagerato!
"Nonostante l'affetto e la dedizione dei miei familiari non trovavo la via d'uscita; finché incontrai il dottor Ferdinando Schiavo "un mago della neurologia", che non smetterò mai di ringraziare, per avermi fatto rinascere. Ora posso godermi a pieno i miei ultimi anni, che a suo dire saranno ancora molti, con la mia famiglia, i miei otto nipoti e persino una pronipote".
Da parte mia, sono grato a tutti loro per la fiducia e la pazienza, per la gioia umana più che professionale che mi ha procurato questo bel finale… e per il pregiatissimo vino che mi hanno regalato negli anni!
Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore si vede dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia…
Non potevo che chiudere con Francesco De Gregori, dedicando “La leva calcistica della classe 1968” a Nino, anche se non è del 1968!
- Autore/rice Anna Capaccioli
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
23 aprile 2020
“Pronto?”
“Ciao Claudia, sono Anna”
“Ciao!” mi risponde festosa
“Ti volevo chiamare, ma arrivo alla sera stanchissima. In questo periodo di quarantena non ho l’aiuto per la casa e Gianni non ha l’educatrice della "RSA Aperta" e la fisioterapista.
Non andiamo più a prendere il caffè fuori, dove incontravamo persone e facevamo due chiacchiere”.
In poche frasi fa il punto della situazione, mi arriva subito la fatica del familiare caregiver che ben conosco. Ci si trova a far fronte ad ogni cambiamento atteso e ad ogni imprevisto con le proprie limitate energie, che si cerca di dilatare al bisogno ma che poi presentano il conto su altri fronti. Ad esempio le cose che vorremmo fare ma che invece continuiamo a rimandare.
«A me questa ‘RSA Aperta’ ha portato una speranza sotto la forma di un’educatrice di nome Sabrina. Non so scrivere, già, però posso parlare. Questo è ciò che anche la mia preziosa e nuova ‘segretaria’ ha sostenuto e che ha fatto sì che ci fosse una nuova speranza. La mia educatrice mi sta aiutando, ed è, insieme alla famiglia, anche una compagnia che mi infonde coraggio. Questo aiuto, che siamo insieme a mettere in pratica, è diventato materiale: si tratta di provare a scrivere parlando. Le mie donne mi hanno sostenuto su questa linea: scrivere attraverso strumenti nuovi come il computer, il registratore, i programmi di dettatura con qualcuno che mi affianchi. E pensare che invece io ho sempre usato carta e penna! Bisogna dire che il mio dramma mi ha trasformato in un Alzheimer tecnologico. Ammetto che tra le tante modalità, parlare solo col registratore non mi piace, perché io ho bisogno di una persona davanti a me con cui dialogare. Sabrina mi fa anche foto e video a mia insaputa, così non mi emoziono. Poi me li fa rivedere e li commentiamo insieme.» Gianni Zanotti "In viaggio con l’Alzheimer".
Speranza, coraggio, dialogo: ecco cosa significa per Gianni la presenza di Sabrina e cosa gli sta togliendo l’isolamento. Proprio a lui che ha fatto della battaglia contro l’isolamento una filosofia di vita che gli ha consentito di rallentare il decorso della malattia.
«Ho inoltre la fortuna di abitare in un piccolo paese di un migliaio di abitanti quale è Torricella. Ci si conosce un po’ tutti: io non nascondo i miei problemi. Anzi trovo altri che li condividono. Chi soffre della malattia di Alzheimer ha nelle città, pericoli maggiori di perdere l’orientamento.» Gianni Zanotti ‘La storia testarda e forse improbabile di un uomo in pensione’
“Gianni è fuori al sole. È sempre più difficile trovare attività per impegnare la giornata, la routine quotidiana richiede sempre più supporto”.
Mi vengono in mente la veranda e il cortile, con i fiori e il panorama sulla campagna che degrada. Un’immagine di bellezza e di pace che contrasta con la durezza di questi giorni.
“Gli leggi ancora brani dei libri che ha scritto?”
“No, sono molto stanca, è peggiorata anche l’insonnia e dormiamo poco tutti e due. È rientrato, te lo passo.”
“Ciao Gianni!”
“Oh, signora Capaccioli!”
«A me l’Alzheimer ha causato uno strano effetto collaterale: mi sono accorto che i volti delle persone accanto a me sembrano tutti uguali, come se i tratti dei loro visi fossero tutti identici. Mi è capitato con conoscenti e persino con dei parenti. Le persone che vedo con una certa regolarità le riconosco anche dal volto, ma quelle che vedo con minor frequenza, sapete come le riconosco? Dalla voce. Ho riconosciuto cugini dal loro modo di parlare, dal tono che usavano, mentre solo guardandoli non avrei saputo dire chi fossero.» Gianni Zanotti "In viaggio con l’Alzheimer"
“Come stai?”
“Mi manca parecchio il contatto con le persone.” È la prima cosa che mi dice cercando le parole. “È tremendo, per i malati ancora di più.”
Il contatto sociale è ai primi posti nel ‘decalogo’ del secondo libro di Gianni:
«Regola n.1: non nascondetevi, state fra la gente: vietato vergognarsi.
Regola n.2: uscite di casa, viaggiate (secondo i vostri limiti), senza strafare.
Regola n.3: parlate, osate!
Regola n.4: circondatevi di affetti, amate, abbracciate i vostri cari, dite tutto quello che di bello vi passa per la testa.»
“Passerà e potremo di nuovo incontrarci.”
“Le notizie non incoraggiano, sono sempre in tensione. Menomale che c’è Claudia.”
“Certo, Claudia ti vuole bene e ti aiuta. Un abbraccio e a presto.”
«Sono a Milano: è il tardo pomeriggio di una giornata di sole. Come mi capita spesso sto camminando nei larghi marciapiedi di Corso Buenos Aires. … In mezzo a questa solita ressa chi vado ad incontrare? Un mio vecchio amico di Forlì: si chiama Paolo Barzanti, era uno dei vecchi amici di Forlì frequentatori del bar Gisto! … ovviamente parliamo di noi due e del nostro lavoro. Mi chiede se ho una ragazza … mi propone di vederci la sera successiva in un bar di Piazza Missori. Non più però a tre ma a quattro. … la nuova conoscenza si chiama Claudia, aveva fatto la sua esperienza londinese e con questo bagaglio di esperienza puntava a trovare un lavoro a Milano. … Era la più bella ragazza che avessi mai conosciuto. Era talmente bella che mi emozionava. Affermo che il colpo di fulmine esiste! Quella serata si trasformò nella svolta della mia vita.» Gianni Zanotti ‘La storia testarda e forse improbabile di un uomo in pensione’
6 maggio 2020
“Pronto?”
“Ciao Claudia, sono Anna”
“Ciao Anna, oggi è tornata Sabrina! Con la mascherina.”
“Gianni riesce a portare la mascherina?”
“Sì, ma gli dà fastidio per parlare. Bisogna stare attenti a tutto, è difficile. Sabrina non l’ha trovato peggiorato dal punto di vista cognitivo, dalla settimana prossima si riprende l’attività.”
“Ottime notizie! Per il resto?”
“Tornerà anche la fisioterapista. Non ho ancora l’aiuto per la casa e non abbiamo ripreso l’abitudine del caffè fuori.”
“Un po’ alla volta la normalità.”
Proprio quando si fa fatica a mantenere l’uso delle parole ci si trova a dover imparare un nuovo lessico: coronavirus, lockdown, FFP2, R con zero. Non sono solo termini per esperti, ce li sentiamo ripetere continuamente e da essi dipende ciò che possiamo fare e ciò che non possiamo fare. Viene drammaticamente alterata la routine costruita nel tempo, tanto preziosa come riferimento. Le abitudini sono rassicuranti quando si ha difficoltà a fare scelte e prendere decisioni. La continuità è un aspetto fondamentale della stimolazione, sia cognitiva che fisica.
13 maggio 2020
“Pronto?”
“Ciao Claudia, sono Anna”
“Ciao! Aspetta che spengo la radio, la accendo sempre mentre lavo i piatti. Oggi è venuto Stefano a pranzo!” sento l’emozione e l’entusiasmo della mamma nella sua voce.
«Come tutte le famiglie in cui marito e moglie lavorano, io e Claudia ci dividiamo i compiti di gestione della casa e di cura nell’accudire il piccolo Stefano. Le domeniche e i giorni festivi solitamente lasciamo Milano per trasferirci a Torricella Verzate a casa dei genitori di Claudia, Guido e Corinna. Ho ancora le foto di Stefano nella casa di Torricella in mezzo alle galline, ai pulcini e ai gatti di casa. Sono molti i ricordi. La casa con il fienile, galline a razzolare, l’orto curatissimo, nonno Guido a sacramentare contro l’asino Almirante, la raccolta dell’uva a fine estate. E poi la pigiatura e l’arrivo dell’inverno in una casa che non aveva i termosifoni, perciò si cucinava e ci si scaldava tutti intorno alla stufa. … Intanto è giunto il tempo della pensione, sia per me che per Claudia. È giunto anche il tempo dell’università per Stefano che si è iscritto presso lo IULM di Milano. Comincia una nuova fase per la famiglia. … Muore all’età di 94 anni la mamma di Claudia a Torricella Verzate. Decidiamo a quel punto di vendere, anche con l’assenso di Stefano, l’appartamento di Vimercate e di trasferirci così, dopo lavori di ristrutturazione, nella vecchia casa ottocentesca a Torricella Verzate. Ora siamo dei pavesi dell’Oltrepò.» Gianni Zanotti ‘La storia testarda e forse improbabile di un uomo in pensione’
Claudia mi parla dell’incertezza del lavoro di Stefano, che prendeva servizio a contratto sulle navi da crociera. I passeggeri sono prevalentemente persone anziane, che ora sono ad alto rischio per la pandemia.
«Corre l’anno 2007. Stefano, puntiglioso e determinato, continua a cercare lavoro in tutte le direzioni. Si presenta l’opportunità di presentarsi a un colloquio presso la società marittima Costa Crociere a Genova. Occorrono parecchie competenze, oltre alla conoscenza delle lingue (almeno tre) si richiedono abilità informatiche, buona salute, capacità relazionali, preferibilmente possesso di una laurea, saper nuotare ma soprattutto avere la consapevolezza che si sta in mare anche per lunghi periodi. Insomma, si tratta di un’attività lavorativa da un lato stimolante, dall’altro con molte incognite. Comunque a Stefano arriva la lettera di assunzione: è soddisfatto e curioso. L’imbarco è previsto a Copenaghen, sulla Costa Magica in crociera nel Baltico e nei fiordi norvegesi. Il suo compito è addetto alla reception. Inizia così per Stefano l’avventura con la società Costa. Questo è il primo di una lunga serie di imbarchi che lo porterà in giro per il mondo. Quando la nave su cui è imbarcato fa tappa a Savona, Claudia e io lo raggiungiamo. In quanto genitori abbiamo la possibilità di salire a bordo e visitare le navi.» Gianni Zanotti ‘La storia testarda e forse improbabile di un uomo in pensione’
“Ti passo Gianni”
“Ciao Gianni!”
“Oh, che sorpresa!”
“Tante sorprese: è venuto Stefano, è tornata la tua ‘caregiver un po’ pazza’ Sabrina ed ora anche Costanza, la fisioterapista!”
“E poi c’è Claudia che si prende cura di me, menomale che ho Claudia, altrimenti sarei perduto!”
“Certo!”
“Le donne mi salveranno!” ridiamo rumorosamente insieme dimenticandoci la malattia, i ruoli, chi ha bisogno di chi e respirando l’emozione che anche al telefono può colmare le distanze.
«Siamo tutti un po’ caregiver e tutti un po’ malati, ognuno ha bisogno di qualcosa e di qualcun altro.» Gianni Zanotti ‘In viaggio con l’Alzheimer’.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Non sono un frequentatore abituale di serie tv ma l’isolamento da coronavirus è stato capace di provocare persino tale disastro!
Negli ultimi anni, in qualche scorribanda occasionale, ho potuto notare che alcune serie tv in ambito medico, almeno quelle straniere, risultano costruite su basi scientifiche solide. Non mi è sembrato così per l’italiana “DOC-Nelle tue mani”, con un bravo Luca Argentero protagonista nel ruolo di un brillante primario internista che rimane vittima di una grave lesione cerebrale. Questa fiction è tratta da una storia vera, raccontata nel libro “Meno dodici” di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno (Edizioni Mondadori) che, in sincerità, non ho letto.
Il motivo del mio giudizio non del tutto benevolo nasce nel momento in cui gli internisti si sono infelicemente tuffati in malo modo in vicende neurologiche che sarebbe un eufemismo definire molto atipiche. Non so se nel libro siano raccontate così oppure se gli inconsapevoli sceneggiatori (che, come molti a questo mondo, ignorano la fantastica grande bellezza della neurologia) le abbiano liberamente modificate senza interpellare un collega neurologo con solide radici di pratica clinica.
Fatto sta che queste due storie che tra poco descriverò minano alla base il lavorio che mi vede impegnato da molti anni in maniera incessante e forse ossessiva (“da lima sorda” si direbbe dalle mie parti, o alla maniera magari fastidiosa da “tenente Colombo” per capirci meglio) nelle vesti di vecchio e appassionato clinico nonché di formatore nel mio campo, la neurologia. Tento semplicemente di far capire ai cittadini (a volte anche ai colleghi!) quali sintomi sono di competenza del neurologo, di quali malattie egli si prende cura. Lo consigliava persino Ippocrate cinque secoli prima di Cristo quando scriveva di “rendere medici i propri pazienti” attraverso l’informazione\formazione. Svolgo tale compito in vari ambiti, sociali, scolastici e lavorativi esordendo spesso con alcuni test: nel numero di gennaio in questo sito ne ho proposti quattro.
Ho risposto ai primi due nei numeri successivi: chi “vede doppio in un certo modo” è quasi sempre di competenza prioritaria neurologica e non dell’oculista; chi “sviene” e presenta delle brevi convulsioni non è colpito da una classica crisi epilettica convulsiva generalizzata che porterebbe la diagnosi altrove, ma…
Mi restano da commentare gli ultimi due: qui commenterò il terzo, alla fine di queste mie considerazioni amare su DOC. Vado al dunque.In questa serie televisiva, che è stata momentaneamente interrotta per l’arrivo del coronavirus, in una puntata il fratello di una delle dottoresse viene ricoverato nello stesso reparto in cui lei lavora dopo aver perso improvvisamente i sensi nel corso di una scalata: dalle immagini sembra che abbia avuto una sincope, volgarmente “uno svenimento”. Durante la degenza il ragazzo accusa anche una temporanea, completa e bilaterale perdita della vista che conduce i colleghi, dopo una RM, cerebrale immagino, alla diagnosi di Sclerosi Multipla (SM)…
La SM é una malattia che può esordire in mille modi, lo sappiamo (l’aggettivo multipla fa già comprendere tante cose): tuttavia, quei sintomi iniziali della storia descritta in DOC sono sostanzialmente inattendibili. C’è da aggiungere che per una diagnosi accurata di SM non basta certamente una RM cerebrale “positiva”(?), Serve, anzi è essenziale uno studio del liquor cerebro-spinale attraverso una puntura lombare, e qualcos’altro ancora, come anche una RM spinale.
Certamente, la SM può presentarsi con sintomi che hanno a che fare con la “vista”: è abbastanza frequente un esordio con una neurite ottica, patologia che colpisce effettivamente la capacità visiva: però sostanzialmente di un solo occhio (2° c. d. nervo cranico dei 12 per lato). I problemi, quindi, non sono bilaterali, accecanti in maniera totale e velocemente transitori come nella fiction. Nella neurite i deficit visivi sono peraltro prolungati nel tempo, hanno un contorno di altri sintomi, non durano 5 minuti!
Angolo della neurologia funzionale per chi ne vuol sapere di più … di vista.
Senza esagerare nel complesso tecnicismo neurologico (ma è il fascino che appartiene a questa arte) un altro sintomo che ha a che fare con la “vista” in senso generico può essere la diplopia (vedere doppio: è peraltro il tema del primo mio test su questo sito) che in una SM può avere come protagonisti uno o più nuclei dei 3 nervi cranici deputati alla MOTILITÀ OCULARE (3°, 4°. 6°) e le insostituibili connessioni organizzative tra di loro e con parti più “alte” del cervello. Queste strutture stanno all’interno del tronco encefalico, quella specie di ostia di cono gelato che sostiene gli emisferi cerebrali (i due gusti del gelato) e, come un’ostia atipica che non finisce a punta, li collega al midollo spinale. La diplopia in questo caso é un problema “visivo” provocato però da una alterazione motoria oculare.
Terza improbabile possibilità: una lesione dei lobi occipitali, tutti e due però! Noi “vediamo” attraverso i lobi occipitali, proprio quella parte del nostro cervello che si trova lontana dagli occhi ma ad essi ovviamente collegata. Questa rara cecità completa (?) bilaterale e transitoria rappresentata in DOC potrebbe essere in rapporto con qualcosa che non funziona nel sistema arterioso “posteriore”: in breve, davanti abbiamo le due carotidi, “dietro” le due arterie vertebrali che confluiscono nell’arteria basilare. Questa arteria concorre al diramarsi delle arterie cerebrali posteriori, una per lato: sono proprio le arterie che irrorano anche le aree occipitali deputate alla “vista”. Se un deficit si presenta in maniera transitoria come nel caso recitato rientrerebbe in un Attacco Ischemico Transitorio (AIT) cerebrale, di cui scriverò dopo. Mai in una SM!
La puntura lombare non si è vista in questo episodio che ho appena descritto, ma viene invece praticata nel caso neurologico in una successiva puntata! Una giovane candidata astronauta ricoverata in reparto (non ricordo per quale motivo) sta parlando tranquillamente con i due specializzandi. Improvvisamente irrigidisce il collo lamentando dolore intenso alla nuca. La dottoressa, futura internista, le pratica una semplice manovra diagnostica che il neurologo ben conosce (Brudzinski) che si rivela positiva, e sentenzia: “Presto, c’è un rigor nucalis (rigidità nucale), è una meningite”!
Scena successiva: la mancata futura astronauta (poiché nel frattempo ha capito di essere inadatta a volare nello spazio a causa di attacchi di panico preesistenti e persistenti) sta benissimo dopo la puntura lombare che ha confermato la diagnosi di meningite causata da un germe di cui non ricordo il nome e dopo la cura antibiotica appropriata.
Una meningite che esordisce così, di botto? Di punto in bianco? Non esiste al mondo!
Non mi limito al mio personale “non ne ho mai viste in trent’anni di neurologia ospedaliera e di un’infinità di meningiti ed encefaliti di varia natura”. Non oso neanche scomodare MEDLINE o PUBMED perché non verrebbe fuori un caso, dico uno, con un inizio paragonabile a quello scandalosamente descritto.
Un rigor nucalis simile potrei immaginarlo, sì immaginarlo, in una “epistassi meningea”: ero specializzando e così la chiamava il mio primario molti anni fa. Non si tratta di una vera e propria emorragia subaracnoidea - ESA – ben più severa, una emorragia negli spazi tra le meningi, a decorso spesso grave e anche mortale, ma di una piccola rottura, una spruzzatina di sangue proveniente dallo stesso aneurisma cerebrale che si sta rompendo e che ti sta avvertendo, dandoti un segnale di allarme per farti correre ai ripari a causa della possibilità che si tramuti in una ESA vera e propria. E quasi sempre c’è uno sforzo fisico a scatenarla…
Il neurologo c’è? Me lo ero già chiesto guardando la serie: perché in un grande ospedale – e quello lì è un grande ospedale, si vede! – quando gli internisti, che, lo ripeto, sono i protagonisti, affrontano un caso neurologico, il neurologo non viene chiamato, non si vede mai? Tra i co-protagonisti c’è un probabile neuropsichiatra infantile che peraltro segue sotto il profilo clinico e terapeutico l’amico primario, appunto Luca Argentero, quando viene miracolosamente fuori dal grosso trauma fronto-temporale che una pallottola gli ha provocato.
Figura professionale di scarso rilievo quella del neurologo? Neanche per sogno!
Non si vede un abbozzo di esame neurologico, quella successione di strane e affascinanti manovre a volte apparentemente semplici o comiche per alcuni pazienti ma in grado di svelare, soprattutto a “noi che abbiamo imparato la neurologia quando non c’era la TAC (TC) né la RM”, i segreti e il percorso rapido per giungere ad una tempestiva e corretta diagnosi.
Traumi cranici seri ed alcol. Un ultimo appunto sul ruolo disinformativo di questa prima parte della serie: in una puntata si vede Argentero bere allegramente birra. Bere una bevanda alcolica con un bucone in testa? E magari assumendo una terapia antiepilettica preventiva, come sembra di capire e come in genere avviene nella pratica neurologica in casi del genere?
Ma siamo matti!!! E’ altamente diseducativo!
Insomma, la serie è terminata, credo che verranno riproposte altre puntate. Mi auguro che qualcuno della RAI legga questo scritto, rifletta e chiami un neurologo esperto, uno di quelli che si sbattono tra reparto e pronto soccorso e che accolgono nella loro esperienza di tutto. Un neurologo vero che aiuti gli sceneggiatori a rendere verosimili ed istruttive le storie raccontate. A loro posso sin da ora suggerire un nuovo personaggio, un’intrigante e sapiente neurologa. Ce ne sono di veramente brave, vi assicuro!
La Tv “dovrebbe” confermare anche il suo ruolo educativo: lo faccia meglio! Attendo con impazienza le prossime puntate.
Forse adesso vi verrà più semplice riflettere sul terzo test – e la prossima volta sull’insidioso e amaro quarto - che ho proposto su questo sito a gennaio.
Quei sintomi transitori non dovrebbero dipendere da un problema di un “nervo” della mano (stavate passeggiando, è improbabile che un’ernia cervicale o una neuropatia si presenti così, all’improvviso) né di “circolazione” della mano.
L’ictus ischemico, a differenza di quello emorragico, è preceduto abbastanza spesso da un evento minore, un “avvertimento “ che si può palesare anche con la sintomatologia descritta nella diapositiva: si chiama AIT (Attacco Ischemico Transitorio), cerebrale in questo caso. A volte si manifesta con episodi che sembrano banali e che non allarmano quanto invece dovrebbero: la riduzione temporanea della forza e\o della sensibilità di un braccio, appunto come del test; di un arto inferiore; dei muscoli di mezzo viso o di metà corpo; la perdita della vista di un occhio o bilateralmente di una porzione del campo visivo, o della capacità di esprimersi verbalmente; una seria alterazione dell’equilibrio. Rappresentano solo una fetta delle possibili manifestazioni di eventi ischemici transitori in aree funzionali diverse del nostro encefalo. I deficit transitori degli AIT, per antica, strana e non del tutto condivisa convenzione, devono declinare entro 24 ore ma nella stramaggioranza dei casi regrediscono entro pochi minuti, un’ora al massimo.
Statisticamente un AIT è seguito da ictus ischemico in circa un terzo dei casi entro i tre mesi successivi. Va da sé, di conseguenza, che ogni paziente con AIT dovrebbe essere accuratamente e scrupolosamente valutato, seguito nel tempo, guidato nella prevenzione.
L’esempio del test va comunque “interpretato” con perizia ed esperienza in quanto può essere la spia di altre patologie cerebrali.
In diversi lavori scientifici sono descritti studi dai quali affiora che solo una persona su dieci tra la popolazione sa interpretare la numerosa varietà dei sintomi transitori di un AIT cerebrale e che questo atteggiamento comporta la mancata richiesta di assistenza di un medico. Dai rilevamenti scientifici emerge un altro aspetto: non sempre i medici non neurologi sono in grado di identificare correttamente la sintomatologia e correlarla a un AIT cerebrale.
Nel valutare le risposte al test ho abbondantemente notato che la “gente” ritenga che si tratti di turbe della “circolazione” intendendo erroneamente quella dell’arto interessato dai sintomi. Sì, il problema può coinvolgere, è vero, la circolazione, ma del cervello che sta dalla parte opposta.
Tutti, adolescenti compresi, conosciamo un altro AIT, quello cardiaco, col nome popolare di angina pectoris, col suo classico dolore restrosternale spesso irradiato al braccio sinistro - anche se “non è sempre così”, in particolare nelle donne, tenetelo a mente!
L’AIT cerebrale, in definitiva, si porta dietro due “difetti” che si aggiungono agli atavici pregiudizi sul ruolo del neurologo (“devo portarti mia zia, soffre di ansia”) e alle non ideali conoscenze di neurologia:
1. Fugace e non doloroso, a differenza dell’angina pectoris e dell’infarto del miocardio, l’AIT cerebrale resta spesso banalizzato, malgrado sia il migliore segno premonitore di un infarto… cerebrale (la parola infarto vale anche per il cervello, una volta che l’ischemia si è protratta nel tempo ed ha creato il danno)!
Mannaggia, manca il dolore (spesso)!
2. Può assumere diversi volti a seconda dell’area cerebrale interessata!
E questo implica conoscenza delle variegate funzioni del cervello, ma anche di dinamica vascolare, di coagulazione, di cuore che spara emboli, di altri aspetti ancora.
In conclusione, la neurologia (la medicina) resta per molti un mistero, per me conserva ancora il fascino arcano dei miei inizi. Malgrado il bagaglio appreso in questi 51 anni continua a stimolarmi attraverso una piacevole sottile curiosità per quello che ho ancora da vedere, apprendere, provare a risolvere. Anche per questo motivo difendo il mio ruolo e amo ricordarvi che il neurologo è un internista: vedi sempre su www.perlungavita.it di gennaio 2020 “Uno, nessuno e centomila: il ruolo, così è anche se non vi pare!”).
PS. Uno schemino che tratta le principali malattie neurologiche.
I sintomi per i quali può essere consultato un neurologo: mal di testa (cefalea), vertigini e disturbi dell’equilibrio, cadute non accidentali, modificazioni della forza, del movimento, della deambulazione e della postura, paresi, tremori, riduzione delle sensibilità, parestesie (formicolii, sensazioni di scosse elettriche, fenomeni dolorosi, ecc.), diplopia (visione doppia) e limitazioni del campo visivo, perdite di coscienza ovvero “svenimenti“ (sincopi) o alterazioni qualitative della coscienza stessa, variazioni dello stato cognitivo (non solo della memoria ma anche delle capacità attentive, del linguaggio, dell’orientamento nel tempo e spazio, del riconoscimento di volti familiari, di case, di water e bidet, ecc. ecc.) o comportamentale (tantissime, se non sono di puro interesse psichiatrico: apatia, depressione, allucinazioni, cambiamenti di personalità, ecc. ecc.).
Le malattie da cui possono dipendere: emicrania, cefalea a grappolo, cefalea muscolo-tensiva e psicogena, tumori cerebrali, angiomi, aneurismi, vasculopatie cerebrali (ictus ischemico o emorragico, arteriti autoimmuni e non, flebiti, ecc.), sclerosi multipla, polineuropatie, miastenia, miopatie, compressioni midollari o radicolari da alterazioni varie della colonna vertebrale (come ernie discali e seri processi artrosici, crolli vertebrali, neoplasie, angiomi ecc.), siringomielia, epilessia, sincopi (non dipendenti da cause cardiache ), meningiti ed encefaliti, sclerosi laterale amiotrofica (SLA), atassie degenerative, malattia di Parkinson e parkinsonismi, demenze (tra cui demenza di Alzheimer, demenza vascolare, Parkinson-demenza e demenza a corpi di Lewy , demenze fronto-temporali, demenze da cause varie a volte reversibili, ecc.), delirium, corea di Huntington ed altre coree, ecc.
Inoltre, una sorta di “privilegio” del neurologo: complicazioni neurologiche ed effetti avversi da farmaci usati da tutti i medici (parkinsonismo e altri disturbi del movimento, alterazioni dell’equilibrio e cadute, episodi confusionali, neuropatie, mielopatie, miopatie, ecc. ) o da malattie non neurologiche (encefalopatie, polineuropatie, ecc.) su base disimmunitaria (arterite in LES, ad esempio) o paraneoplastica (un tumore in qualsiasi parte del corpo può scatenare danni al cervello, al cervelletto, ai nervi….).