Salute, Benessere, Scelte individuali
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Era proprio necessaria la pandemia da Coronavirus per comprendere il significato di parole come esclusione, separazione, confinamento, sequestro?
Mi chiedo con una amarezza che mi avvolge al punto da crearmi un dolore fisico di cui non so descrivere le caratteristiche.
Una generazione di vecchi se ne è andata via in un silenzio assordante, ora è la volta dei cosiddetti anziani giovani, della fascia di età dove rientro anch’io, domani chissà.
Al momento ho l’impressione che si sia imparato ben poco o, forse, quel poco che è parso evidente agli occhi di tanti, si scontra con gli interessi di coloro che avevano investito molto su quella segregazione (ecco un’altra parola da abolire) che, a mio parere, è il maggior danno della società intera.
È il pensiero, l’idea che si possano affrontare e ancor peggio risolvere i problemi separando gli uni dagli altri, che proprio non posso sopportare. Di esempi ce ne sono tanti e non c’è bisogno di ricordarli, considerato che hanno macchiato indelebilmente l’animo umano.
Oggi è la volta di separare le persone con tampone negativo al virus Sars- Cov-2 da quelle positive o dubbie o che possono diventarlo. Poco importa se la persona è affetta da altre malattie che si riacutizzano concomitantemente o da traumi: il tampone molecolare, a volte è sufficiente anche l’antigenico rapido, è l’unico parametro a fare la differenza destinando l’uno o l’altro ad un percorso diversificato.
Non fraintendetemi, comprendo bene l’importanza di evitare la diffusione del virus e gli sforzi effettuati per isolare gli infettati nel tentativo di curare al meglio e in fretta più persone possibili, comprendo gli errori, le omissioni, le difficoltà di gestione che hanno coinvolto l’intero pianeta, ma oggi, a distanza di un anno, credo che sia doveroso guardare in faccia la realtà e interrogarci sul perché in Italia oltre 100000 persone, la cui età mediana è 81 anni, siano morte per o col Covid.
L’Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità, dopo l’analisi delle cartelle cliniche dei deceduti pone l’accento sulle patologie preesistenti, in primo l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica, lo scompenso cardiaco, la demenza, il cancro attivo e così via. Valuta anche le cause di ospedalizzazione di coloro che non ce l’hanno fatta: in oltre il 90% dei ricoveri erano menzionate condizioni o sintomi compatibili con Sars – Cov- 2, cita testualmente il rapporto. Le tabelle riportano le complicanze, le terapie usate, i tempi di ospedalizzazione, il confronto nei diversi mesi, dati interessanti, indubbiamente, per capire il da farsi e correggere il tiro se è il caso.
Io, invece, dal mio piccolo osservatorio di un Centro post acuti Covid di cui sono responsabile sanitario che ha visto ad oggi un migliaio di pazienti , prevalentemente anziani di cui oltre 800 definiti “a media intensità di cure”, pongo l’accento sul percorso di ognuno di loro e giungo a considerazioni che si discostano non poco da quelle ben più autorevoli declamate dai media quotidianamente.
È difficile tradurre in numeri o grafici i fattori psicologici conseguenti all’isolamento, all’allettamento protratto, non ultimo alla deprivazione dagli affetti, fattori fondamentali affinché ogni individuo possa affrontare al meglio le malattie, per cui vi racconterò alcune delle innumerevoli storie che ho potuto vivere in questo anno di pandemia, lasciandovi liberi di trarre le vostre considerazioni.
Andreina, 100 anni compiuti, una vecchina ancora attiva e capace di percorrere a piedi più di un km di strada, scale comprese, dopo un accesso al Pronto Soccorso per un fatto intercorrente apparentemente non grave e il riscontro di tampone positivo, è stata ricoverata in un reparto Covid dell’Ospedale nell’ASL di appartenenza. Non entro nei dettagli perché la sua storia è pubblicata online sul sito di Slow Medicine al quale rimando (Storie Slow – Dall’ideologia alla corsia- L’incantesimo della parola) ma arrivo direttamente all’amara conclusione. Dopo il ricovero, per un periodo peraltro nemmeno troppo lungo come spesso succede, si avvilisce, non mangia più, nessuno l’aiuta a scendere dal letto, ma nonostante tutto guarisce dall’evento acuto iniziale. Persiste però la positività del tampone e viene trasferita d’ufficio nel Centro da me diretto a 90 km di distanza, dove, comprendendo le sue esigenze, riusciamo a riabilitarla ma, ahimè, proprio quando si è ottenuto il primo tampone negativo, viene colta da un ictus cerebri che le toglie l’uso della parola e la capacità di muoversi. Verrà lo stesso trasferita presso il luogo di residenza, con la collaborazione di chi ha a cuore il malato e non la malattia, superando una serie infinita di ostacoli burocratici, solo per permettere ai familiari almeno di vederla attraverso un vetro. Qui il tempo ci è sfuggito di mano e io mi chiedo: Andreina è morta di Covid (per o con ha poca importanza) o per un percorso non consono ad una centenaria, spostata di qua e di là, come fosse un pacco postale di cui non si conosce bene l’indirizzo del destinatario?
E così Lidia, di poco più di 70 anni che, essendo sola in quanto l’unico figlio risiede in un’altra città, ha scelto di vivere in una comunità alloggio per anziani autosufficienti dove viene infettata dal virus. La situazione appare subito critica, indispensabile il ricovero in terapia sub intensiva e, a breve, persino l’intubazione oro-tracheale per permetterle di respirare, ma la rianimazione non è attrezzata per i positivi per cui viene trasferita nell’Ospedale di un’altra città distante 120 km. Rimane intubata per un lungo periodo, in cui si susseguono l’uno dopo l’altro una serie di complicazione infettive, ma ce la fa, riescono a stubarla pur rimanendo la tracheotomia e la necessità di ossigeno. Nel frattempo si ottengono due tamponi negativi che sanciscono la guarigione virologica dall’infezione Sars- Cov- 2 e Lidia può fare ritorno nella Unità di terapia intensiva Covid-free della sua zona, dove approntano una PEG per alimentarla. Ma, ahimè, il controllo del tampone, effettuato dopo pochi giorni, risulta di nuovo positivo e così viene trasferita nel Centro post-acuti in condizioni ritenute stabili, ma con uno schema farmacologico talmente complesso da non riuscire a raccoglierlo in una sola schermata del pc.
Cos’altro potevano fare i colleghi rianimatori? Concordo sulla stabilità della patologia Covid correlata, a parte la fluttuazione dei tamponi alla quale siamo abituati e ormai non facciamo più alcun affidamento, ma non certo sulla stabilità delle malattie preesistenti, a partire da una funzione tiroidea fuori controllo, dalle infezioni ancora in atto, dall’anemia che ha richiesto emotrasfusioni, solo per citarne alcune. Lidia è vigile, non può parlare, ma, con il solo sguardo, trasmette tutta la sua sofferenza e sembra volerci dire che non ha più intenzione di andare avanti, in quel modo. Accenna un sorriso nel momento in cui Lorenzo, il più giovane medico del Centro, le parla del figlio e le promette che lo avremmo fatto entrare considerato che erano circa 3 mesi che non si potevano né vedere né sentire. E così avviene: il figlio si precipita all’alba della mattina seguente, ma Lidia se ne è già andata in silenzio, nella notte, senza il minimo cenno ad alcun cambiamento della sua situazione clinica definita stabile. Mi frullano in testa domande angoscianti, ma di una cosa sono certa, che, ancora una volta, il tempo, ci sia sfuggito di mano. E il tempo, nelle situazioni di emergenza, è vita.
Anche la storia di Adriana ha purtroppo un triste epilogo, dopo un lungo periodo di agonia.
Adriana è un’anziana signora, con alcuni problemi fisici ed un iniziale decadimento cognitivo che, nonostante l’autonomia limitata, vive serenamente con il marito al proprio domicilio, assistita da una badante e rallegrata dalla compagnia della figlia, molto presente nella sua vita affettiva. Cade in casa, viene condotta in Pronto Soccorso, per gli accertamenti, il tampone è negativo, poi si positivizza, viene ricoverata nel reparto di Geriatria Covid, non si alimenta, non beve, si disidrata, le infondono liquidi attraverso accessi vascolari periferici che continua a rimuoversi per cui reperiscono una vena centrale e attraverso questa l’alimentano. Quando decidono di trasferirla nel Centro post-acuti per la persistente positività del tampone, viene definita dai colleghi una malata terminale, nonostante gli esami laboratoristici evidenzino che il sodio ematico è rientrato nei limiti della norma e pertanto che la terapia reidratante è stata corretta. Adriana è stesa nel letto, non parla, non risponde, non reagisce nemmeno alle stimolazioni più intense, come a dire che non ha più voglia di vivere o forse si è semplicemente dimenticata di essere al mondo. Continuiamo a idratarla e sostenerla con le flebo ma, dai oggi, dai domani, non troviamo più vene accessibili, o sono ostruite o si rompono al minimo contatto con l’ago. Non ci resta che provare il tutto e per tutto: alzarla di peso e sistemarla in poltrona nella speranza che reagisca e si ricordi di essere viva. Lisa, la fisioterapista, con la sua voce possente che viene dal cuore, riesce a stabilire un contatto: risponde, si arrabbia persino, in un primo momento, ma apre gli occhi e pronuncia il suo nome. Nei giorni successivi migliora, mangia qualcosa, imboccata, mentre i tamponi sanciscono la guarigione virologica da un’infezione che non ha dato altro segno se non la positività del tampone. Ma il miracolo dura poco, ci sono le festività di Natale, il personale è ridotto, soprattutto mancano i fisioterapisti, nel Centro sono presenti oltre 60 pazienti ed è pressoché impossibile mobilizzarli tutti. Bastano pochi giorni che Adriana perde ogni motivazione, si lascia andare ed a breve si spegne. Non saprà mai che il marito è morto di Covid, ma sicuramente si è accorta che la figlia le è stata accanto nelle ultime ore di vita perché le stringeva la mano come a dire, perdonami, ma è giunta la mia ora, lasciami andare in pace. Ancora una volta lo scorrere inesorabile del tempo è stato il nostro nemico.
Potrei raccontarvi altre innumerevoli storie che ci ricordano come, in emergenza e urgenza, sono fondamentali due elementi: la tempestività e l’essenzialità, entrambi purtroppo difficili da attuarsi in un contesto come quello che stiamo vivendo per l’incapacità dell’organizzazione, definita da norme rigide e inconfutabili, di quella flessibilità necessaria per fare la cosa giusta, nel modo giusto e al momento giusto: quella che in parole più tecniche si chiama appropriatezza.
Dal mio piccolo osservatorio, ho provato ad analizzare la tipologia dei pazienti ricoverati in una giornata tipo, il 15 gennaio 2021, nel Centro post –acuti Covid a media intensità di cure ed i dati ottenuti hanno confermato che in non pochi casi, il Covid, di per sé, è il minore dei mali.
Su 63 pazienti presenti, di età media 82 anni, N. 29 (46%) erano autonomi precedentemente il ricovero, N.26, pari al 41%, vivevano al proprio domicilio con assistenza e solo 8 (12,7%) erano istituzionalizzati. La maggior parte (84%) proveniva dagli ospedali di tutta la Regione con prevalenza di quelli del capoluogo. Quello che è più sorprendente e deve far riflettere è che le cause che hanno condotto all’accesso in Ospedale non erano correlate al Covid in oltre l’81% dei casi, tra queste le fratture traumatiche erano prioritarie rispetto a eventi correlabili alle patologie preesistenti. E ancora un dato interessante relativo alla gravità dell’infezione è che il 46% dei pazienti con persistente tampone positivo era del tutto asintomatico, il 17,4% presentava una sintomatologia lieve e solo nel 36,5% era stata diagnosticata una polmonite interstiziale con insufficienza respiratoria di entità variabile.
Da ciò si evince che la necessità di iniziare tempestivamente un programma riabilitativo finalizzato al recupero dell’autonomia precedente l’ospedalizzazione, non sia un optional, ma un dovere istituzionale al quale non possiamo in alcun modo sottrarci. Senza considerare che coloro che ottengono la guarigione virologica prima che possa essere completato il percorso riabilitativo e che, nel contempo, non possono rientrare al proprio domicilio, devono essere trasferiti in altre sedi Covid-free dove, per disposizioni normative, devono stazionare per una settimana o anche due (la prudenza non è mai troppo) nei locali cosiddetti “buffer” in attesa della conferma della negatività del tampone. Una assurdità concettuale, prevista per ridurre la spesa sanitaria, che comporta conseguenze non di rado drammatiche per i pazienti che si trovano ad essere sballottati da un posto all’altro, in balia di altri volti sconosciuti, costretti a ritardare e/o interrompere il programma di recupero funzionale, sia motorio che psichico.
E già, la separazione è dettata, in primo, dal tampone molecolare: tutto il resto passa in secondo piano.
Non sono una economista ma mi verrebbe da dire, ricordando il grande Domenighetti, che il recupero dell’autonomia di una persona valga ben di più dei pochi euro di differenza tra il costo giornaliero di una struttura Covid e quelle no, dimenticando, ingenuamente, che i posti letto “sporchi” sono pagati dalla società, mentre quelli “puliti” sono a carico del paziente.
Mi fermo qui, ma ho molto ancora da raccontare, su questa strana esperienza che dura ormai da un anno e che non accenna a fermarsi, anche se sembra mutare nel tempo, di volta in volta.
C’è un aspetto comune che è predominante e presente in ogni essere umano, con mente lucida o deteriorata che sia: la necessità di essere ascoltato, considerato, visto, di intrecciare relazioni, di essere compreso nelle scelte e libero di decidere. Se poi chi si prende cura ha il volto coperto da maschera e visiera, poco importa, a questo ci si abitua, è però essenziale non sentirsi abbandonato e privato di ogni speranza.
Quindi, è il caso di dire: mai più separati!
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Riorganizzare le residenze per anziani, certo! Ma impariamo prima la neurogerontologia, perché, se continuiamo ad andare dietro al Senso Comune, ovvero alla zavorra dei pregiudizi e alle emozioni, smetteremo di usare il gentile ed intelligente Buon Senso.
Sono passati 19 anni da quando un gruppo di validi autori francesi ha lanciato l’allarme sulla sottovalutazione politica, sociale e persino medica del fenomeno già allora incalzante delle demenze, uno degli aspetti sanitari non secondari che accomuna molti ospiti delle residenze per anziani bisognosi di assistenza e cura. E successivamente sono stati tanti i messaggi da OMS e grandi istituzioni mondiali che incitavano alla priorità della diagnosi tempestiva di demenza. Tuttavia, la realtà è davanti ai nostri occhi ed è di parte di questo che scriverò. A proposito: qualcuno in Italia ha visto dei cambiamenti reali dopo il parto nel 2014 del Piano Nazionale Demenze?
Della mancata diagnosi di demenza ho scritto in diversi articoli pubblicati qui (con questo, fanno 50!). Oggi, col mio solito passo trogloditico, torno sull’argomento cercando di fare un po’ di ordine attraverso l’analisi queste 6 modalità del NON PUO’ESSERE DEMENTE.
La diagnosi. È il grande problema, scrive Amalia Bruni (1): “Solo il 50% dei pazienti con una forma di demenza viene oggi diagnosticato. Gli altri sono fantasmi, nascosti nelle case o nelle RSA, non identificati o al massimo edulcorati sotto terminologie vergognose perché aspecifiche e che nulla hanno da invidiare alle fumose e fantasiose diagnosi degli ospedali psichiatrici di una volta che avevano dalla loro come scusante la reale mancanza di conoscenze”.
Ne so qualcosa col mio studio “La strage delle innocenti (2).
A ulteriore conferma, dagli Stati Uniti è arrivata persino un’amara constatazione: “La diagnosi di demenza? Neanche da morti! Su 7.342 persone che erano state trasferite nelle case di riposo seguite dal 2000 fino al 2009, lo studio ha stimato come il 13,6% dei decessi osservati fosse attribuibile alla demenza, 2,7 volte più del 5% dei certificati di morte che indicano la demenza come causa del decesso. La sottostima è maggiore tra le persone di colore e i latinoamericani (3)”.
Il primo NON PUO’ ESSERE DEMENTE attinge a piene mani al cinismo irrispettoso sempre più emergente ai tempi nostri, unto di razzismo: si chiama AGEISMO. Il pregiudizio del “tanto è vecchio” che tutto giustifica questa volta viene applicato al campo della diagnosi di demenza. "È normale che perda la memoria, è vecchio\a”, comportamento che priva una persona fragile della dignità di una seppur infelice diagnosi.
Nello stesso tempo, il “tanto è vecchio” si presenta nelle richieste di tutele economiche, come l’assegno di accompagnamento: familiari ed anziano arrivano senza una diagnosi, senza uno straccio di accertamento appropriato, vengono a pretendere un attestato che consenta di approdare a quei cinquecento euro al mese per il vecchio genitore.
“In questo primo incontro di poco più di un’ora ho appurato che c’è con alta probabilità una demenza, e anche abbastanza severa; dobbiamo prima fare delle indagini per escludere le forme di demenza reversibili, poi magari tentare una cura con farmaci certamente non miracolosi, prendersi cura di alcuni aspetti di salute generale e anche dello stile di vita… e infine redigere quelle stranezze funzionali burocratiche che vanno sotto il nome di ADL, IADL e CDR e completare il tutto con una idonea richiesta del riconoscimento dell’invalidità e delle relative tutele economiche”.
“No! Tutto questo tempo?”
Il secondo NON PUO’ ESSERE DEMENTE è una sorta di “auto-ageismo” che la persona anziana si infligge, accompagnandolo magari con uno sguardo complice: “Ma sono tanto vecchia, dottore”, dice sorridendo e tuttavia sottraendosi alle indagini da fare, alle maggiori attenzioni da parte dei familiari, alle cure…
E siamo arrivati al terzo, intrigante, forse il più doloroso NON PUO’ ESSERE DEMENTE. “Ma è troppo giovane per essere demente!”
Ho già affrontato su Perlungavita.it qui l’argomento raccontando tre storie vere e poi del mio incontro con Wendy Mitchell due anni fa a Pinerolo. Attraverso l’impegno di Eloisa Stella di www.novilunio.net ho potuto conoscere altre storie “itineranti” di demenze iniziate a 50 anni, come quella di Kate Swaffer, Co-fondatrice e CEO di Dementia Alliance International (DAI), di Helen Rochford Brennan, di Keith Oliver, persone che girano per il mondo allo scopo di permettere a noi tutti di comprendere l’immensa portata del fenomeno demenze. Si sono impegnati a parlare anche a nome di quelli che non possono in quanto non posseggono più la giovinezza, la forza, la personale lucidità residua e la capacità di testimoniarle, seppur angosciosamente, in pubblico.
E da qui arriviamo al quarto NON PUO’ ESSERE DEMENTE: oltre al danno, lo sberleffo, le allusioni alla falsificazione, al fenomeno da baraccone col fine di ottenere un proprio tornaconto! “Ma come fa ad andare in giro a far conferenze se è demente”? Come se chi è malato di demenza debba obbedire alla legge manichea del tutto o nulla, del bianco e nero, come se non fosse previsto in natura il Grande Grigio della mente e delle capacità residue, quell’area in cui ci si può permettere ancora di guidare, cucinare, in qualche modo lavorare, ridere, guardare uno spettacolo, raccontare la propria vicenda umana, votare, cantare arie dell’Aida, e sicuramente amare.
“Immagino che tra i presenti a questa conferenza di oggi ci siano diverse persone che si stanno chiedendo se ho veramente una demenza… Per ora, la maggior parte delle mie disabilità cognitive e sensoriali dovute alla demenza sono invisibili; solo i miei amici più cari e i miei familiari sono in grado di cogliere i cambiamenti che vivo. In ogni caso, è difficile capire se una persona ha una demenza, esattamente com’è difficile identificare in questa sala chi soffre di malattie cardiache, di diabete o di qualsiasi malattia cronica (bravissima!!!). Tanto più che non è nemmeno etico fare una diagnosi in pubblico. Queste dinamiche sono probabilmente dovute al fatto che molti partono dal falso presupposto che le persone con demenza siano tutte uguali. L’approccio stigmatizzante alla demenza sembra inoltre suggerire che siamo tutti uguali nel modo in cui si presenta la malattia a prescindere dall’età in cui riceviamo la diagnosi. Ma soprattutto vorrei precisare che nessuno passa improvvisamente dalla fase della diagnosi alle fasi più avanzate di una demenza, specialmente quando si tratta di una diagnosi effettuata in una fase precoce della malattia”. Sono parole di Wendy Mitchell.
“E’ una doppia punizione quella di avere una diagnosi di demenza e dover dimostrare agli altri di essere veramente malati! A chi dubita della mia diagnosi, mio marito risponde sempre nello stesso modo: dovresti venire a vivere con noi per renderti conto di come sta mia moglie”. È la risposta indignata, da parte di Helen Rochford Brennan, a tali calunnie.
In questo articolo deve trovare spazio almeno un accenno alla storia di Paolo, che ha cominciato a manifestare i primi segni della malattia di Alzheimer appena superati i 40 anni, di sua moglie Michela, tenera, scarmigliata e battagliera, dei suoi piccoli figli: basta seguire Michela Morutto sui social e, meglio ancora, leggere “Un tempo piccolo” scritto da Serenella Antoniazzi, un’altra combattente, pubblicato da Gemma Edizioni, uno scrigno geniale e prezioso di libri per bambini e di racconti fantastici di persone con serie malattie.
E siamo arrivati al quinto punto. ” Ma non ha problemi di memoria!”
Perentorio: non tutte le demenze cominciano col buco… di memoria. È uno dei messaggi che lancio da decenni attraverso una mia diapositiva provvista dell’immagine di una ciambella col buco! Una demenza può iniziare a manifestarsi con problemi di linguaggio, di “comprensione dello spazio”, di “organizzazione dei semplici gesti” quali stirare oppure usare lo spazzolino da denti (come potete leggere nel libro Quando andiamo a casa? di Michele Farina). Può esordire con una variabile gamma di problematiche comportamentali tra cui l’incompresa (dai familiari e dai medici) apatia-abulia, spesso scambiata per depressione, trattata con antidepressivi e di conseguenza spesso peggiorata col loro uso; ci sono poi le allucinazioni e le “strane idee di furto o di danni continui e improbabili da parte dei vicini di casa”, i cambiamenti di personalità, dei gusti alimentari e persino del vestiario, la perdita dell’odorato e la stitichezza ( qui gli inizi della vicenda di Robin Williams, malato a sua insaputa), gli incubi notturni agìti picchiando chi sta accanto (RBD) e tanto altro.
Anche il fenomeno della bella “facciata” concorre ad allontanare il sospetto: ricordo alcune scene del film Iris, in cui il marito contrasta, sorridendo a dismisura, il tentativo da parte del medico di far luce sulle dimenticanze della scrittrice Iris Murdoch. Nella mia esperienza ho incontrato tantissimi familiari che non accettano la diagnosi di demenza in pazienti che camuffano la loro impotenza con risposte spensierate mescolate ad un umorismo fuori luogo che rende tutti complici dell’errore.
Si renderanno conto quando, mesi o pochi anni dopo, arriveranno confusi ed agitati ad un tramonto qualsiasi (sindrome del tramonto) oppure nel corso della notte si esibiranno in qualche esplosione di aggressività senza senso, di ricerca della propria casa, di affaccendamento nel tentativo di “mettere ordine alle proprie cose”. E sarà a quel punto che arriverà l’eroe che va al dunque, ma al buio di una diagnosi mancata, e attraverso le sue pregevoli gocce di Aloperidolo (Serenase o Haldol) farà sì che la faccenda si metterà male!
Siamo arrivati al termine, al sesto punto dedicato al disastro delle mancate diagnosi che vede protagonisti i medici, spesso gli specialisti di questo campo, coloro che non sanno che “il Mini Mental mente o può mentire…”
Qualche riflessione che emerge dalla personale esperienza. I colleghi lo sanno fare? Lo sanno «interpretare»? Sanno che ha delle lacune e che il punteggio è un mito da sfatare e quindi “che c’è punto perso e punto perso”? Ho visto coi miei occhi, o mi hanno confermato seri familiari o colleghe neuropsicologhe più che attendibili, che esistono quei professionisti i quali:
1. … non eseguono i test cognitivi brevi e inviano i pazienti alle neuropsicologhe per eseguire quelli estensivi, allungando le liste di attesa per chi ne avrebbe realmente bisogno! Una donna di 85 anni che riporta un punteggio di 13\30 al pur fallace “Mini Mental” non credo che abbia bisogno di test sofisticati la cui esecuzione richiede ore!
2. … fanno finta di eseguirli e scrivono nel referto i dati numerici del presunto risultato! “No, dottore, questa prova CHIUDA GLI OCCHI né quella della copia dei due pentagoni intrecciati la mamma le ha fatte”. Falso in atto pubblico. Si va nel penale.
3. … non fanno assistere i familiari… i quali potrebbe rendersi conto del reale profilo dello stato cognitivo e magari smettere di chiedere “le dica che deve bere di più”, una volta appurato che “pane, casa e gatto” la mamma non li ha richiamati alla memoria e che, quindi, tanti consigli subiscono la stessa sorte. I familiari, poi, possono comprendere tanto dalla prova CHIUDI GLI OCCHI… se la persona esaminata dice “Dove devo scrivere”?
4. … fanno ripetere la prova sbagliata più volte… “Provi a ridisegnare, dai”!
5. … aiutano: “Siamo in Ita…; siamo in inve…”
6. … non allegano una copia… Che serve, perché… c’è punto perso e punto perso nella “qualità” del test! Immaginate la tenera vecchietta che sale in ascensore accompagnata dalle due figlie che premono il tasto quarto piano, emozionata, impaurita dall’atmosfera dell’ospedale, dell’ambulatorio. “A che piano siamo?” recita il test. Questo è un punto “fesso” più che un punto perso, secondo il mio parere.
7. … ma soprattutto sbagliano in partenza adoperando il test “Mini Mental” sbagliato, quello che contiene due errori: la traduzione dall’inglese della parola MONDO, in cui sono presenti purtroppo due O, invece di adoperare CARNE, e lo scioglilingua (“tigre contro tigre”) al posto di “non c’è se né ma che tenga”.
È il momento della mia ennesima, ultima provocazione: “Si può essere dementi - e a volte in modo serio - riportando 27 o addirittura 29 risposte esatte su 30 al Mini Mental”?
Rispondo subito di sì poiché, a costo di ripetermi, c’è punto perso e punto perso e perché devo tener conto anche dell’esistenza delle fluttuazioni cognitive, in positivo ed in negativo, in quel giorno, in quella ora! E soprattutto devo ascoltare quanto mi sta raccontando il familiare e tenerne conto!
“Ma signora, il punteggio è ottimo. Sua mamma non ha una demenza”!
“Ma certi giorni scambia il water per il bidet, o arriva a chiedermi dov’è sua figlia”?
“Non può essere. E poi ha superato ampiamente il cut off”!
Il famigerato cut off, la trincea immaginaria di qualche inqualificabile esperto che delimita l’essere malato vero da quello immaginario. Immaginario per lui, non certamente dalla figlia protagonista dell’esempio, che in una fase successiva, con un altro professionista, appurerà che la mamma ha una demenza a corpi di Lewy. Ecco allora il punto perso dalla mamma, quello che “ne vale” (in negativo) almeno 15 in meno: la signora costruisce, in rosso, il proprio disegno all’interno di quello proposto, incapace di elaborarne uno indipendente accanto al modello. È il closing in, gente!
Se poi si riescono a dedicare ancora cinque minuti al test dell’orologio, si vedrà dell’altro…
In rapida conclusione, questi errori di diagnosi tempestiva o di mancata diagnosi ricadono pesantemente su infiniti aspetti della vita delle persone e delle famiglie, anche in assenza di una terapia fino ad oggi ritenuta valida per rallentare il procedere del danno neuronale.
È necessario ancora un piccolo, ultimo sforzo, e chiedersi: perché serve una diagnosi, e magari tempestiva, di demenza?
Perché esistono le forme reversibili, da tumore, ematoma post-traumatico, idrocefalo, iposodiemia, ipotiroidismo, ecc. ecc. E poi ci sono quelle magari non reversibili ma in qualche modo affrontabili: da LESS o altra diavoleria su base autoimmunitaria, quelle da prioni (“mucca pazza” & C.)…
Perché, in piena coscienza di malattia, una persona con demenza può tempestivamente organizzare il futuro, la semplice stesura di un testamento o le scelte di fine vita.
Perché esiste “la cura dei contorni”, delle malattie o condizioni che fanno da contorno ad un quadro di demenza, e spesso ne rappresentano dei reali fattori di rischio, come diabete, ipertensione, obesità, fibrillazione atriale, sedentarietà ecc. È la visione olistica che fa a pugni con una medicina sempre più frammentaria e frettolosa.
Perché, infine, la mancata diagnosi lede il diritto a tutele presenti a livello nazionale (legge 104, assegno di accompagnamento, ecc.) o locale. A tale proposito, nel clima di scarsa conoscenza neurogerontologica e, nello specifico, all’interno del campo minato delle demenze, certe commissioni che esaminano i casi di persone con demenza non sono sempre preparate a comprendere che si può, si deve, uscire da certi schemi predeterminati secondo un codice numerico assolutamente deviante, come recitano certe sentenze della Consulta. Mi fa assolutamente ridere, amaramente, l’aggettivo MODERATO applicato alle demenze che hanno “quel certo punteggio”, e ancor di più la Scala CDR (Clinical Dementia Rating Scale)! Nella fase moderata tale scala enuncia: perdita di memoria severa, materiale nuovo perso rapidamente; difficoltà severa nell’esecuzione di problemi complessi, giudizio sociale compromesso; richiede molta assistenza per la cura personale... Come si intuisce, l’aggettivo moderato in una scala universalmente accettata, può essere invece degno di contestazione perché fonte di errori nel giudizio clinico e prognostico e di conseguenza a livello di tutele legali e amministrative.
PS. Credo che nei codici di morte (perdonate la mia claudicante appropriatezza di linguaggio burocratico) esista ancora la parola DEMENZA SENILE. La DEMENZA SENILE non esiste!
Breve Bibliografia
1. Amalia C. Bruni, Valentina Laganà e Francesca Frangipane. Il demone nella mente di mio marito. Psicogeriatria 2017;1:29-37.
2. Ferdinando Schiavo. Progetto di studio La strage delle innocenti. 2015. www.alzheimerudine.it e www.ferdinandoschiavo.it.
3. Andrew C. Stokes et al. Estimates of the Association of Dementia With US Mortality Levels Using Linked Survey and Mortality Records. JAMA Neurol. August 24, 2020
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Ho dovuto acquistare un computer nuovo su indicazione del mio tecnico, perché il vecchio, il solito, solido e poco costoso HP manifestava pericolosi cedimenti funzionali che si erano riversati proprio questo mese persino sulla mia salute. Partendo da questo banale fatto vi racconterò la mia storia e quella di M, un altro neo-vecchietto.
Non amo esporre i risvolti privati, in particolare della mia salute, in giro o sui social, ci mancherebbe, ma quello che mi è accaduto ai primi giorni di questo febbraio è successo comunque in pubblico, seppure nella ristretta cerchia di una classe di maturi allievi OSS appena conosciuti, seppure via web, e del personale della scuola dove insegno (neuro)geriatria.
Stavo spiegando, appunto, il ruolo del neurologo e del geriatra nella nostra sanità e società di vecchi, due specialisti perfetti sconosciuti, sottovalutati e sottoposti alle angherie dei pregiudizi. Portavo alcuni esempi pratici che potete trovare in giro tra i miei articoli in questo sito. Il mio computer, anziano anche lui, ha cominciato più volte a spegnersi con un sibilo da estremo saluto, ribellandosi al carico delle diapositive e di 21 quadretti di allievi malgrado fossero senza volto e senza voce per alleviare il peso sulle vetuste strutture. In quasi due ore di lezione ha cessato di vivere, e sempre col suo mortale sibilo terminale, quattro volte, condannandomi a telefonate trafelate alla scuola e alla faticosa ripresa delle procedure per ripartire.
Si era creata una tensione. Io ero molto teso.
Al penultimo capriccioso spegnimento ho cominciato a vedere degli zig zag di luce sul mio campo visivo destro di ambedue gli occhi. Ci siamo, mi son detto, erano anni che non mi venivano le aure visive, la mia corteccia occipitale sinistra stava soffrendo schizzando linee luminose contorte dal lato opposto. È complicato spiegare qui su due piedi la complessa anatomia funzionale che dai due occhi, attraverso i nervi ottici, si intreccia in modo apparentemente strampalato: metà fibre di ogni nervo ottico va a destra e l’altra metà a sinistra incrociandosi nel chiasma per arrivare infine là dietro nel cervello dove lo stimolo viene tradotto in immagini. Più semplice definire quella sofferenza occipitale come ischemica.
Ischemica, ischemia, parole che incutono terrore. Ma vi aggiungo subito (e mi auguro di non aver sbagliato diagnosi…) l’aggettivo “benigna”, eliminando così la suspense che si potrebbe creare continuando a raccontare il resto della storia.
Ho resistito, riprendendo a commentare le mie diapositive malgrado l’abbaglio di luce occupasse stabilmente lo spazio alla mia destra, ma quando sono arrivato giusto a quella dispositiva con la panoramica dei nervi cranici apprestandomi a commentarla in modo leggero (guai a creare in questi giovani volenterosi futuri OSS il sospetto che quei 12 nervi per lato potessero rappresentare un tragico argomento di esame!), mi sono mancate le parole: i nomi e i compiti dei nervi a me oramai familiari, questi miei compagni di strada e di lavoro; ma anche i verbi, gli aggettivi, le preposizioni, l’armonia della costruzione della frase e persino la sua musicalità (si chiama prosodia, che bel nome). Con un po’ di fatica e di angoscia e storpiando qualche termine sono riuscito a far comprendere agli allievi che dovevo sospendere la lezione, mancavano per fortuna solo dieci minuti alla fine. Devono averlo capito anche loro e certamente si sono preoccupati in quanto poco prima avevo accennato all’importanza dei trascurati attacchi ischemici transitori cerebrali (AIT in italiano e TIA in inglese) rispetto a quelli che avvengono nel rispettatissimo cuore!
Ho chiuso il computer. Ero solo a casa, sudato freddo, allarmato. In questo stato mi ha trovato poco dopo la mia compagna rientrata dal lavoro a scuola. Ho tentato di tranquillizzarla, il senso del mio malandato discorso era questo, malgrado le deformazioni: “Sono un neurologo no? Ne ho viste di tutti i colori di afasie. In adulti sani, in vecchietti come me, in adolescenti al loro primo attacco di emicrania con aura! Ora mi metto a respirare bene, visto che quando faccio lezione e anche nel corso della vita, me lo hai fatto notare anche tu, mi dimentico di respirare e rinvio la sana boccata di aria nuova a quando, esalando quel filo residuo di voce, completo finalmente la frase. Ora respiro, riposo e rifletto.”
“No, andiamo in Pronto Soccorso!”
“A fare cosa? Siamo in un piccolo paese, dopo quasi 50 anni non abito più a Udine col suo bell’ospedalone dove ho lavorato tanti anni in neurologia”.
Cominciavo a parlare meglio, dopo almeno venti minuti in tutto ero tornato in apparenza normale. A quel punto è cominciato un po’ di mal di testa.
L’immenso studio Framingham (1), il grande CM Fisher (2), e poi RS Kunkel (3) e altri ancora, mi venivano in mente mentre sul divano, ad occhi chiusi, ero occupato a respirare con ricercata lentezza e una certa consistenza. Devo recuperare gli articoli e mostrarglieli. Una delle regole di un attacco di emicrania con aura o di qualcosa di più serio però esige di star tranquilli, di non compiere sforzi. Allora me li sono ripassati mentalmente, li ricordavo bene: trattano il tema delle aure emicraniche tardive di gente che, come me, da giovane non aveva mai avuto tali fenomeni, aure spesso prive del secondo tempo: la cefalea intensa e contornata da vomito, insofferenza per suoni, odori, luce, sforzi fisici, tipica dell’emicrania senza aura, quella più comune.
Aure tardive prive di conseguenze serie, insomma.
Quando ero un neurologo “normale” ospedaliero, cioè prima di diventare neurologo di strada dei vecchi e di vedere in ambulatorio quasi esclusivamente casi molto ingarbugliati di anziani con problemi di “mente e movimento” (la mia domanda intima preliminare è quasi sempre la stessa: la persona malmessa che sto valutando è così per evoluzione “normale” della sua patologia o perché qualche farmaco o un’altra malattia o condizione non svelata o apprezzata a dovere sta cambiando le carte in tavola?) il mondo dei mal di testa mi affascinava.
Non era l’unico, ovvio per un innamorato di cervello e dintorni! Mi ero occupato con curiosità anche dell’Amnesia Globale Transitoria (AGT), un allarme ischemico, benigno anche questo, con qualche collegamento con l’emicrania.
Mi ritorni in mente: ancora iI grande CM Fisher, insieme all’altrettanto illustre Adams (4)!
È un avvenimento certamente allarmante e dev’essere terribile per un familiare sentirsi ripetere le stesse domande da parte di un genitore in preda all’attacco, inquieto, smarrito pure lui: “Ma chi ha messo quei gerani qui?”. “Mamma, sei stata tu una settimana fa, all’arrivo del freddo!”. “Ah si”. “Ma chi ha messo quei gerani qui?”. Oppure “Sei arrivata oggi da Milano?”. “No, mamma, sono qui da una settimana!”. “Vero”. “Sei arrivata oggi da Milano?”
Ne ho descritto uno qui su PLV : Attimi di felicità dimenticati
Mi sono consolato riflettendo sull’enigma dell’AGT, di quanto l’ho studiata, del suo essere, appunto, un’ischemia benigna (vuol dire non rappresentare un fattore di rischio di imminenti ictus cerebrali o di demenza) anche se di durata nettamente superiore a quella dell’aura emicranica. Mi sono ripassato le varie misteriose teorie, quando inizialmente era di moda lo spasmo arterioso che non permetteva al sangue di nutrire in maniera adeguata quel pezzo di cervello. Ne sono subentrate altre, come “l’ipercapnia da iperventilazione” o quelle che hanno a che fare con lo “scarico venoso” (tutti quanti, noi neurologi compresi, abbiamo il brutto vizio di pensare solamente ai danni causati dalle arterie) o con fenomeni elettrici complicati, una “onda anomala di depolarizzazione” che Leao, scienziato brasiliano, aveva studiato nel lontano 1943 e che aveva chiamato spreading depression, teoria che sembra da anni accreditata come intimo meccanismo di questo scombussolamento della memoria.
Cullandomi nel modesto mal di testa residuo ho ripensato alla mia tesi di specializzazione basata sull’esperienza dei primi 24 casi che avevo seguito di persona (poi nel corso dell’attività lavorativa devo essere arrivato ad almeno 300 o più), alle cause predisponenti (carattere ansioso, iperattivo, storia pregressa di emicrania) e a quelle scatenanti (bagno caldo, bagno freddo, posizioni anomale del corpo che impediscono un normale scarico venoso, canto energico, orgasmo, gastroscopie, coronarografie ed altro ancora).
Il giorno della discussione della tesi a Modena avevo fatto arrabbiare il mio maestro Ennio De Renzi perché non credeva che in pochi anni ne avessi visti così tanti. Pur superando l’esame, la mia frustrazione e il dolore che avevo percepito per non essere stato creduto e per averlo in qualche modo deluso per fortuna furono cancellati da una telefonata da parte del mio primario che aveva confermato la ricchezza di casi di AGT in Friuli, e poi dai successivi nostri cordiali incontri ai congressi.
Pochi anni dopo ho pubblicato 36 casi nella nostra piccola rivista dell’ospedale (5) e, infine, circa 15 anni fa ho avuto il piacere di raccontare la mia esperienza in una lezione magistrale al convegno nazionale dell’AIP (6). Ho visto anche molti casi recidivanti: niente di preoccupante, malgrado tutto (7).
Insomma, ero lì che ripercorrevo un bel po’ di queste storie che avevo vissuto e seguito per anni passati quasi sempre in prima linea. Mi ricordavo volti ed espressioni di alcuni familiari che avevo consolato affermando perentoriamente che sarebbe andata a finire bene, col solo dispiacere, superabile, di ritrovarsi con un buco di memoria relativo allo svolgimento dell’episodio e basta.
Nel contempo, mentre stavo consolavo pure me dicendomi in silenzio che quanto mi era da poco accaduto rientrava in questa benignità di evoluzione, è riapparsa la mia compagna ad invitarmi ad andare alla svelta da una mia giovane collega neurologa che avrebbe voluto vedermi e sottopormi a vari esami dopo che lei le aveva esposto il mio caso per telefono.
“No, ho già fatto risonanza magnetica al cervello, l’ECO-Doppler dei TSA, l’ecografia e altro a livello cardiaco. Non faccio nulla! In ospedale non ci metto piede, Covid o meno! A proposito: potrebbe essere anche un effetto del richiamo del vaccino per il Covid di una settimana fa”.
Mi sono rimesso in sesto con qualche giorno di riposo (una volta si chiamava convalescenza, parola svanita nel nulla), poi ho ricominciato scuola badando ad imparare a respirare, son tornato a vedere con calma pazienti, ovviamente complessi!
Ora arrivo al vero motivo di questo mio articolo, che non ha lo scopo di raccontare la mia “bravura” di clinico di strada utile agli altri ed anche ad autoassolvermi evitando inutili esami (il tempo, onesto, mi dirà se ho agito veramente bene). Il motivo è legato a M.
A metà di questo mese di febbraio sono andato a casa sua a visitarlo, era appena uscito dalla RSA dell’ospedalone dopo essere stato accolto d’urgenza a fine dicembre per una “banale” sincope (era nell’aria da anni che dovesse capitare!), uno svenimento avvenuto appena M si era alzato dal letto nella notte per andare a far pipì.
Ricordavo vagamente di averlo visitato, scorrendo le carte ho visto che era accaduto 5 anni prima. Avevo fatto diagnosi di iniziale malattia di Parkinson riscontrandogli anche una ipotensione ortostatica (della necessità di misurare la pressione arteriosa da supini e poi in piedi, negli anziani e non solo e magari solo una volta nella vita, ho scritto più volte anche in questo sito) e consigliandogli accertamenti e le prime terapie farmacologiche.
M aveva proseguito le cure con i colleghi dell’ospedale, i quali ogni volta si premuravano di raccomandare di non sollevarsi velocemente da letto o poltrona e di controllare la pressione arteriosa anche in piedi… ma nelle carte non c’era traccia di numeri. Dopo avere chiesto a moglie e sorella, ho scoperto che ero stato l’unico in tutti quegli anni che gli aveva misurato la pressione arteriosa da supino e poi in ortostatismo, confermando un sostanziale, duraturo e dannoso calo pressorio in piedi! Poi mai più nessuno, compresi, appunto, gli specialisti neurologi che gli raccomandavano di stare attento. Ed anche il medico curante.
La medicina della fretta! La medicina senza denunce…
Ma non è ancora una volta questo il perno della storia.
Eccolo, lo trovate sintetizzato nei danni evitabilissimi su questa diapositiva didattica per voi e per i miei allievi, esperienza utile affinché non ripetano l’errore di mettere a letto una persona che fino a poco prima camminava in casa e in città con una discreta indipendenza e di scordarselo lì per due mesi. Due mesi, perché in ospedale è risultato successivamente positivo al coronavirus, benché asintomatico, ed è stato trasferito in RSA.
Si chiama in vari modi, tra cui sindrome da immobilizzazione, una vera e propria malattia aggiunta al bagaglio di fragilità che possiamo concorrere a creare dal nulla o quasi anche noi professionisti della salute. Una condizione che fa perdere muscoli (sarcopenia), rattrappisce le articolazioni (anche per sempre), ulcera in profondità la pelle, fa persino dimenticare le funzioni basilari del cammino, intorpidisce quelle mentali e deprime l’umore della vittima e di chi gli vuole bene.
In questo caso con l’aggravante dell’aggiunta del catetere vescicale a permanenza (perché? Per comodità degli operatori?), che limita forse per sempre la funzionalità e tonicità della vescica rattrappita fornendo, in omaggio, una comoda via di ingresso a germi.
Infine, probabilmente due mesi senza un archetto in fondo al letto, una soluzione a buon mercato col compito di proteggere le articolazioni dei piedi e i tendini di Achille dalle deformazioni causate dal semplice peso delle coperte.
M ha la mia stessa età!
Piccola bibliografia
Christine A. C. Wijman et al. Migrainous Visual Accompaniments Are Not Rare in Late . The Framingham Study. Stroke 1998; 29: 1539-1543.
Fisher CM. Late-life migraine accompaniments as a cause of unexplained transient ischemic attacks. Can J Neurol Sci 1980; 7:9–17.
RS Kunkel. Migraine aura without headache: benign, but a diagnosis of exclusion. REVIEW. Cleveland clinic journal of medicine volume 72 number 6 june 2005
Fisher CM, Adams RD. Transient global amnesia. Acta Neu-rol Scand Suppl 1964;40(Suppl 9):1-83.
F. Schiavo. “Amnesia Globale Transitoria: considerazioni cliniche e diagnostiche su 36 casi“. Friuli Medico.1984 . Vol. XXXIX° nr. 1; 59-64
Lettura Magistrale sul tema “Amnesia Globale Transitoria: 50 anni di un enigma” al 6° Congresso ECM Nazionale dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP). Gardone (BS) 5-8 aprile 2006.
Ken A. Morris et al. Factors Associated With Risk of Recurrent Transient Global Amnesia. JAMA Neurol. Published online August 31, 2020. doi:10.1001/jamaneurol.2020.2943
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Le Nazioni Unite pochi giorni fa hanno proclamato il 2021-2030 come il Decennio dell'invecchiamento in buona salute (Decade of Healthy Ageing), con l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) alla guida delle azioni internazionali volte a migliorare la vita delle persone anziane, delle loro famiglie e delle comunità.
Mi auguro che guardino lontano, non solo a chi è già vecchio: leggete il seguito.
Mi avvio alla terza parte della “trilogia” sulla buona prevenzione per fragilità e demenze, affrontandola come clinico, come artigiano che lavora sul campo, accanto al letto della Persona malata, quindi compatibilmente con le mie conoscenze, i miei limiti, le mie esperienze di socio-politica “pratica”.
La salute non è uguale per tutti, anche se tutelata dalla nostra Costituzione e dall’OMS: vecchi sbagliati si diventa da bambini. Anzi, no: già nella pancia della mamma!
Scritto ciò, parto con una prima domanda.
1. Cosa serve per una corretta prevenzione?
In estrema sintesi, sono tre gli attori: cittadini responsabili, medici responsabili e politici responsabili, meglio ancora se statisti!
Si, bisogna essere bravi cittadini responsabili. Si parla perfino di “pazienti esperti”, non più semplici destinatari passivi del paternalismo medico ma persone sempre più coinvolte nelle scelte della salute, informati e formati, addirittura in grado di creare dei “rappresentanti esperti” dopo avere frequentato dei corsi appositi, come sta avvenendo a livello europeo con EUPATI e in Italia con EUPATI Italia, per portare la voce di chi è malato e le sue istanze nei tavoli dedicati alla salute. Da anni si discute di “patient empowerment” (1,2), da anni dico e scrivo CHI SA SI SALVA, da circa 25 secoli circola quanto scritto da Ippocrate sul paziente formato. Tuttavia, nella realtà quotidiana esistono socialmente coloro non vogliono saperne di leggere, aggiornarsi, "preoccuparsi" della salute propria e altrui (ad esempio, negazionisti Covid, no-vax, inquinatori…). In tanti magari vivacchiano di partite di calcio in tv o dell'inconsistenza del Grande Fratello. Insomma, come affermava insieme ad altri egregi pensatori Umberto Eco, esiste da tempo il paradosso di un’intelligenza collettiva sempre più indirizzata dal potere, unitamente alle proprie personali scarse velleità ad apprendere e alla (in)capacità di sacrificio, verso competenze irrilevanti, verso una serena ignoranza.
Accanto a costoro c'é chi va giustificato perché “non ha potuto sapere” ma avrebbe voluto e non é stato aiutato a conoscere a causa della miseria materiale e culturale della famiglia in cui é nato e per come é stato costretto a vivere. In ogni caso la "cultura" ci assiste, ne ho accennato alla fine dell’articolo del mese scorso e ne scriverò alla conclusione di questo.
È necessario avere medici competenti e privi dell’affanno del tempo che scorre, possibilmente generosi, empatici e comunicativi. Insomma, quasi perfetti. Riguardo ai miei colleghi, credo di avere commentato spesso alcune carenze da malasanità in questo sito, basta cercare.
Passo al terzo soggetto, la politica indubbiamente connessa alla società.
Elio Guzzanti è stato uno dei costruttori del nostro Sistema Sanitario Nazionale, ministro ed altro ancora. Era un uomo molto attento alla comunicazione e si indispettiva quando leggeva e sentiva parlare di “diritto alla salute”. Rispondeva: “Il diritto alla salute è prerogativa di nostro Signore, a noi uomini il compito di tutelarla con i mezzi disponibili”.
Oltre ai cittadini e ai medici ci vuole, quindi, una società equa. La nostra società è governata da forze politiche. Forze. Per alcuni aspetti “debolezze” politiche, che dovrebbero comunque condividere la responsabilità del maggior benessere per il Paese che amministrano. Lo fanno bene o mediocremente seguendo il filo ideologico di appartenenza ma, bisogna dirlo, soggiacciono comprensibilmente alle leggi economiche che a loro volta dipendono malauguratamente dai giochi finanziari.
“La tecnofinanza domina e ci domina, senza redistribuire ricchezza ma concentrandola sempre di più nelle mani di potenti oligarchie… Il presente ci assedia al punto da avere stravolto la stessa idea del tempo (domina una fretta che deriva dal latino fregare, e segnala l'uomo fregato) e il linguaggio, sfarinato in tante schegge di gergo individuale mentre il 47 per cento degli italiani sono classificati come analfabeti, funzionali o di ritorno”. Nel loro libro “Prigionieri del presente” Giuseppe De Rita sociologo e Antonio Galdo (3) scrivono di ignoranza e illustrano il concetto di “presentismo”.
Ignoranza: in questo campo non siamo molto lontani dalle cifre di Tullio De Mauro del 1999 e forse stiamo peggio:” Più di 2 milioni di italiani adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono semianalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e comunque sono ai margini inferiori delle capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa che voglia non solo dirsi, ma essere democratica” (4).
Una perfida parentesi: il taglio “manageriale” negli ospedali, o in certi ospedali (che, da ex ospedaliero, oggi non commento), fa coppia con quello vigente in certe scuole di scarso appeal, di dubbia reputazione, segnate dall’assenza di una tradizione e di una storia consolidata, nelle quali ha imposto un abbassamento del livello di conoscenze, un “tutti a casa promossi” ancor prima che arrivasse il coronavirus e la didattica a distanza. La preoccupazione è unica: “Chi si iscriverà mai in questo istituto se bocciamo qualcuno o, peggio, tanti? Perché poi sopportare le reazioni verbali, a volte fisiche! o legali dei genitori?”
“Se pensi all’anno prossimo, semina il granturco; se pensi ai prossimi 10 anni pianta un albero; se pensi ai prossimi 100 anni, istruisci le persone”. Sono parole di un saggio, Zygmunt Bauman.
Il politico che guarda al 2050 e fa programmi di largo respiro, utili e illuminati seppur poco appariscenti al momento, è uno statista, chi bada alle imminenti elezioni è un politico, affetto da una patologica dipendenza dal consenso immediato, da una insana miopia che gli restringe gli orizzonti. Lo statista programma il futuro, pensa ai figli e nipoti di tutti, non certo ad abbellirsi per le imminenti elezioni. Semplice, no?
Il politico avrebbe, dunque, un ruolo nel proteggere le persone più fragili, perché la salute, è necessario ripeterlo, non è uguale per tutti! Differenze sociali ed economiche influenzano il benessere delle persone favorendo o meno malattie e l’evoluzione delle stesse. Nei giorni in cui sto scrivendo questo articolo abbiamo assistito alle imprese di Trump, a quelle di Bolsonaro (negazionista nonché ennesimo fautore della deforestazione dell’Amazzonia, da cui forse è nata anche la recentissima variante brasiliana del coronavirus) e della neo assessora alla salute della Lombardia Letizia Moratti, che vorrebbe somministrare il vaccino non secondo Matteo (quello dei Vangeli!) ma secondo il PIL e la “produttività”, in questo dimostrando lo stesso pensiero “inutilitaristico” sugli anziani improduttivi del governatore della Liguria Toti.
Alcuni dati interessanti. I cittadini in svantaggio sociale tendono ad ammalarsi di più, a perdere l’autosufficienza ed a morire da 5 a 7 anni prima, ci dicono Giuseppe Costa e colleghi (5). Gli stessi autori ci informano che il tram numero 3 che attraversa Torino gode di una sorprendente popolarità anche al di fuori del capoluogo piemontese. Il suo percorso di 45 minuti è esibito ai congressi di medicina e di economia: mostra come, allontanandosi dalle ville ai piedi della collina e dirigendosi verso il quartiere industriale delle Vallette, i residenti perdano cinque mesi di vita per ogni chilometro percorso. I primi hanno un’aspettativa superiore agli 82 anni, gli altri non raggiungono i 78.
Lo sapevamo già dai lavori scientifici di Michael Marmot con gli studi Whitehall, dal nome della strada di Londra dove si trova il Ministero dell’interno, e attraverso il suo ineguagliabile testo “La salute diseguale” (6). Lo stesso, infatti, accade a Londra: se chi abita nella zona di Oxford Circus può sperare di arrivare in media fino a 96 anni di età, a ogni fermata di metropolitana più in là, andando verso le aree suburbane, questa ottimistica prospettiva diminuisce. Procedendo lungo la Jubilee line, da Westminster verso est, l’aspettativa di vita cala di un anno a ogni fermata.
L’andamento è inverso negli Stati Uniti, dove le famiglie più benestanti preferiscono vivere fuori città. Il risultato però è simile: prendendo la metropolitana dal centro di Washington fino a Montgomery County, nel Maryland, l’aspettativa di vita aumenta di circa un anno e mezzo per ogni miglio percorso.
Cos’altro è andato a scoprire Marmot?
Alla fine degli anni Settanta, si pensava che le persone con maggiore responsabilità fossero soggette a maggior stress e di conseguenza subissero più danni al cuore. Il lavoro di Marmot dimostrò il contrario, prima su 18.000 dipendenti del Ministero di sesso maschile e poi, vent’anni dopo, su oltre 10.000, un terzo dei quali erano donne. Anche questi risultati hanno lo stesso impatto visivo delle mappe del metrò: dal portiere all’ingresso, a salire ai piani alti, di promozione in promozione nei ranghi della pubblica amministrazione, l’aspettativa di vita sale, in maniera graduale e continua, soprattutto grazie al calo della mortalità per cause cardiovascolari.
I fattori di rischio tradizionali spiegavano solo un terzo circa del fenomeno: il fumo era infatti più frequente ai livelli più bassi, ma la colesterolemia, per esempio, era maggiore ai piani alti. I tassi di ipertensione e obesità cambiavano poco tra impiegati di prima fascia e alti funzionari del Ministero.
Secondo Marmot, queste differenze si spiegano soprattutto come effetto di uno stress psicosociale, determinato dalla percezione di avere minore controllo sulla propria vita rispetto a chi si trova ai livelli più alti.
Non c’è solo la povertà assoluta, ma anche quella relativa, per cui nel ricco occidente una persona, anche se ha un tetto sopra la testa, può vivere come frustrante il fatto di non potersi permettere mai di andare in vacanza o di non poter mandare all’università i figli, si logora per la precarietà del proprio lavoro o per il fatto di ritenerlo poco gratificante. Le aspettative crescono progressivamente e la competizione che permea la nostra società contribuisce ad alimentarle.
Tutto questo può riflettersi sull’aspettativa di vita in vari modi: indirettamente, perché chi è insoddisfatto magari fuma più facilmente, beve troppo o cerca conforto nel cibo; direttamente, perché nei casi estremi queste situazioni possono favorire l’insorgenza di disturbi mentali, come la depressione, a loro volta legati a una maggiore mortalità, o indurre effetti biologici che oggi stanno cominciando a diventare misurabili. Con un’espressione ad effetto si potrebbe dire che tra qualche anno il basso livello socioeconomico delle persone si potrà leggere nel sangue: nelle fasce sociali più basse si ritrovano infatti in media livelli più alti di indici infiammatori, indicatori che negli ultimi anni sono stati correlati a un aumentato di rischio di moltissime malattie (dall’ipertensione al diabete, dalla cardiopatia ischemica al cancro). Ugualmente sono più elevati i tassi di cortisolo, strettamente dipendenti dallo stress, a loro volta mediatori di fattori di rischio per molte malattie croniche.
Scendendo a un piano molecolare, tutto questo si può riflettere perfino nel DNA, perché questi contesti, soprattutto a causa degli stili di vita che portano con sé, possono condurre ad alterazioni epigenetiche che si ripercuotono sulla regolazione dei geni. La genetica, è bene saperlo, carica il fucile ma è l’ambiente (che comprende anche lo stile di vita ed altro ancora) che preme il grilletto, modificando quella che viene chiamata “espressione genica”.
Le cure intervengono comunque quando il danno è fatto. Sono importanti ma non agiscono sulle “cause delle cause”, come le chiama Marmot. Le sue intuizioni sono state confermate da altri.
Analizzando i dati derivanti da 48 studi indipendenti, i ricercatori del progetto europeo Lifepath guidati da Paolo Vineis, epidemiologo italiano dell’Imperial College di Londra, hanno seguito lo stato di salute di più di 1,7 milioni di individui, in tutta Europa per 13 anni ed hanno dimostrato che nel determinare l’aspettativa di vita, ipertensione arteriosa, obesità, abuso di alcol contano meno della posizione professionale. Alcune conclusioni: chi è più povero e non gode di una posizione sociale discreta vive meno a lungo. Essere disagiati può costare fino a due anni di vita. Un calo dell’aspettativa dell’esistenza paragonabile a quella di chi fuma, beve, fa poca attività fisica o soffre di diabete. (7)
Un recente studio australiano (8) ha rivelato, prelevando campioni provenienti da 22 stazioni di depurazione delle acque di scarico, che queste possono svelare reddito e salute attraverso ciò che trasportano, da metaboliti di psicofarmaci e cibo. Hanno isolato una quarantina di biomarcatori che si trovano normalmente nelle urine. In particolare sono state analizzate le concentrazioni di vitamina B e fibre, che sono risultate più presenti nelle zone residenziali con una popolazione ad alto reddito e che rivelano un'alimentazione diversificata e ricca di frutta e verdura. Ha riscontrato altro: gli oppioidi sono risultati equamente distribuiti, ad eccezione della morfina, più presente in aree dove vivono più anziani e del tramadolo (oppioide sintetico), maggiormente consumato nelle zone operaie, forse per alleviare i dolori cronici legati a lavori usuranti. Gli antidepressivi sono più utilizzati dalle persone economicamente svantaggiate ma, curiosamente, ogni molecola sembra avere un suo target di popolazione (e di reddito). Nei quartieri dove abitano più dirigenti, inoltre, sembra essere particolarmente trovato un anti-allergico, probabilmente per la maggiore presenza di animali domestici e giardini.
L'uso del tabacco, invece, è più diffuso nelle fasce meno abbienti, mentre il consumo di alcol, al contrario di quanto normalmente si creda, è maggiore in chi ha redditi più elevati.
A New York si dice che maggiore è la metratura dell’appartamento, minore sarà la taglia del vestito, per sottolineare come l’obesità sia molto più frequente nelle classi sociali più basse, meno attente alla cura del proprio corpo, a svolgere una regolare attività fisica e a seguire una sana alimentazione.
Insomma, dove uno nasce, che genitori ha, come avviene la sua istruzione, influenzeranno l’essere cittadino onesto o criminale, il cercare un lavoro o non riuscire a trovarlo: tutto ciò comporta conseguenze enormi per la salute. Per questo la chiave di volta è considerare la salute come una questione morale e di giustizia sociale.
La rappresentazione dei pioli della scala fatta da Marmot rende chiaro e visibile il gap della diseguaglianza sociale, una forbice che si sta purtroppo progressivamente allargando.
Questa riflessione si collega alla seconda domanda.
2. Quando cominciare la prevenzione?
Non mi soffermo sui pur basilari concetti di prevenzione primaria, secondaria e terziaria e rispondo con un semplice” prima possibile, sin da piccoli; anzi, già nella pancia della mamma!”
Si, proprio così. Il FASD (Fetal Alcohol Spectrum Disorders) può presentarsi nei bambini la cui madre ha bevuto alcol in gravidanza. La diagnosi è difficile e può arrivare anche dopo una vita di sofferenza. Meglio di noi medici (che lo conosciamo poco!) ve lo può raccontare Claudio che ha fondato www.aidefad.it.
Lo stesso principio, gli stessi disastrosi effetti valgono per l’uso di droghe durante la gravidanza, spesso abbinato a uno stile di vita scorretto, e vale per alcuni aspetti anche per alcuni farmaci: è di pochi giorni fa la notizia della battaglia legale vinta a livello europeo da una madre per fare applicare dalla francese SANOFI sulle scatole di Depakin, un antiepilettico presente sul mercato da circa 50 anni, una scritta in un ben visibile rosso: NO alle donne gravide! Il farmaco negli anni si è dimostrato teratogeno sul bambino che deve nascere.
E dopo la gestazione e la nascita?
Essere poveri da bambini e ragazzi, specie quando si combina con una bassa istruzione dei genitori, incide negativamente sulla salute e sullo sviluppo cognitivo. Le disuguaglianze di condizioni di vita e opportunità di sviluppo tra bambini e ragazzi non sono solo le più ingiuste, sono anche uno spreco di capitale umano, una sorta di disuguaglianze di destino!
Proietto questa diapositiva da almeno due anni, non sto approfittando della recente débâcle etica di un paranoico arrogante. Del povero bambino siriano spiaggiato già sappiamo. Del nipote di Trump possiamo immaginare il futuro. Che fine farà invece il bambino messicano imprigionato, separato dalla madre ai confini del Messico? Che opportunità di riscatto sociale avrà? Poche, credo. Con infinita tristezza e rabbia mi sento costretto a immaginare che potrebbe diventare un violento, uno spacciatore, un malvivente che sarà presto acchiappato e messo in prigione se non verrà prima soffocato dall’insistente peso sul collo di un solido poliziotto o ammazzato con un banale proiettile.
Un libro (e altro ancora) avrebbe potuto scardinare il muro tra USA e Messico?
Ricerche effettuate dall'Istituto Superiore di Sanità e altrove nel mondo sui bambini della scuola elementare hanno trovato che è obesa una percentuale maggiore di bambini i cui genitori hanno frequentato la sola scuola dell'obbligo a fronte di quelli con i genitori diplomati e soprattutto rispetto a quelli con i genitori laureati. Inoltre i primi mangiano meno frutta e verdura fresche ed effettuano raramente una visita pediatrica, oculistica o dentistica (9).
Libri e parole…
Un economista premio Nobel 2000, James Heckman (10), ha curato uno studio esemplare ed ha concluso che abbiamo la necessità di una prevenzione seria e precoce perché, in fondo, è redditizia! Ha seguito tre gruppi di bambini: i figli di genitori disoccupati disponevano di 500 parole, i figli di genitori con mestieri umili di 700 parole, mentre i figli dei laureati arrivavano a 1.100.
Seguendo negli anni i tre gruppi di bambini ha visto che lo scarto tra i tre campioni tendeva addirittura a crescere, per cui ha concluso che il livello culturale della famiglia è in grado di far prevedere già a 3 anni il futuro del bambino: il successo o meno nella vita, la capacità o meno di evitare errati stili di vita, il vizio del fumo e l’obesità, il livello di salute. Per tale motivo James Heckman ritiene economicamente più validi i programmi educativi rivolti alla prima infanzia, quando la permeabilità all’istruzione è massima ed il cervello è più recettivo. L’intervento del welfare classico costa di più ed è meno efficace!
Sono centinaia i lavori recenti sui meriti salutari dello studio. Ne cito solamente alcuni. Alice R. Carter e colleghi ci comunicano che “Studiare fa bene al cuore: riduce il rischio di infarti e ictus”. La ricerca suggerisce che solo la metà di questo effetto protettivo deriva dalla riduzione del peso corporeo, dei livelli di pressione arteriosa e del fumo. Si può anche ipotizzare una maggiore interazione con il medico che potrebbe agire sulla prevenzione e le diagnosi precoci (11).
Gli svantaggiati partecipano meno ad attività sportive, di volontariato, musicali, teatrali, a visite museali ecc. le quali, a parità di condizioni economiche della famiglia, migliorano le competenze cognitive.
La nuda statistica ci conferma ancora una volta il valore umano ed economico, non dimenticando quello etico, del “prendersi cura anche delle parole”. Malala alle Nazioni Unite aveva pronunciato queste: “L’istruzione è una delle benedizioni della vita. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono cambiare il mondo…”. È diventata famosa nel mondo semplicemente perché “voleva studiare” e desiderava che potessero farlo altre ragazzine come lei: ha rischiato di perdere la vita perché un fanatico ignorante le ha sparato giusto in testa.
Nel suo articolo sull’Espresso dell’11 febbraio 2018 Elvira Seminara esordisce così: “Scusate se inizio così, ma c’è una parola che muore mentre leggete questo pezzo…”
Il nostro Erri De Luca mi ha sconvolto con questa amara e profonda riflessione: “La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva eguaglianza. Non aboliva la miseria, ma tra le sue mura prometteva il pari. Il dispari cominciava fuori…”.
Dobbiamo prenderne atto. Ragionevolmente non possiamo continuare a sperare nel nostro saltuario emergente italico talento, nelle eccezioni…
In conclusione, ceto, reddito e istruzione condizionano certamente alcuni comportamenti dannosi alla salute: dipendenze da alcol, droghe, fumo, azzardo, sedentarietà, cattiva alimentazione, sovrappeso, diabete mellito, ipertensione arteriosa, malattie cardio e cerebro-vascolari, broncopatie, neoplasie, malattie legate a sesso non protetto, esposizione ad inquinamento.
Infine: “Essere poveri è come essere vecchi” recita un graffito vicino al lago Vittoria. Però ridere fa bene. Allora finisco con lui!
Bibliografia
1. Patient empowerment—who empowers whom? The Lancet 2012; 379: 1677
2. Richards T, Montori VM, Godlee F, Lapsley P, Paul D. Let the patient revolution begin. BMJ 2013;346:f2614
3. Giuseppe De Rita e Antonio Galdo. Prigionieri del presente. Einaudi 2018.
4. La cultura degli italiani. Conversazione con Tullio De Mauro curata da Francesco Erbani. Laterza 2004.
5. Giuseppe Costa et al. L'equità in salute in Italia. Secondo rapporto sulle disuguaglianze sociali in sanità. Franco Angeli. 2015
6. La salute diseguale. Michael Marmot. Pensiero Scientifico Editore 2016
7. Silvia Stringhini et al. Socioeconomic status and the 25 × 25 risk factors as determinants of premature mortality: a multicohort study and meta-analysis of 1·7 million men and women. The Lancet Vol 389, March 25, 2017
8. Phil M. Choi et al. Social, demographic, and economic correlates of food and chemical consumption measured by wastewater-based epidemiology. PNAS October 22, 2019 116 (43) 21864-21873.
9.www.epicentro-ISS.
https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjS8ZXE3qfuAhXauaQKHROJA6oQFjADegQIBBAC&url=https%3A%2F%2Fwww.epicentro.iss.it%2Fokkioallasalute%2Findagine-2019-dati&usg=AOvVaw1n_VkunoFRw58LQCQXE554
10. James Heckman, nel seguente sito e altrove. https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwj0g9LB4qfuAhXJC-wKHd-fAFYQFjAEegQIAxAC&url=https%3A%2F%2Fwww.avvenire.it%2Fopinioni%2Fpagine%2Fl-investimento-che-manca-all-italia&usg=AOvVaw27bDzQ2tQ1n-k84NTw9Jga
11. Alice R Carter et al. Understanding the consequences of education inequality on cardiovascular disease: mendelian randomisation study. BMJ May 2019
- Autore/rice Giampaolo Collecchia
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
L’intelligenza artificiale (IA) sta cambiando il paradigma culturale della medicina, i modelli algoritmici sono sempre più in grado di fornire risposte clinicamente importanti, soprattutto in contesti ad elevata complessità.
L’ambito della palliazione rappresenta un setting ottimale per l’implementazione di strumenti finalizzati a migliorare la condivisione delle scelte assistenziali e la relazione di cura tra medico, paziente e familiari. Le tecniche del cosiddetto machine learning possono stabilire una prognosi in maniera sempre più accurata e identificare i pazienti a maggiore rischio di declino funzionale o di mortalità a breve termine. Tecniche di natural language processing possono inoltre analizzare il linguaggio non strutturato, ad esempio le note cliniche inserite in cartella e i testi liberi, per identificare con maggiore efficacia i bisogni dei pazienti complessi.
Il livello di accuratezza non è peraltro sempre ottimale per cui rimane un’ampia dimensione di incertezza (1). Per esempio, una sopravvivenza media di 6 mesi può significare che qualcuno vivrà poche settimane, qualcun altro anni.
Tali strumenti, nonostante i limiti metodologici, che molto probabilmente verranno superati nei prossimi anni, sono già sul mercato e utilizzati anche come strumenti di gestione ospedaliera per ottimizzare le risorse, non sempre ad esclusivo vantaggio dei malati.
Riteniamo utile una riflessione sullo sfondo concettuale, sulla cornice relazionale e contestuale nella quale gli strumenti predittivo potrebbero essere utilizzati (2).
Il malato in fase avanzata e i familiari
Il tempo della comunicazione fra medico e paziente, secondo la legge 219/2017, è considerato tempo di cura, fondamentale per consentire al paziente di compiere scelte decisionali in condizioni non ancora compromesse dall’avanzare della malattia. Quello di essere informato è infatti un diritto primario del paziente, per riorganizzare la propria vita, dare il consenso alle cure, provvedere agli interessi morali ed economici propri e della famiglia (3).
La condivisione delle decisioni è uno strumento relazionale essenziale, basato sul confronto tra un esperto di conoscenze scientifiche (il medico) e un esperto della conoscenza di sé stesso (il paziente). Solo da tale confronto negoziale può derivare una decisione clinica condivisa, che non si deve basare né esclusivamente sui dati scientifici, spesso peraltro non disponibili, né sulla sola percezione soggettiva del paziente.
Soprattutto Il medico di medicina generale (MMG) ha un rapporto di fiducia con il malato maturato nel tempo, attraverso la continuità dell’assistenza (“tutto l’arco della vita”), conosce la capacità di adattamento del paziente (“coping”) e può identificare i bisogni e le soluzioni di volta in volta necessarie, con una visione multidisciplinare che utilizza competenze su vari piani, modulando le proprie funzioni e delegando su problemi specifici.
Il MMG conosce le dinamiche familiari e si prende cura di tutta la cosiddetta famiglia di curanti, intesa come l’insieme di familiari, parenti meno stretti, badanti, operatori sanitari non medici, consulenti profani che svolgono un ruolo determinante per l’assistenza del malato in fase avanzata. Il curante ha bisogno di loro per l’assistenza, le terapie, il sostegno al malato. Essi a loro volta esercitano una funzione di sorveglianza e condizionamento, con il rischio di possibili pressioni e invadenze. Nei confronti dei familiari, spesso suoi assistiti, il MMG ha inoltre dovere di cura nelle frequenti condizioni di stress, ansia, depressione. Il suo ruolo non finisce inoltre con la morte del paziente ma si estende alla prevenzione e alla cura delle patologie del lutto.
Informare i pazienti e i familiari sulla prognosi negativa significa esercitare al meglio la propria professionalità per “pesare” con attenzione la quantità e qualità di informazione da fornire, utilizzando un linguaggio comprensibile ed un approccio interattivo, per ottenere una conoscenza condivisa del problema e un impegno adeguato e responsabile da parte di tutti. La comunicazione può avere infatti un impatto devastante, sia per il diretto interessato, sia per i suoi cari. Come afferma Giuseppe Remuzzi “la verità può far male, ma il modo di dirla non deve far male per forza”(4).
Nell’ambito delle cure palliative tale negoziazione è particolarmente complessa, è infatti intenso il coinvolgimento emotivo, i disturbi spesso nosograficamente inusuali e compresenti, taluni inevitabili, è inoltre frequente il rapido peggioramento. Molto spesso il MMG si chiede se si sta rischiando l’accanimento palliativo (“la fuga nella tecnica”) e per chi è in realtà la terapia in certi momenti: per il paziente, per i familiari, per sé stesso?
Da sempre esiste il conflitto tra dire e non dire (5,6), soprattutto su “quando, quanto e come” dire. In generale la verità deve essere comunicata a chi lo chiede o quando è comunque necessario, ad esempio per evitare fraintendimenti in grado di condizionare il processo assistenziale. Gli effetti e la portata devono essere dilazionati e circoscritti, in modo da lasciare spazio ad altre autonome e competitive costruzioni del paziente che, anche se deboli sul piano scientifico e giudicabili a volte irrazionali, sono in realtà spesso utili come strategie di coping (7).
Alcune persone vogliono la verità, altre vogliono sentirsi dire che guariranno anche quando lo stadio della malattia è molto avanzato. Esiste una letteratura molto vasta, con opinioni contrastanti, frutto di contesti culturali diversi, anche se attualmente prevale la tendenza a dire la verità, talvolta con decisione, anche per motivi medico-legali. L’articolo 30 del codice deontologico peraltro tutela espressamente il rispetto della documentata volontà dell’assistito di non essere informato o di delegare ad un altro soggetto l’informazione.
Le perplessità del medico a dire la verità sono molteplici (vedi tabella 1).
Il concetto di verità inoltre non è assoluto, esistono diverse verità: del medico, del paziente, dei familiari, biologica, esistenziale…. La stessa verità scientifica è tale solo all’interno di un sistema di riferimento autoreferenziale, che tende a scotomizzare le variabili soggettive e di contesto. La diagnosi, verità per antonomasia per il medico, è solo UNA verità, non essendo in grado di descrivere il vissuto del paziente. Si deve quindi offrire al paziente la possibilità di fare domande e di esprimere le proprie preoccupazioni, per ricevere i necessari chiarimenti e contemporaneamente graduare le successive informazioni.
Spesso i pazienti temono non tanto il possibile esito infausto quanto il difficile percorso che sta per iniziare, il “come” morire più della morte stessa (8). La qualità di vita spesso conta più della quantità. Il medico deve quindi a sua volta porre domande, con sensibilità ed attenzione, cercare di comprendere le loro priorità, altrimenti la cura non è allineata ai veri bisogni. Medico e paziente devono trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda, per realizzare il cosiddetto aligning, allineamento, definito da Maynard come processo mediante il quale vengono messe a fuoco le informazioni a partire da quanto il paziente già conosce.
Nella tabella 2 sono elencate alcune domande suggerite dal celebre chirurgo statunitense di origine indiana Atul Gawande in una lecture al congresso annuale della American Society of Clinical Oncology (9).
I malati hanno spesso paura di trovarsi soli, di perdere l’identità (“disintegrazione”), di morire soffrendo, soffocati, di perdere il controllo, di essere di peso alla famiglia. In maniera speculare, la “buona morte” significa adeguato controllo del dolore e dei sintomi, astensione dall’accanimento terapeutico, aiuto per alleviare il carico dei familiari, mantenimento del controllo per lasciare un “ultimo ricordo di sé”, rafforzamento dei legami con le persone care (10).
I familiari richiedono informazioni comprensibili sulla importanza dei sintomi, su come assistere il malato, sui servizi sanitari disponibili. Vogliono conoscere la possibile modalità di morte (“come mi accorgo che è morto?”), come riconoscerne l’imminenza, a chi rivolgersi in caso di emergenza (“se è notte, chi chiamo ?”) (11). Chiedono la prognosi probabile: “quanto vivrà ancora”, a volte con angoscia, a volte con auspici di liberazione, spesso percepiti con senso di colpa. Richiedono infine sostegno pratico e domestico, burocratico e amministrativo, psicosociale, economico, spirituale.
La pianificazione anticipata delle cure, idealmente concordata tra curante, paziente e specialista, dovrebbe essere anticipata al malato a grandi linee e formulata presentando le reali possibilità terapeutiche, il rapporto tra rischi e benefici e le incertezze, inevitabili nella pratica della medicina, anche tenendo conto degli oggettivi limiti predittivi del singolo caso. Quando le prospettive realistiche di evoluzione favorevole sono oggettivamente poco credibili, si deve comunque assicurare ogni sforzo per conservare qualche elemento di speranza e comunque garantire un buon controllo della sofferenza (12).
In generale la stima della aspettativa di vita tende alla sopravvalutazione, indipendentemente dal tipo di patologia e dall’abilità/esperienza del medico, anche se sono descritte possibili traiettorie di malattia (13), che tentano di descriverne l’evoluzione. Alcune possibili cause della sopravvalutazione sono la non risoluzione personale del problema da parte del medico e l’atteggiamento di protezione nei confronti del paziente.
I modelli predittivi della IA potranno in futuro aiutare a definire meglio una verità prognostica, ma nel singolo individuo rimane, almeno per ora, un ampio margine di incertezza. È pertanto necessario, e lo sarà sempre, un atteggiamento positivo, evitando di considerare passivamente e fatalisticamente la condizione del malato. Si devono fornire informazioni generiche, evitare previsioni specifiche e indicazioni temporali precise, anche quando fossero disponibili accurate. Il rischio è infatti la sensazione di inganno, di delusione ma anche di “lutto anticipatorio protratto”.
L’attenzione deve essere concentrata su problemi concreti, a breve termine, valorizzare punti di forza, capacità dimostrate in passato, trattare eventuali sintomi psichici, spesso sottovalutati in quanto considerati risposte fisiologiche e accettare il modello di malattia che il paziente costruisce nella sua fantasia, compresa la negazione dell’evidenza.
La morte e il morire
“Infermità, malattie ma anche la morte sono considerati incidenti biologici, evitabili, temporanei anacronismi lungo il regale percorso del progresso medico”. D. Callahan
Per l’uomo contemporaneo la morte è “nascosta”, “proibita”, “o-scena”, nel senso di fuori scena. Secondo P. Ariès, storico francese, il mondo occidentale è andato incontro ad un processo di progressiva “negazione della morte”: in passato la morte era” addomesticata”, di casa, naturale, condivisa nel contesto di vita, conclusione inevitabile del vivere e componente naturale della vita (13).
Nel contesto culturale attuale risulta impossibile parlarne: la morte è l’argomento tabù per eccellenza in una società tutta protesa a negarne l’esistenza e ad affermare il valore della energia fisica e dell’immortalità. Essa non è più considerata un evento puntuale, spesso improvviso, imprevedibile, ma un processo, gestibile dalla sanità, un nemico da combattere, ritardabile, modulabile, con modalità che spesso finiscono per diventare accanimento terapeutico.
Le reti protettive che un tempo accoglievano il morente, la famiglia numerosa, la comunità, il conforto della fede, sono venute progressivamente meno. La morte è stata delegata alla medicina, l’esperienza della fine ha una risposta tecnica ed espropriatrice, che può essere ulteriormente accentuata quando fossero diffusi e facilmente disponibili, anche nella pratica quotidiana, modelli predittivi in gradi di tradurre la sofferenza in dati matematici e di frapporsi nella gestione della esperienza più angosciante dell’uomo.
Il vissuto del medico
Il medico è anch’egli partecipe di questa visione culturale e il suo coinvolgimento, nonostante la tecnologia, ha un costo emotivo alto, modulato in funzione della soggettiva tolleranza verso l’incertezza, della capacità di elaborare la sofferenza, della diversa accettazione dei limiti, personali e in generale della professione.
Il medico si confronta inevitabilmente con la propria capacità di affrontare concettualmente la propria morte, una entità “irrappresentabile”, perché di fronte a tale pensiero ciascun uomo diventa ogni volta spettatore di una immaginazione impossibile.
Chi vive la propria morte come un tabù non può affrontare in maniera professionale quella di un malato terminale. Allo stesso modo, il curante che si sente “onnipotente” non può familiarizzare con la morte, perché la percepisce come un nemico da sconfiggere e ciò può generare un senso di disfatta, impotenza. Tale avversione, cognitivamente negata, si può esprimere spesso attraverso l’occultamento della verità o tramite l’incapacità o il disagio nella comunicazione.
Ci sono situazioni invece nelle quali la morte diventa non più un nemico da affrontare e battere ma un elemento di libertà, una affermazione di volontà del paziente che non ammette sotterfugi e mezze verità ma viene rivendicata lasciando il medico spiazzato e sconcertato.
I vissuti personali del medico possono associarsi a pensieri, emozioni condivise con il paziente, al ricordo di memorie sopite. Mettersi a confronto con i propri sentimenti, le proprie paure, può servire a conoscere meglio il proprio modo di agire e quindi a modificarlo, per trovare le giuste distanze e costruire relazioni terapeutiche più partecipi (14).
La non considerazione dei propri vissuti personali da parte del medico può indicare un utilizzo inconsapevole di meccanismi di difesa, con possibili distorsioni nella percezione della relazione che, a lungo termine, possono contribuire allo sviluppo di fenomeni di “burn out” da assuefazione affettiva.
La scomparsa di malati così impegnativi e così poco “gratificanti” sul piano clinico può far provare al medico sentimenti di sollievo che provocano sensi di colpa, anche non espressi e percepiti consapevolmente.
Riflessioni conclusive
La comunicazione della prognosi nei malati gravi è da sempre un tema molto complesso: il tempo che rimane. chi può dirlo? Come si fa ad esserne sicuri nel singolo paziente? Quando parlarne? Le conseguenze della mancata informazione possono essere il ritardo nell’organizzazione delle cure palliative, la mancata preparazione emotiva al reciproco distacco con i familiari, la frettolosità nell’espressione delle ultime volontà.
Il miglioramento delle capacità predittive potrà permettere un potenziamento delle capacità prognostiche e anche una più accurata identificazione dei bisogni più complessi, spesso occulti, quelli che nemmeno il MMG, che ha costruito una storia a volte decennale con il paziente, è in grado di aspettarsi.
Il rischio è che non solo la morte stessa e il morire siano ormai di pertinenza della medicina, ma possano diventarlo anche i sentimenti delle persone, ad esempio il desiderio di mantenere nascoste certe verità, ai familiari e anche al medico, segreti che un impersonale calcolatore digitale potrebbe far emergere. Inoltre, anche se fossero disponibili score algoritmici precisi e affidabili, rimane il problema di sempre: dirlo o non dirlo?
Si rischia un riduzionismo perverso: la relazione medico-paziente, sfumata, fondata sul non detto, sull’implicito, su complicità e sguardi, può finire per essere guidata dalle macchine, i pazienti diventare entità classificate secondo codici prognostici, più o meno affidabili (e più o meno rimborsabili), titolari di interventi basati su fredde analisi costi-benefici ma non su una reale presa in carico per garantire una morte dignitosa. La stessa speranza potrebbe essere perduta su basi scientifiche. Il medico, conoscendo i dati sicuri sulla prognosi, anche involontariamente potrebbe comunicare al malato una verità che altrimenti avrebbe potuto celare con maggiore facilità a causa dell’incertezza delle modalità tradizionali di assessment.
I dati peraltro, anche quelli scientifici, non sono valori, qualunque intervento basato su di essi deve essere dotato di senso. I modelli predittivi potranno pertanto essere utili ma solo come strumento complementare e soprattutto opzionale per il medico, uno dei parametri di cui valutare l’utilità nelle diverse situazioni specifiche.
La premessa per il loro utilizzo è una accurata supervisione umana, di alta qualità, emergente da una sensibilizzazione alla comunicazione orientata ai bisogni dei malati e delle loro famiglie, per evitare di trasformare la fase terminale della vita in materiale per previsioni più o meno centrate, aggiungendo alle già consolidate tipologie di accanimento, diagnostico, terapeutico e palliativo, quello prognostico.
Bibliografia
1) Topol E. High-performance medicine: the convergence of human and artificial intelligence. Nature Medicine 2019; 25: 44-56
2) Marin M. Come comunicare una diagnosi grave. M.D. Medicinae Doctor 1996; 21: 16
3) Remuzzi G. La scelta. Perché è importante decidere come vorremmo morire. Sperling & Kupfer, 2015
4) Yourcenar M. Memorie di Adriano. Torino: Einaudi, 1988
5) Panti A. Il cittadino e la prognosi infausta. Informare o dissimulare? Toscana Medica, 1998
6) Longoni P, Pagliani S. La linea che guida il colloquio con chi è grave, congiunge verità e pietà. Occhio Clinico 2004; 7: 24-26
7) Rabow MW et al. Serving Patients Who May Die Soon and Their Families. JAMA. 2001;286(11):1377. doi:10.1001/jama.286.11.1377
8) Editoriale. La qualità di vita conta più della qualità della vita. Recenti Prog Med 2019; 110: 269-270
9) Ganzini L, Block S. Physician-Assisted Death — A Last Resort? N Engl J Med 2002; 346:1663-1665 DOI: 10.1056/NEJM200205233462113
10) Ramirez A et al. ABC of palliative care: The carers. BMJ 1998;316:208-11
11) Di Diodoro D. Cattive notizie ma con dolcezza. Occhio Clinico 1997; 4: 26
12) Scott A Murray et al. BMJ 2005;330:1007-1011
13) Ariès P, Storia della morte in occidente, 1978
14) Simionato C. Raccontare il cancro per dargli un senso. Janus 2006; 22: 76-78
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Notizie allarmanti dai media: gli screening crollano del 70%, Covid blocca la prevenzione.
Dobbiamo darci responsabilmente da fare, col Covid e senza Covid!
Appena il tempo di pubblicare qui l’articolo del mese scorso sulla Prevenzione della fragilità e (della maggior parte) delle demenze e proprio a fine novembre sono state presentate le linee guida 2020 OMS (WHO) su attività fisica e sedentarietà. “Every move counts “, ossia: qualsiasi tipo di movimento conta.
Su “WHO guidelines on physical activity and sedentary behaviour” si accenna a qualche novità riguardante l’attività fisica ricreativa da praticare in maniera regolare e si dà uno spazio intelligente anche al concetto di mobilità attiva come pratica abituale, peraltro rispettosa dell’ambiente e con bassa incidenza di spese (ad es. di trasporto), facilitata ovviamente dall’ambiente sicuro, accogliente, vivibile. Si può semplicemente scegliere di usare le scale, di camminare o di usare la bici o gli sci da fondo (quando sarà possibile…), di nuotare (quando sarà possibile…).
Nel frattempo, sempre circa un mese fa, hanno visto la luce altri documenti: “Le persone con diabete dovrebbero fare almeno 30 minuti al giorno di attività fisica ad intensità moderata o superiore, idealmente tutti i giorni della settimana”. È quanto emerge dalle linee guida pratiche sulla camminata per i pazienti con diabete di tipo 2, realizzate dalla Società italiana di diabetologia (SID), dall'Associazione medici diabetologi (AMD), e dalla Società italiana di scienze motorie e sportive (SISMES).
A rafforzare l’idea che “basta poco movimento e la pillola (antidiabetica in questo caso, ma potrebbe trattarsi anche di quella ipotensiva) non va giù” è stato pubblicato uno studio su JAMA che si può riassumere così: “Poco moto in più e 2-3 kg in meno dimezzano il rischio diabete”. Gli esperti hanno seguito per un tempo medio di otto anni oltre 1000 persone ad alto rischio di ammalarsi di diabete, perché già con glicemia a digiuno alta (valori compresi tra 100 e 126 mg/dl di sangue), una condizione denominata prediabete che vede aumentare di circa il 50% il rischio di ammalarsi di diabete vero e proprio nel giro di soli 5 anni (1)
Aggiungo che anche il prediabete è una condizione che danneggia i vasi sanguigni e altro.
Cambiando registro, una notizia:”Lavorare fa bene...”. In sintesi, il lavoro retribuito protegge la memoria delle donne, siano esse sposate o single o con figli. Lo studio ha coinvolto quasi 6200 donne di età media 57 anni, il cui stato di salute è stato monitorato per un periodo complessivo di 12 anni, con controlli della memoria biennali. È dai 60 anni in su che emergono le differenze, la memoria delle donne con figli che sono state o sono lavoratrici declina più lentamente della memoria delle coetanee che non hanno lavorato o che hanno smesso definitivamente di farlo dopo la nascita dei figli. La memoria di una mamma non lavoratrice si riduce nello stesso arco di tempo del 50% di più della memoria di una mamma lavoratrice (2).
Purché, aggiungerei, non sia un lavoro ripetitivo, noioso, non apprezzato, altamente stressante, malamente sopportato, nel qual caso diventa un fattore di rischio per fragilità e demenza….
Non credo di spendere altro in questo scritto sui nove fattori di rischio per fragilità e demenze, evito così di renderlo un mattone, anche se gli incalzanti sovrappeso e obesità, ipertensione, fumo ecc. meritano le dovute attenzioni. Sulla depressione come fattore di rischio ma anche come elemento spesso “confondente” nel panorama delle demenze ho già scritto più volte qui.
Su scolarità e “curiosità culturale” tornerò a discutere nel prossimo numero, trattando questo tema insieme alle sempre più emergenti disuguaglianze sociali.
Ora desidero soffermarmi su altri fattori di rischio di fragilità e demenze oltre quelli dell’elenco conosciuto (vedi articolo precedente).
Un decimo, anche se non sempre modificabile, è legato ai problemi di vista: possiamo immaginare cosa avviene, sintetizzando in modo estremo, nella mente di una Persona ipovedente, tra depressione reattiva e ridotto flusso di buona parte delle informazioni (3).
Persino l’ormai semplice intervento per la cataratta, col recupero della visione, è in grado di migliorare le funzioni cognitive (4,5)
L’undicesimo riguarda un tema coinvolgente e tuttora incerto perché combattuto tra i precedenti studi che magnificavano come utile per la salute l’uso di modiche quantità di vino rosso ricco di polifenoli e, dall’altro punto di vista, un dato che riassumo con un solo lavoro, davvero inquietante:
“Basta l'alcol contenuto in due birre per provocare, nel lungo periodo, la perdita di cellule dell'ippocampo…” (6). L’abuso di alcol, comunque, va ribadito, é dannoso.
“Quando il sonno viene limitato a sole 5 ore, la beta-amiloide aumenta in due regioni del cervello note per essere vulnerabili nei confronti della malattia di Alzheimer: l'ippocampo, importante per la memoria, e il talamo, che aiuta a trasmettere i segnali nel cervello e regola il sonno e la coscienza. Il sonno é importante per eliminare i «rifiuti» dal cervello” (7). Siamo al dodicesimo fattore di rischio in qualche modo modificabile (e magari non attraverso l’uso di benzodiazepine: v. dopo).
Non si accumula però nel cervello dell’insonne solamente l’amiloide ma anche la tau, l’altra proteina implicata nella malattia di Alzheimer. Addirittura ciò sembra accadere persino in persone “non anziane”: uno studio preliminare svedese pubblicato quest’anno, effettuato su 15 giovani uomini, ha dimostrato che quando soggetti giovani e sani sono privati di una sola notte di sonno presentano nel sangue livelli più alti di tau rispetto a quando hanno trascorso una notte completa e ininterrotta di riposo (8).
A questo punto ci viene incontro nuovamente l’attività motoria ricreativa, il semplice cammino. Alycia N. Sullivan Bisson e colleghi (9) hanno dimostrato come fare 2000 passi in più al giorno aiuta a dormire meglio la notte. Hanno monitorato 59 persone dotate di contapassi, notando che quelle che avevano aumentato il cammino quotidiano di 2000 passi, circa un chilometro e mezzo, non solo dormivano di più la notte ma soprattutto dormivano meglio, con un sonno più profondo, rispetto a quelle che non avevano cambiato le loro abitudine fisiche.
Accenno ancora a due fenomeni: agli effetti dannosi generali e cerebrali delle apnee nel sonno, poco conosciute, indagate e trattate in Italia rispetto ad altri paesi, soprattutto nelle donne, e poi ai nostri ritmi circadiani. Il ritmo circadiano, scritto nel nostro DNA, ci detta quando dormire, mangiare ed eseguire attività fisica, destinandoci così ad essere mattinieri (cronotipo mattutino: l’allodola!) o nottambuli (cronotipo serale: il gufo!). I nostri orologi biologici sincronizzano i sistemi metabolici per renderli efficienti e funzionali nel periodo diurno per lasciarci riposare la notte. Se invertiamo le nostre attività, creiamo il fenomeno della “chronodisruption” correlata direttamente con disturbi metabolici, obesità e malattie cardiovascolari. I nottambuli possono avere un rischio maggiore di soffrire di malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2 rispetto ai mattinieri, in quanto tendono ad avere modelli nutrizionali meno salutari che non rispettano le tre dimensioni del comportamento alimentare - tempistica, frequenza e regolarità - e quindi i ritmi biologici e metabolici del nostro organismo (crono-nutrizione).
Chi dorme poco la notte e magari sonnecchia ore (sbagliato!) sul divano (sedentarietà) fa spesso visite inopportune nel frigo e aggiunge punti all’indice di massa corporea (BMI).
Al tredicesimo posto metterei lo stress cronico, quello cattivo, poiché possiede un ruolo nell’aumento del cortisolo e del danno ippocampale mediato dal glutammato che ricade nell’economia complessa del nostro cervello.
Ce lo saremmo immaginato al quattordicesimo posto un ruolo per le paradontiti? Si, anche loro sembrano “far male” alla salute del cervello (10). Ampliando lo sguardo verso un’economia globale del nostro corpo – nell’articolo precedente ho ricordato che ciò che va bene per il cervello fa bene al cuore e viceversa – aggiungo che il cervello può essere danneggiato attraverso un problema cardiaco più frequente a manifestarsi nella persona che invecchia: la fibrillazione atriale. E anche in questo caso i germi gengivali (e il microbiota intestinale no?) sembrano far danno. Alcuni ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 161.286 persone, seguite per circa 10,5 anni scoprendo che gli individui che si lavavano i denti tre volte al giorno avevano il 10% in meno di probabilità di sviluppare fibrillazione atriale e il 12% in meno di sviluppare insufficienza cardiaca rispetto a quelli che si lavavano i denti meno frequentemente (11).
Chi troviamo al quindicesimo posto, secondo questa mia personale hit parade? L’inquinamento… Qualcuno, a proposito di Alzheimer, si era posto il problema già nel 2014, parlando di “pistola fumante” (12). Poi, a ragione, si sono scatenati in tanti: il particolato ultrafine di magnetite (un ossido di ferro), prodotto dal traffico, soprattutto dai motori Diesel e dagli impianti di generazione di energia, è responsabile di malattie polmonari e cardiocircolatorie, ma anche di altro…” (13, 14).
Abitare vicino a strade trafficate, per esempio: quest’anno Weiran Yuchi e colleghi (15) hanno analizzato i dati di 678.000 adulti del distretto Metro Vancouver , osservando che vivere a meno di 50 metri da una strada principale o a meno di 150 metri da un'autostrada è associato a un rischio maggiore di sviluppare demenza, Parkinson e sclerosi multipla. Durante il periodo di follow-up, i ricercatori hanno identificato 13.170 casi di demenza non-Alzheimer, 4.201 casi di Parkinson, 1.277 casi di Alzheimer e 658 casi di sclerosi multipla. Per la demenza non-Alzheimer e il Parkinson, in particolare, vivere vicino alle strade principali o a un'autostrada è stato associato a un aumento del rischio di entrambe le condizioni rispettivamente del 14% e del 7% per cento.
I ricercatori hanno anche scoperto che vivere vicino a spazi verdi, come i parchi, ha effetti protettivi contro lo sviluppo di questi disturbi neurologici. Suggeriscono che questo effetto protettivo potrebbe essere dovuto a diversi fattori: avviene solo perché andiamo a “respirar terpeni”, come mi piace sintetizzare parlando dei benefici del passeggiare nel bosco, oppure perché rientra in uno stile di vita globalmente corretto e attento? Infatti, le persone maggiormente esposte agli spazi verdi hanno più probabilità di essere fisicamente attive e di avere più interazioni sociali.
Esiste realmente un collegamento tra sviluppo intellettuale e comportamentale nei bambini e spazio verde urbano? Sembra proprio di si: uno studio pubblicato in agosto, condotto in Belgio, ha incluso 620 bambini (310 coppie di gemelli) da 7 a 15 anni e, dai risultati del modello utilizzato, ha osservato una significativa correlazione tra la prossimità/distanza delle abitazioni di questi bambini dagli spazi verdi e il loro sviluppo intellettivo (misurato utilizzando uno strumento convalidato, la Wechsler Intelligence Scale for Children-Revised) e quello comportamentale (anch’esso valutato utilizzando uno strumento convalidato, la Achenbach Child Behavior Checklist). Queste correlazioni non sono state osservate nei bambini residenti in aree suburbane e rurali (16).
Infine, una recentissima analisi dei dati di oltre 18.000 adulti con deterioramento cognitivo: ha suggerito un’associazione tra l’inquinamento dell’aria (maggiori concentrazioni di particolato fine [PM2,5]) e la presenza di placche di β amiloide cerebrali, caratteristica della malattia di Alzheimer. Gli anziani con deterioramento cognitivo lieve (MCI) o con demenza residenti in aree con più alte concentrazioni di PM2,5 avevano una probabilità maggiore di positività alla PET amiloide, l’esame che “vede” il deposito di questa sostanza nel cervello (17).
Arrivo a delineare il sedicesimo fattore di rischio in buona parte modificabile, un argomento a me particolarmente caro e che mi fa dannare: alcune categorie di farmaci rappresentano delle vere e proprie mine vaganti per la salute dell’anziano.
Tanto per immergerci nella complessità “farmacologica” è necessario aggiungere che, a complicare la vita di chi è in là negli anni, esistono numerosi medicinali che, possedendo ovviamente delle attività “utili” sui neurotrasmettitori, possono influenzare la salute se adoperati in maniera scorretta.
Quanti anziani, ad esempio, accogliamo tra i nostri pazienti con una storia lunga 20 o 30 anni di Valium, Tavor, EN, Minias e altre benzodiazepine (BDZ) usate per l’insonnia? In recenti lavori scientifici si parla di aumentato rischio di demenza ed anche di morte per un uso prolungato negli anni (18,19, 20).
Ma esistono pure all’incirca 600 molecole dotate di azione anticolinergica (“contro” l’acetilcolina), meccanismo che può rivelarsi, tra l’altro, assolutamente “negativo” nel bilancio della memoria e del comportamento. Tra queste particolari mine vaganti si nascondono degli insospettabili compagni di strada della nostra vita, farmaci per così dire storici di cui indico il nome commerciale, come il Buscopan, lo Spamomen, il Lexil (vedere dopo) e tanti loro sodali antispastici viscerali, l’antidepressivo Laroxyl – spesso usato per combattere sintomatologie dolorose - ed altri vecchi “triciclici” (triciclici: che nome allegro!); c’è anche un antidepressivo più recente come l’usatissima Paroxetina (vari nomi commerciali); sono implicati alcuni farmaci che agiscono a livello bronchiale e vescicale e persino vecchie glorie come il Lasix, il Lanoxin, il Coumadin, la Codeina, gli antistaminici…
A proposito di antistaminici, la scheda tecnica del Benadryl e dell’ Allergan recita così: “Per i suoi effetti anticolinergici il prodotto non deve essere utilizzato in caso di glaucoma, nell’ipertrofia prostatica, nell’ostruzione del collo vescicale, nelle stenosi piloriche e duodenali o di altri tratti dell’apparato gastroenterico ed urogenitale...”
Non una parola su possibili reazioni negative, come alterazioni cognitive e persino il temutissimo e trascurato delirium!
Sui bugiardini, quindi, non esiste un chiaro avvertimento sugli eventi avversi a carico del cervello, un indizio di pesante sottovalutazione e di scarso impegno nei riguardi degli effetti neurologici sulla popolazione anziana, una ottusa modalità operativa in un mondo che invecchia nell’abbondanza di rimedi farmacologici.
Sull’ignoranza che grava a proposito di conoscenze neurologiche ho accennato ( qui) più volte: la neurologia, quest’altra sconosciuta; il direttore della prestigiosa rivista The Lancet che non viene “toccato” dai medici e che dichiara “l’esame neurlogico non esiste!” ( qui ).
Buoni propositi e cattive soluzioni in una recente esperienza e un caso di arroganza noncurante in queste due storie che ho vissuto come relatore e che vi racconterò in breve.
In un progetto di deprescrizione di benzodiazepine in residenze per anziani è stato proposto e somministrato il Laroxyl in gocce come placebo, ovvero come sostanza “inerte” (dovrebbe essere questa la natura e la funzione del placebo! Ma il Laroxyl non è inerte, anzi!). Parlando proprio di ciò e in generale degli anticolinergici ad un altro convegno, sono stato attaccato energicamente da un collega neurologo: “Vuoi privare un anziano che ha una nevralgia post-erpetica di questo farmaco?”
Cosa rispondere? “Si può provare, collega, ma se l’anziano va in confusione o cade corriamo il rischio di innescare un dannato circolo vizioso! Bisognerebbe inoltre valutare anche il “carico anticolinergico” di quella Persona anziana, ovvero chiedersi: quanti altre mine vaganti ad azione anticolinergica sta assumendo? (21)”
La pubblicità di questi 3 farmaci mi arriva circa 3 volte l’anno.
Si riconosce con la stellina gialla il Laroxyl e accanto c’è il Lexil (ambedue anticolinergici) e poi, con la stellina rossa, il Levopraid (antidepressivo, eucinetico viscerale…). Lui funziona diversamente dai precedenti, blocca i recettori del neurotrasmettitore dopamina, come tanti altri, tra cui diversi psicofarmaci e, anche qui, dei compagni di strada che alcuni dei lettori hanno avuto la possibilità di usare, spero correttamente: Serenase e Haldol, Entumin, Mutabon (una delle 3 combinazioni è quella “mite”: Mutabon mite fa tenerezza!), Deanxit e Dominans (dal nome sembrerebbero semplici ansiolitici…), Difmetré, Plasil (si, lui!), altri.
Torno sull’usatissimo Levopraid con una piccola storia di poche settimane fa.
Un collega mi ha chiamato per chiedermi di valutare un anziano con un sospetto parkinsonismo senza tremori. “Magari sta usando qualche farmaco anti-dopaminergico?” gli ho detto scherzando, conoscendo la sua pignoleria. “No, prende di tutto ma nessuno di quelli!”
L’uomo si è presentato lento e impacciato nel movimento, la faccia aveva perduto la sua espressività e così il vigore della parola: un classico parkinsonismo “ipocinetico”, senza tremori (sento il dovere di precisarlo in quanto molta “gente” identifica le parole parkinsonismo e Parkinson come malattie caratterizzate sempre da tremore!).
Ho chiesto subito (vizio mentale) l’elenco dei farmaci. Mi ha allungato lentamente un foglio.
“E questo Levopraid?”
“Lo prendo da dieci anni almeno”.
“Per quale motivo?”
“Non me lo ricordo. Il medico me lo rinnova”.
È un ennesimo esempio di “pasticcio” (eufemismo) da parte della figura professionale del medico nella marea dei farmaci esistenti applicata alla politerapia dell’anziano. Tuttavia, non desidero attardarmi su queste sostanze che agiscono sulla dopamina e sono implicate – se adoperate in un certo modo e sugli anziani, e peggio ancora sulle anziane – in parkinsonismi e numerosi altri disturbi, motori e non, in quanto ne ho portato testimonianza in diversi articoli su questo sito. Un caso emblematico per tutti, vi consiglio di (ri)leggerlo ( qui ).Oppure sul mio "Malati per forza"( Maggioli editore).
Per anticiparvi il tema finale del prossimo articolo sulla Prevenzione contro la fragilità e le demenze, che verterà principalmente sulle disuguaglianze sociali e sull’impegno che almeno tre attori dovranno imporsi, cittadino, medico e politico, vi accenno all’importanza della “comprensione” da parte del primo dei tre.
A volte bisogna adottare cambiamenti, anche radicali, del proprio stile di vita ed esserne capaci richiede fatica e impegno costante e, alla base, una reale comprensione del proprio stato di salute. Confermando elementi oramai certi, uno studio pubblicato a giugno e condotto dalla Mayo Clinic in Minnesota ha rilevato che i pazienti con insufficienza cardiaca e con problemi di alfabetizzazione sanitaria hanno un aumentato rischio di ricovero e mortalità. L'insufficienza cardiaca è una condizione cronica che richiede ai pazienti di assumere capacità di autogestione per monitorare il peso, la pressione sanguigna, controllare la dieta, la glicemia, attenersi alle linee guida su farmaci, fare attività motoria. Insomma, anche questo lavoro suggerisce che la comprensione di un individuo della propria salute potrebbe migliorarne gli esiti (22).
Lo ripeto da anni: CHI SA SI SALVA.
Ma la comprensione probabilmente non basta. Le mie nonne avevano studiato poco e all’epoca di prevenzione si parlava marginalmente. La loro vita, il loro stile di vita, mi ha insegnato qualcosa e l’ho voluto testimoniare nella presentazione di un manuale dell’associazione Alzheimer di Udine pubblicato circa 9 anni fa (23).
Nello scrivere su un argomento che mi sta a cuore perché rappresenta una sfida preventiva ai tanti motivi che impediscono una buona salute nell’età in cui ci chiamano anziani, non posso fare a meno di raccontarvi, col semplice valore di aneddoto, di due anziane con destini diversi.
Si tratta delle mie nonne: una, Filomena, è deceduta a 74 anni dopo almeno due decenni di discreto sovrappeso, diabete insulino-dipendente, cardiopatia, limitazioni articolari; l’altra, Maria, a 94 anni. La nonna Filomena viveva in cucina, brava cuoca e buona forchetta, ed era sedentaria da sempre; la nonna Maria era magra, mangiava lo stretto necessario e ogni giorno, clima permettendo, quindi spesso in Sicilia, faceva una lunga passeggiata da Ortigia, l’isolotto di Siracusa fino alla borgata pochi chilometri dopo il ponte.
Da trentenne avevo considerato che morire a 74 oppure a 94 “fosse comunque da vecchi”: quelle età mi apparivano lontane e inarrivabili.
Ora ho mutato, e mi sembra ovvio, la percezione del valore inestimabile di venti anni di buona salute guadagnati dalla nonna Maria, un regalo della vita che in parte tutti noi siamo nella condizione di meritare, con qualche sacrificio!
Due soggetti sono un campione troppo esiguo per una verità scientifica, ma questa storia personale, a parer mio, non è priva di insegnamenti.
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Bibliografia
1. Michael Sampson et al. Lifestyle Intervention With or Without Lay Volunteers to Prevent Type 2 Diabetes in People With Impaired Fasting Glucose and/or Nondiabetic Hyperglycemia: A Randomized Clinical Trial. Jama Internal Medicine 2020 Nov 2;e205938.
2. Elizabeth Rose Mayeda et al. Association of work-family experience with mid- and late-life memory decline in US women. Neurology. November 04, 2020.
3. Stephanie P. Chen et al. Association of Vision Loss With Cognition in Older Adults. JAMA Ophthalmol. 2017; 135(9):963-970).
4. A.R. Lou, K.H. Madsen, H.O. Julian, et al. Postoperative increase in grey matter volume in visual cortex after unilateral cataract surgery Acta Ophthalmol. 91 (1) (2013), pp. 58-65.
5. Lin H, Zhang L, et al. Visual Restoration after Cataract Surgery Promotes Functional and Structural Brain Recovery. EBioMedicine 2018. Doi: 10.1016/j.ebiom.2018.03.002.
6. Anya Topiwala et al. Moderate alcohol consumption as risk factor for adverse brain outcomes and cognitive decline: longitudinal cohort study. BMJ 2017;357:j2353).
7. Ehsan Shokri-Kojori et al. β-Amyloid accumulation in the human brain after one night of sleep deprivation. PNAS April 9, 2018.
8. Benedict C. et al. Effects of acute sleep loss on diurnal plasma dynamics of CNS health biomarkers in young men. Neurology, 2020. Jan 8.
9. Alycia N. Sullivan Bisson et al. Walk to a better night of sleep: testing the relationship between physical activity and sleep. Sleep Health, Volume 5, Issue 5, October 2019.
10. Dominy SS et al. Porphyromonas gingivalis in Alzheimer’s disease brains: evidence for disease causation and treatment with small-molecule inhibitors. Sci Adv, 2019 Jan 23.
11. Chang Y. et al. Improved oral hygiene care is associated with decreased risk of occurrence for atrial fibrillation and heart failure: A nationwide population-based cohort study. Eur J Prev Cardiol 2019 Dec 1.
12. Dekosky ST e Gandy S. in JAMA Neurol. 2014 Mar;71(3):273-5. Environmental exposures and the risk for Alzheimer disease: can we identify the smoking guns?
13. Emily Underwood. The polluted brain. Science 27 Jan 2017: Vol. 355, Issue 6323, pp. 342-345; 14. Hong Chen et al. Living near major roads and the incidence of dementia, Parkinson's disease, and multiple sclerosis: a population-based cohort study. The Lancet. 2017. Volume 389, No. 10070.
15. Weiran Yuchi et al. Road proximity, air pollution, noise, green space and neurologic disease incidence: a population-based cohort. study. Environmental Health 2020-01-21.
16. Esmée M. Bijnens et al. Residential green space and child intelligence and behavior across urban, suburban, and rural areas in Belgium: A longitudinal birth cohort study of twins. Plos Medicine, August 18, 2020.
17. Iaccarino L, La Joie R et al. Association Between Ambient Air Pollution and Amyloid Positron Emission Tomography Positivity in Older Adults With Cognitive Impairment. JAMA Neurol. 2020 Nov 30.
18. Gray SL et al. Benzodiazepine use and risk of incident dementia or cognitive decline: prospective population based study. BMJ 2016;352; i90.
19. Islam Md.M, et al. Benzodiazepine Use and Risk of Dementia in the Elderly Population: A Systematic Review and Meta-Analysis Neuroepidemiology. Neuroepidemiology 2016;47:181-191.
20. Saarelainen L et al. Risk of death associated with new benzodiazepine use among persons with Alzheimer disease: A matched cohort study. Int J Geriatr Psychiatry 2017.
21. Luc P. De Vreese. Gli effetti anticolinergici nella persona anziana: strumenti di misurazione del carico anticolinergico. Psicogeriatria 2019; 2: 50-66
22. Matteo Fabbri et al. Health Literacy and Outcomes Among Patients With Heart Failure: A Systematic Review and Meta-Analysis. JACC: Heart Failure. Volume 8, Issue 6, June 2020, Pages 451-460
23. Ferdinando Schiavo e Roberto Colle. I nuovi anziani… sani e attivi. Associazione Alzheimer Udine 2011.
- Autore/rice Laura Nave
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Tra i divieti e le privazioni più o meno facili da accettare di quest’anno e fonte di un forte dolore emotivo, c’è quello, straziante, di far visita ai propri cari ospiti delle Residenze Protette, l’accesso alle quali, per nove mesi, è stato completamente vietato o fortemente contingentato. Un provvedimento determinato naturalmente dalla necessità di prevenire la diffusione del virus, purtroppo inevitabile, ma non privo di “effetti collaterali“ e percepito come una violenza, seppur perpetrata in nome della sicurezza, sia dai ricoverati che dalle famiglie.
Certamente l’aspetto più eclatante del terribile impatto della pandemia sulle Case di riposo è stata l’elevata mortalità, che purtroppo si riscontra anche in questa seconda ondata, e che ha costretto i direttori sanitari a vietare l’accesso. Tuttavia non va sottovalutato il problema psicologico dell’isolamento delle persone più fragili e contemporaneamente più esposte ai rischi del contagio.
Gli anziani, soprattutto quelli cognitivamente più deboli, i malati di demenza, si sono sentiti abbandonati dalle famiglie, soli in questa delicata fase della loro vita, immersi in un clima di inquietudine, circondati solo da un personale reso irriconoscibile dai dispositivi di protezione e inevitabilmente più “distante” sia fisicamente, per il rispetto dei protocolli di sicurezza, sia emotivamente per non soccombere al senso di impotenza davanti all’immane compito di garantire una buona cura in condizioni così estreme.
I familiari da parte loro hanno avuto paura di perdere i propri affetti senza un vero commiato. In alcuni casi gli operatori hanno provveduto a rendere possibili dei contatti su tablet o attraverso WhatsApp, tuttavia questa modalità ha assolto allo scopo di rassicurare le famiglie sullo stato di salute dei propri cari, ma non ha potuto rappresentare un “ponte” in grado di superare la solitudine dei residenti, salvo rare eccezioni, poco consueti all’utilizzo della tecnologia e del digitale. Per i malati di demenza, in particolare, per i quali è già difficile mantenere la relazione in presenza, questi mezzi decisamente non rappresentano una valida alternativa.
Nella migliore delle ipotesi, quando durante l’estate c’è stata una riduzione della curva dei contagi, i familiari hanno potuto, previo appuntamento, fissato a volte anche a distanza di un mese, incontrare il proprio congiunto per un quarto d’ora, preferibilmente all’aperto o in un locale dedicato, naturalmente rimanendo a distanza, dietro un plexiglass di separazione, indossando i dispositivi di protezione e alla presenza di un operatore. Spesso queste visite “asettiche” hanno provocato più dolore che conforto, pochi sorrisi imbarazzati e tante lacrime.
Il paradosso che si è potuto osservare a bilancio di questo difficile periodo, è che le misure anti covid per tutelare la salute della popolazione anziana hanno avuto sulla stessa un effetto devastante. Hanno favorito su persone già fragili e in larga misura cognitivamente deboli, un ulteriore decadimento cognitivo, apatia, inappetenza, depressione, disturbi del sonno e ansia con il conseguente peggioramento anche delle patologie di tipo organico.
Si sa che “c’è un dolore che nasce nella carne e un dolore che viene dall’anima, ma raramente restano disgiunti” (Mortari) e quando il dolore dell’anima diventa insostenibile si manifesta nel corpo, rendendolo potenzialmente anche più esposto agli attacchi del virus.
Nell’approssimarsi di questo Natale anomalo in cui auguri e doni con gli amici, cenoni e tombole in famiglia si sono trasformate da consuetudini a trasgressioni, a reati perseguibili, un documento ministeriale approvato il 30 novembre scorso ha preso atto di questo problema e ha provato a porvi rimedio.
In sintesi il documento prevede che all’interno di residenze protette e RSA vengano riprese le attività occupazionali eventualmente sospese e che debbano essere assicurati non solo regolari collegamenti in modalità digitale con i propri familiari, ma anche la possibilità di “pieno accesso” dei parenti e dei volontari agli ospiti delle strutture. Si precisa peraltro che devono avvenire in piena sicurezza, che devono essere subordinati all’esito negativo di tamponi rapidi antigenici da effettuare a ogni accesso nella struttura e con la realizzazione, compatibilmente con le caratteristiche della struttura stessa, di locali idonei, ad esempio una “sala degli abbracci”. E, naturalmente, che devono venire sospese in presenza di focolai. Sinceramente poco cambia nella sostanza, se non che si è preso atto della difficoltà insita in un buon accudimento a trovare la “giusta misura”, della scelta etica tra proteggere dal punto di vista organico e sostenere dal punto di vista psicologico.
Per quanto rappresenti un documento importante, non affronta il problema alla radice. Ratifica qualcosa che gli psicologi sostengono da sempre, ovvero che mente, corpo e relazione sono aspetti imprescindibili, che ciascuno di essi è condizione essenziale del vivere; che l’uomo non ha solo dei bisogni primari, di nutrizione o di igiene personale, ma ha bisogno della relazione, uno strumento terapeutico centrale e potente, “come le piante hanno bisogno dell’acqua” (Vernooij). All’interno delle strutture assistenziali quindi all’anziano va garantito il mantenimento dei legami e dei rapporti in cui era inserito e le attività socio relazionali sono da considerare altrettanto necessarie di quelle sanitarie.
Il bisogno di carezze e sguardi accoglienti che possono comunicare la vicinanza dell’altro, di una parola che cura e può addolcire il vissuto di chi sente di perdere tutto ciò su cui fondava la propria identità, non è sentimentalismo, ma una necessità. Soprattutto dove il senso di sé è in crisi, dove il linguaggio della logica non è utilizzabile, è il contatto a rendere raggiungibili, a generare comprensione e fiducia. Si è sempre sensibili al tatto e alla relazione, agli abbracci che fanno sentire ancora degni di attenzione, che restituiscono un’immagine positiva di sé.
Lo ha compreso anche un writer che ha riportato su una parete del centro di Udine una frase che attribuisce ad Anais Nin : ”Tutto quello che ho da dirti posso dirtelo solo con le carezze”. Sia che si intenda che l’unica cosa che vale la pena dire, ovvero quanto l’altro è importante, si può comunicare solo attraverso il contatto, sia che le carezze sono l’unico modo di comunicare rimasto, suggerisce l’essenzialità di questo approccio.
Quello di cui il documento ministeriale non tiene conto è che forse non è possibile chiedere questo tipo di cura, in grado di garantire una buona qualità di vita e una “buona morte” all’attuale sistema assistenziale, che in questa situazione di emergenza non ha retto e sta dimostrando la propria inadeguatezza.
Già in tempi normali nelle Case di riposo e nelle RSA il tempo dedicato a ogni ospite è stabilito sulla base di una rigida tempistica organizzativa, al punto che i minuti di assistenza dedicati quotidianamente a ogni paziente sono il parametro abitualmente usato per qualificare il livello di assistenza assicurato da una RSA. Gli standard vanno da 90 a 150 minuti al giorno in media (e comprendono igiene personale nutrizione assistenza infermieristica ecc.). Anche nelle strutture migliori i grandi numeri dell’accoglienza e l’organizzazione stringente non consentono un incontro autentico con l’altro. Fanno inevitabilmente perdere personalizzazione, sensibilità e attenzione all’unicità della persona di cui si ha cura. Avviliti dall’impossibilità di sentirsi ascoltati, sentendosi inutili o “sbrigati” come una faccenda, i residenti finiscono spesso per attendere che si compia il loro destino in silenzio, o “silenziati” dai farmaci. Dal canto loro i familiari, dopo il ricovero, vengono privati della priorità del proprio ruolo, devono “farsi indietro” rispetto alla maggioranza delle decisioni che riguardano i propri cari che possono incontrare solo da “visitatori”, come estranei, con pesanti ricadute sul piano psicologico.
La pandemia da Covid ha ulteriormente, drammaticamente, aggravato la situazione.
Soprattutto in questa seconda ondata in Friuli la situazione delle Residenze protette è piuttosto allarmante, peggiorata rispetto al primo lockdown. In regione in 107 delle 170 case di riposo presenti si registrano focolai di contagio, probabilmente veicolato dagli operatori. Purtroppo le disposizioni della Regione e delle Aziende Sanitarie obbligano le strutture a continuare ad assistere i contagiati invece di ricoverarli. Allo stesso tempo molti degli operatori contagiati non vengono sostituiti, con un conseguente aggravio del carico di lavoro e delle condizioni di rischio per chi rimane in servizio e un peggioramento della qualità di assistenza ricevuta dagli ospiti.
In queste condizioni, in cui non è nemmeno possibile ottemperare alle disposizioni contenute nel documento ministeriale, come si può immaginare di garantire una buona cura all’anziano fragile, che gli restituisca dignità e fiducia in sé e in un mondo percepito come estraneo e avverso, che lo incoraggi e ne rinforzi le capacità adattative? Come è possibile dare ascolto e appoggio ai familiari e al complesso coacervo di emozioni che provano?
Forse sarebbe più opportuno immaginare per il futuro di investire in soluzioni assistenziali alternative, più flessibili e informali e proprio per questo più adatte a rispondere a esigenze di maggiore personalizzazione. Un’ alternativa ad esempio sono le realtà di cohousing per anziani, o per malati di demenza, da decenni presenti nei paesi del nord Europa e che vanno diffondendosi anche in Italia. Trattandosi di piccoli nuclei residenziali, che riproducono nei numeri le dimensioni di una famiglia, vengono percepiti come accoglienti e rassicuranti da i residenti, consentono al tempo stesso di garantire la massima personalizzazione, un certo grado di socializzazione e il giusto equilibrio tra protezione, sicurezza e rispetto per la libertà, l’identità e l’autonomia residua. In una realtà di questo tipo, soprattutto se autogestita, i familiari, supportati da adeguate figure professionali, possono assumere responsabilità decisionali simili a quelle dei direttori sanitari delle strutture: scegliere le linee guida per la comunità, proporre attività occupazionali calibrate sui reali interessi e capacità dei residenti, ma soprattutto essere presenti con quell’accudimento affettivo che non è possibile aspettarsi dal personale, neanche il più formato.
Un progetto di questo tipo, interamente privato e autogestito dalle famiglie coinvolte, il cohousing Demaison per persone malate di demenza, è attivo in Friuli dal 2013. Certamente non è possibile affermare che non si siano avuti disagi in conseguenza al covid, ma sono stati decisamente contenuti proprio per i piccoli numeri e grazie all’autogestione. Le famiglie, per la sicurezza dei residenti e delle assistenti familiari, hanno scelto di limitare le occasioni di rischio. Per questo, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, sono state temporaneamente sospese alcune delle attività previste (riprese appena possibile) e sono stati molto contenuti anche agli accessi dei familiari, che tuttavia si sono sempre verificati. Il disagio maggiore per i residenti è stata la minor naturalezza nei contatti e nelle presenze, il contatto fisico ridotto rispetto al solito; per le famiglie invece è stato organizzare il rientro dalle ferie estive delle assistenti familiari titolari, che sono partite quando non c’erano limitazioni alla circolazione fra i paesi europei e che al rientro erano invece tenute a un periodo di quarantena. Anche in Demaison quest’anno il pranzo di Natale, che generalmente riuniva la tutte le famiglie intorno a una tavolata imbandita con un menu multietnico, sarà meno gioioso del solito, come purtroppo avverrà per la maggior parte della popolazione, tuttavia complessivamente il cohousing Demaison ha dimostrato anche in queste circostanze drammatiche di avere dei punti di forza, perché è una modalità di assistenza equilibrata, in cui nessuno si sente solo e che consente di ottimizzare le risorse, flessibile e facilmente replicabile, a patto di essere disponibili a interazione e condivisione.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
“Vecchi sbagliati si diventa da bambini” è una frase che uso molto nelle mie conferenze sulla prevenzione verso una vecchiaia più sana e indipendente.
È ormai scientificamente assodato che molte delle più comuni malattie croniche degli occidentali hanno un legame con lo stile di vita e che certamente è il comportamento complessivo durante la propria esistenza ad influenzare con benefici o danni l’ultimo tratto del nostro cammino sulla terra. Sì, il cammino...
Osteoporosi, malattie degenerative muscolo-scheletriche (artrosi), diabete mellito, obesità, patologie cardio e neuro-vascolari, persino demenze, depressione, cancro e disordini immunitari vengono favoriti da un comportamento inattivo.
All’opposto, è dimostrato che esiste una stretta relazione fra attività fisica regolare, stimoli cognitivi, corretta alimentazione e miglioramento dello stato di salute, misurabile in termini di abilità funzionale motoria, cognitiva e di benessere psicologico.
Su The Lancet di luglio 2017 Gill Livingston ed altri 23 esperti internazionali avevano ufficialmente aggiunto due nuovi fattori di rischio modificabili per demenze: la sordità e l’isolamento si aggiungevano, quindi, al preesistente elenco noto dal 2011 che ne segnalava sette. Diabete mellito, ipertensione arteriosa e obesità in età adulta, fumo, depressione, bassa scolarità e sedentarietà adesso hanno altri due compagni di sventura! I nove fattori di rischio, se “modificati” prima possibile nel corso della vita, sono in grado di ridurne i casi di demenza, Alzheimer compreso, di oltre un terzo.
In due articoli su questo sito (qui e qui)mi sono soffermato prevalentemente sulla “nemica solitudine” : la solitudine “amara” (sopportata, non desiderata, subìta) è uno di questi fattori di rischio modificabili per demenze, ma tutti e nove (ed altri che “aggiungerò” e commenterò in successivi articoli) hanno un indubbio valore per la salute globale.
Cos’altro posso aggiungere e raccontare in questi tempi incerti che di allegro hanno solamente il colore sgargiante delle regioni (giallo, arancione, rosso…)?
1. Torno brevemente sull’isolamento. “Con la quarantena aumenta il rischio demenza per gli anziani”. Simona G. Di Santo e colleghi della Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma hanno appena pubblicato (The Effects of COVID-19 and Quarantine Measures on the Lifestyles and Mental Health of People Over 60 at Increased Risk of Dementia. Front. Psychiatry, 14 October 2020) una ricerca sugli effetti della quarantena: viene ridotta la possibilità di fare attività fisiche, sociali e cognitive; modifica la dieta e aumenta la quota di tempo trascorsa passivamente; limita la possibilità di fare attività fisiche, sociali e cognitive. Tutti comportamenti, dunque, che mettono a rischio la salute degli anziani a tal punto che coloro che presentano un quadro di Mild Cognitive Impairment (lieve deterioramento cognitivo) o un Declino Cognitivo Soggettivo vedono aumentare la possibilità di sviluppare forme di demenza.
2. Devo riaffermare in maniera chiara e perentoria che buona parte dei nove fattori di rischio sono applicabili alla salute generale e quindi alla fragilità che ad un certo stadio della vita fa capolino. Questi fattori di rischio sono in qualche modo interconnessi attraverso dinamiche anche semplici da comprendere: ad esempio, chi è depresso è spesso sedentario, mangia male, non “allena” il cervello con progetti, letture ed altro e non coltiva la speranza; chi è sedentario e mangia male ingrassa; chi ingrassa va verso la sindrome metabolica che comprende alterazioni dei grassi e degli zuccheri del sangue e ipertensione; questi danneggiano il cuore ed il resto del corpo; un cuore danneggiato crea problemi al cervello (è la nobile pompa di un nobile organo!) e così via.
“Quel che va bene per il cuore va bene per il cervello”. Affermazione esatta, con uno sguardo ampio esteso al resto del corpo, da mettere in pratica se si vuole invecchiare bene a dispetto di qualche politico (ma non solo!) che ci ritiene inutili in qualità di anziani. Uno studio condotto su 1.588 pazienti (Ruixue Song et al. Associations Between Cardiovascular Risk, Structural Brain Changes, and Cognitive Decline. Journal of the American College of Cardiology Vol 75, Issue 20, May 2020) ha misurato mediante la scala di rischio di Framingham il carico di rischio cardiovascolare, evidenziando che, se aumentato, risulta associato a segni neurodegenerativi e in grado di predire nel tempo il declino cognitivo. In assenza di trattamenti efficaci per la demenza, concludono gli autori, è necessario monitorare e controllare il carico di rischio cardiovascolare come metodo per mantenere la salute cognitiva del paziente con l’invecchiamento.
Una riflessione necessaria, lontana anni luce dall’attuale “medicina della fretta”: dovremmo saper lavorare sul campo come neurologi, ma anche come geriatri, cardiologi, psicologi, infermieri, OSS… insomma, avere un’idea olistica e uno sguardo ad ampio orizzonte della salute propria e degli altri.
3. Accanto all’invecchiamento progressivo mondiale, e italiano in particolare, esiste effettivamente un processo di “giovanilizzazione” che si trova però dall’altra parte della barricata umana molto spesso, in Italia, segnata dagli anni passati in cattive condizioni di salute (Anni di Vita Sana, i cosiddetti YLDs) in situazioni complesse di multimorbilità, soprattutto nelle donne.
Da tempo si dice “aggiungere vita agli anni” ovvero vivere a lungo, sì… ma in che condizioni?
4. Stiamo assistendo paurosamente nel contempo, purtroppo, ad un critico fenomeno emergente: alcune patologie tendono addirittura a presentarsi precocemente, giustificate dall’ipotesi che le generazioni più giovani abbiano stili di vita e di consumo nonché condizioni ambientali meno salubri, oltre che minori capacità di spesa per la cura e la prevenzione (Chang AY et al. Measuring population ageing: an analysis of the Global Burden of Disease Study 2017. Lancet Public Health. 2019 Mar 1;4(3):e159-67).
5. Aumenta l’obesità nel mondo, malgrado un miliardo circa di persone che soffre la fame. Un recente lavoro americano ha coinvolto oltre 17mila individui. È emerso che al crescere del peso si riducono flusso sanguigno e attività cerebrale, specie in aree critiche associate a memoria ed apprendimento come ippocampo e lobi parietali (Daniel G. Amen et al. Patterns of Regional Cerebral Blood Flow as a Function of Obesity in Adults. Journal of Alzheimer's Disease. August 5, 2020). Si, i chili di troppo pesano sull'attività del cervello.
Detto questo. seppure in estrema sintesi, cosa possiamo fare, facilmente e a basso costo per stare meglio e arrivare con successo alla terza e quarta età?
La mia diapositiva è vecchia di 10 anni esatti ma resta attualissima pur nella sua estrema sintesi!
Desidero soffermarmi brevemente – come si sente la mancanza di cinema, teatro, musei in questo autunno… - su un dato di notevole rilevanza, che in qualche modo si trova tra i 9 fattori di rischio modificabili per fragilità e demenze: la cultura, nelle sue varie forme.
L’impegno culturale protegge la salute con diversi meccanismi. Dice Daisy Fancourt: “L’arte dovrebbe essere prescrivibile dai medici. Ha un’influenza positiva sul sistema neuroendocrino riducendo il cortisolo, ormone dello stress; su quello immunitario; sui neurotrasmettitori del benessere”.
Ricordo con rammarico che abbiamo avuto – non sono passati molti anni - un ministro esperto in economia che a suo tempo non ne comprendeva la portata affermando che con arte e cultura non si mangia.
La cultura, tuttavia, sta diventando un fuori moda a scuola. Tutti promossi – anche prima del Covid – almeno in certe scuole dirette con un insano criterio manageriale: “se ci facciamo la fama di bocciatori, nessuno si iscriverà nel nostro istituto”!
E ancora: genitori irresponsabili che inveiscono contro insegnanti solidi e impegnati proteggendo figli pericolosamente proiettati verso un futuro professionale incerto, per usare un eufemismo. Lo scrivo confortato (dovrei scrivere sconfortato) dall’esperienza di amici insegnanti seri.
Fuori dalla scuola, poi, imperversa l’uso della “pancia”, dell’agire attraverso le emozioni del momento non filtrate dalla ragione e dalla conoscenza, piuttosto che un agire mediante la sana, lenta, paziente riflessione confortata da qualche lettura o dall’ascolto di chi ne sa di più.
Scolarità. Certamente, quando chiediamo ai nostri pazienti quanti anni di scuola hanno alle spalle per “conteggiare” il profilo di un esame cognitivo, dovremmo tenere nel debito conto che una persona che ha frequentato solo le elementari potrebbe aver condotto una vita ricca di interessi culturali, di prorompente curiosità. Magari diversamente da certi “studiati” che non hanno più aperto un libro o un giornale serio dopo il diploma o la laurea…
Ammainata per il momento la bandiera culturale e rimandati ad un prossimo articolo gli altri fattori di rischio modificabili emergenti, dedico il resto dell’articolo alla sedentarietà (in aumento nel mondo occidentale) e alla apparentemente strana “chimica” che collega l’attività motoria ricreativa al benessere cerebrale.
Il movimento a scopo ricreativo e gli aspetti positivi psicologici che spesso lo accompagnano, come l’impegno, la riflessione, la soddisfazione e l’allegria, producono (sinteticamente) una riduzione della glicemia e del colesterolo “cattivo” (due importanti fattori di rischio vascolare ed anche degenerativo cerebrale), del peso corporeo (a cui consegue facilmente un miglioramento della qualità del sonno, la riduzione del russamento e\o delle apnee nel sonno), dei problemi articolari a piedi e ginocchia e globalmente della personale funzionalità e autonomia motoria. Insomma: della qualità di vita.
L’attività motoria ricreativa induce “chimicamente” un aumento della serotonina (mediatore chimico cerebrale dell’umore e del benessere. Ovvero: ha una valida e comprovata azione antidepressiva, gratuita!), di un fattore di crescita neuronale, il BDNF, e dell’Insulin-like Factor (IGF-1).
Il BDNF, in laboratorio, potenzia la capacità di sopravvivenza dei neuroni, promuove la neurogenesi (la scoperta di neuroni “staminali” del nostro cervello avvenuta circa venti anni fa ha accantonato la Teoria delle 4 N: Non Nascono Nuovi Neuroni) e la crescita dei prolungamenti e delle connessioni, le sinapsi neuronali. Nell’animale l’infusione del BDNF protegge la corteccia dai danni prodotti da una ischemia cerebrale. Anche un ambiente ricco di stimoli induce un aumento di BDNF, ulteriore conferma che una vita culturalmente attiva rappresenta un fattore protettivo.
L’Insulin-like Factor (IGF-1) agisce sul metabolismo del glucosio e con un meccanismo complesso sui neuroni (la malattia di Alzheimer viene chiamata da alcuni ricercatori il “terzo tipo di diabete”). Gli effetti dell’attività motoria ricreativa fatta in modo continuativo sarebbero particolarmente evidenti a carico dell’ippocampo, una regione cerebrale che riveste un ruolo centrale nei processi di apprendimento e memoria, e che appare essere particolarmente colpita in corso della malattia di Alzheimer.
Non è finita: telomeri e telomerasi. La telomerasi, detta “l’enzima dell’immortalità”, impedisce che le estremità dei cromosomi, i telomeri, si accorcino con le divisioni e il passare degli anni. Gli studi su telomeri e telomerasi, cominciati all’inizio degli anni ’80, hanno valso il premio Nobel nel 2009 alle due ricercatrici americane Elizabeth Blackburn e Carol Greider e all’inglese Jack Szstak.
Esistono a tal proposito delle evidenze scientifiche a favore dell’utilità dell’esercizio fisico ricreativo: in un campione di sedentari sani e non fumatori i telomeri sono risultate più corti (di circa 200 nucleotidi) rispetto a quelli di un campione di sportivi professionisti, le cui cellule sono, quindi, più giovani di circa 10 anni.
Solamente due dei tantissimi lavori scientifici pubblicati su riviste autorevoli, di certo non sponsorizzati dalle lobby delle scarpe!
L’esercizio fisico allunga la vita, a qualunque età: 14.599 soggetti tra 40-80 anni sono stati seguiti per 8 anni. Il passaggio da una vita sedentaria ad un’attività fisica moderata per almeno 150 minuti a settimana appare associato a una riduzione del rischio di morte per malattie cardiovascolare del 29%, per qualunque causa del 24%, per cancro dell’11% (Mok A. et al. Physical activity trajectories and mortality: population based cohort study. BMJ 2019 Jun 26;365:l2323).
È emerso persino questo aspetto che trovo sublime: quando si cammina in compagnia la sincronizzazione dei passi diventa una forma di comunicazione non verbale. Per condurre lo studio i ricercatori hanno accoppiato uomini e donne – che indossavano registratori vocali e sensori di movimento - facendole camminare lungo un percorso tranquillo e privo di barriere. Una camminata silenziosa all’andata e conversando al ritorno; una camminata sempre silenziosa e, infine, stare seduti, in silenzio, compilando un questionario per valutare le impressioni sui partner prima e dopo ogni camminata. Le coppie che si erano dichiarate in sintonia hanno registrato una maggiore sincronizzazione nella camminata, soprattutto le coppie femminili rispetto a quelle maschili e i partecipanti più anziani (Miao Cheng et al. Walking together: personal traits and first impressions affects step synchronization. Plos One. February 21, 2020).
Come elaborare un programma motorio? L’attività motoria con gli adulti e con gli anziani non va intesa come intervento riabilitativo offerto a persone colpite da eventi invalidanti (fratture, ictus cerebrale, ecc.), né come attività agonistica destinata a sportivi che per tutta la vita hanno coltivato l’abitudine all’esercizio fisico, ma ha valore di proposta motoria di “mantenimento” finalizzata ad attivare (o riattivare) capacità motorie mortificate da decenni di vita sedentaria al fine di ottenere, compatibilmente con altri fattori sociali e sanitari, un auspicabile “invecchiamento di successo”.
A seconda dell’età, delle abitudini e dello stato di salute appare consigliabile ed opportuno procedere ad una valutazione medica preventiva generale o eventualmente specialistica, a cui far seguire un programma finalizzato e adattato all’individuo secondo requisiti di efficacia e tollerabilità, che tenga conto di alcuni rischi in particolare a carico dell’apparato muscolo-scheletrico e cardiovascolare.
È necessario rapportare l’intensità e il ritmo dell’esercizio fisico alle capacità funzionali, valorizzando anche gli aspetti relazionali, rilassanti e divertenti (ridere fa bene…). Standard internazionali consigliano almeno 150 minuti di camminata a medio-alta intensità alla settimana, ad esempio 30 minuti per 5 volte la settimana, mentre altri propongono 45 minuti per almeno tre volte la settimana. Riuscire ad organizzare gruppi di cammino rappresenta una soluzione ottimale.
Non è mai troppo tardi per cominciare, basta iniziare dicendo no all’ascensore e ai preconcetti legati al “meritato” riposo da pensionamento! Non c’è spazio per le scuse: “non ho tempo, sono stanco, non ho voglia; non sono capace; mi faccio male; non ho soldi; chi pensa alla spesa e a cucinare?”
D’altra parte, al consiglio per la salute da parte del medico “Deve passeggiare almeno mezz’ora al giorno e vedrà che starà meglio” l’anziano potrebbe rispondere, a dire il vero, con un giustificato “Passeggiare con chi, dove e come?” che deve farci riflettere.
Per superare gli ostacoli iniziali a volte serve qualcuno (lo chiamo l’angelo salvatore), un amico, un conoscente, un volontario che ci stimoli o ci metta a contatto con realtà di progetti organizzati di prevenzione e promozione della salute, che sono sempre più numerosi.
I programmi di promozione della salute dovrebbero prevedere il cammino come esercizio fondamentale con l’obiettivo di conservare l’autonomia e l’efficienza il più a lungo possibile… e di evitare almeno qualche farmaco.
L’attività fisica ricreativa in generale possiede un ruolo centrale nell’ambito della gestione del tempo libero degli anziani, e questo sostanzialmente per due motivi. Il primo è dovuto ai benefici che comporta un ottimale stato di efficienza fisica (il mese scorso ho dedicato un articolo ai piedi – e non solo - degli anziani: il secondo è determinato dalla possibilità che offre l’utilizzare il “tempo in movimento”: un atteggiamento positivo verso la vita, l’incontro con altre persone con cui condividere un interesse e la possibilità di intrecciare e consolidare relazioni sociali positive, tutti fattori protettivi.
Camminare in compagnia, fa bene, ne ho accennato prima.
Un consiglio: se siete da soli portatevi un pezzo di carta e una penna perché vi verranno certamente delle idee, a volte delle vere illuminazioni. La camminata è creativa! Nietzsche, nel Crepuscolo degli dei, asseriva convinto che “solo i pensieri che hanno camminato hanno valore”. Ernest Hemingway in Festa mobile scriveva “passeggiavo lungo i quais quando avevo finito di lavorare o quando cercavo di farmi venire qualche idea”. Camminando si medita più agevolmente e si può decidere con appropriatezza: solvitur ambulando, si risolve camminando, affermava Diogene nel IV secolo a.c.
Manipolo Dante allo scopo di regalarvi un sorriso: “Fatti non foste a viver da seduti!”.
E infine Pietro Citati (da la Repubblica di qualche anno fa) ci insegna che si può ancora passeggiare in un mondo che ha smesso di camminare: “Nella mia vita ho passeggiato molto. Per almeno quarant’anni ogni giorno alle 14 uscivo di casa… La passeggiata pomeridiana…aveva, per me, un’importanza capitale. Mi riposava, mi irrobustiva, mi dava calma e quiete. Soprattutto cancellava tutti i pensieri della mattina: la mia mente diventava vuota, si compiaceva di essere vuota; e cominciavano a nascere altri pensieri, che lentamente si formavano, costruivano un’architettura nella quale sarei vissuto il pomeriggio e la sera. La giornata diventava nuova, la mente agile, e il sonno si preparava e si annunciava da lontano. Non ero solo...c’erano i nonni, una stirpe a cui allora non appartenevo ma che mi ha sempre affascinato. Ora, tutto è cambiato. Quasi nessuno passeggia più. E i nonni, i pensionati, gli sfaccendati dove sono andati a finire? Cosa fanno? Vivono prigionieri dei loro tristi pensieri o delle mura delle proprie case. Vorrei che si ricordassero o (se non hanno ricordi) imparassero. Niente è più bello che passeggiare contemplando gli alberi o guardando lievemente, senza preoccupazioni, dentro se stessi…”.
Di quanti intellettuali di rango abbiamo bisogno in questo scenario dominato dall’aumento delle parabole sui tetti e delle porte blindate?
Camminare è indubbiamente l’attività fisica ideale in quanto non richiede attrezzature o abbigliamento particolari, può essere praticata da (quasi) tutti, si svolge all’aperto – e spesso col beneficio delle radiazioni solari sulle ossa e sull’umore, oppure respirando gli odori del bosco, condizioni climatiche permettendo, non fa perdere tempo nei preparativi, non sovraccarica la colonna vertebrale e le articolazioni degli arti inferiori (se il peso corporeo non è eccessivo…).
Su questo argomento interverrà prossimamente in questo sito Chiara Baradello, biologa, nutrizionista e guida ambientale che in modo originale abbina le sue competenze, ovvero i consigli dietetici, associandoli all’attività motoria, culturale e naturalistica. Illustrerà cosa-quanto mangiare completando il quadro del come-quanto-dove muoversi fisicamente, per stare meglio da subito e per rinviare la fragilità del futuro.
Il nordic walking permette di estendere l’esercizio al resto del corpo, in particolare agli arti superiori, peraltro con movimenti alternati e opposti di braccia e gambe che migliorano la coordinazione stimolando nel contempo i centri cerebrali frontali; nel contempo l’uso dei bastoncini alleggerisce il carico del peso, magari superiore alla norma, sulle ginocchia e le altre articolazioni sensibili.
Chi abita in qualche zona di transito, un “non luogo” (succede se si vive in certe periferie piuttosto desolate), attraverso il movimento può essere piacevolmente condotto in un più affascinante altrove.
Renzo Piano prova a immaginare un mondo dove non c’è differenza tra urbano e rurale, centro e periferia. Esiste, dice lui: “basta progettarlo. Ed è da qui che possiamo ripartire. Perché vivere distanziati è vivere di meno: ho passato una vita a costruire luoghi pubblici, scuole, biblioteche, musei, teatri. E poi strade, piazze e ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori, le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi dove ci si confonde gli uni con gli altri, e dove si celebra il rito dell’incontro: questi luoghi sono tutti chiusi oggi, a causa del Covid, ma non ci dobbiamo arrendere (Robinson di la Repubblica del 21 novembre 2020)”.
L’attività fisica è, in conclusione, uno strumento efficace per contrastare i fattori di rischio delle malattie cardiovascolari e dismetaboliche (diabete in primis) ed alle loro conseguenze a livello cerebrale. Agisce anche nel ritardare il possibile declino cognitivo nel soggetto sano e nei soggetti con demenza in fase iniziale, migliora persino il comportamento (in senso lato) delle persone con demenza in stadio avanzato. Combatte la depressione ed accresce la motivazione a prendersi cura di sé per occuparsi del proprio benessere.
L’esercizio va considerato alla stregua di un farmaco che, opportunamente somministrato, previene le malattie croniche da inattività e ne impedisce lo sviluppo, garantendo considerevoli vantaggi sia alle singole persone, sia al Sistema Sanitario Nazionale riducendo ospedalizzazioni e uso di medicinali.
Arrivo alla fine del mio scritto con una battuta del formidabile W. Allen: “Prima di salutarvi vorrei inviarvi un messaggio positivo, ma non ne ho… Vanno bene due negativi?”
Io vi propongo un pari: un tremendo proverbio ebraico utile però a convincere qualcuno a cambiare registro alla propria vita (“Chi non trova tempo per l’attività fisica troverà tempo per le malattie”) e una conclusione allegra, un invito a ballare, un’aurora di spensieratezza!
Movimento, ritmo, gioia, compagnia…