L’arte deve scuotere e non sempre consolare!
Arte, sentimento e lealtà del racconto a volte superano la realtà, coinvolgono emozioni e sentimenti e servono a contrastare falsi miti, luoghi comuni, errori e disinformazione, a far mutare opinioni e atteggiamenti. A insegnare.
Uno dei compiti per chi si occupa di malattie devastanti come le demenze consiste nel fornire ai pazienti, ai loro familiari, agli operatori sociali e sanitari ed ai comuni cittadini che desiderano accrescere le loro conoscenze, informazioni corrette e utili a far fronte a notizie superficiali che spesso vengono propinate dai mezzi di informazione oppure si propagano e circolano tra la gente nei meandri dei luoghi comuni.
Una malattia osservata attraverso un film o un libro, peraltro, permette di allargare lo sguardo del medico – e se ne sente tanto il bisogno! – agli aspetti di carattere sociale, familiare e relazionale, all’impatto organizzativo e (perché no?) anche a quello finanziario della persona e della famiglia che si affidano alle nostre cure.
Alcuni film, prodotti a partire del 1989, vedi il finale di A spasso con Daisy, passando per alcune pellicole totalmente dedicate al tema come Iris, Il figlio della sposa, Lontano da lei, La famiglia Savage, Una sconfinata giovinezza ed arrivando al più recente Still Alice e al cortometraggio di Marco Toscani Ti ho incontrata domani, sono in grado di contribuire al compito di far comprendere i molteplici aspetti, ordinari o inconsueti, di queste malattie attraverso la sensibilità dell’arte.
La visione di ogni film oppure di alcuni episodi, per il loro valore didattico in toto o per l’intensità e la significatività di alcune scene e dialoghi, può essere motivo di emozione ma anche di commenti, riflessioni e voglia di approfondimento.La Demenza imperfetta è stata la traccia di uno dei “nostri” Spettacoli Didattici che con Marco Toscani e gli attori Chiara Turrini, Mario Peretti e Lara Rigotti (in qualche caso anche con la preziosa presenza di Michele Farina) stiamo portando in giro con l’intento di comunicare emozioni ed arricchire la conoscenza necessaria a una lotta seppure impari contro lo scenario incalzante dell’aumento del fenomeno demenze.
Il cinema ci offre, dunque, lo spunto per discutere della variabilità dei sintomi delle demenze e indica dei punti critici su cui è necessario dibattere perché i luoghi comuni, a forza di ripeterli, qualche volta riescono a diventare opinione diffusa e poi certezza che non si discute, ma che va combattuta e smantellata, e al più presto.
La struttura clinica delle demenze è caratterizzata, infatti, da una tale variabilità nell’esordio e nell’evoluzione che deve stimolarci a superare quella distorta visione unitaria che vede(va) in passato la demenza di Alzheimer destinata a riassumere tutto lo scenario delle altre demenze.
Le demenze non sono tutte alzheimeriane e “le altre demenze” posseggono tratti assolutamente diversi rispetto a questa malattia. La stessa demenza di Alzheimer, peraltro, può esordire in maniera differente da come ci viene ripetuto sistematicamente da decenni.
“Faccio fatica a stirare” dice la mamma di Michele Farina, giornalista del Corriere della sera, nel suo libro Quando andiamo a casa? già all’inizio del suo avvincente, reale, tenero e commovente viaggio attraverso la demenza di Alzheimer e le altre demenze. La malattia della signora, sessantaquattrenne, era esordita con un progressivo deficit delle abilità visuo-percettive e visuo-spaziali, parole complicate per i non addetti ma che posso semplicemente tradurre in: “l’occhio vede ma il cervello non è in grado di capire spazio e figure che ha attorno”.
Questa storia vera ci ricorda che almeno il 10 % (e forse più) delle demenze dovute alla sola malattia di Alzheimer (che rappresenta circa il 60% di tutte le demenze) può esordire in modo diverso dai “soliti problemi di memoria”: oltre che con i difetti “visivi” della storia precedente, può iniziare con un coinvolgimento del comportamento, in senso ampio, come apatia, depressione, cambiamenti di personalità, difficoltà di critica, psicosi, oppure con una modifica in peggio delle modalità “organizzative” o del linguaggio o delle semplici conoscenze (alterazione semantiche).
Per completare questa panoramica che costringe ad una utile riflessione sulla necessità di sapere cogliere le prime avvisaglie di un disturbo cognitivo o comportamentale che preluda ad una demenza, può essere sufficiente ricordare che circa il 40 % delle demenze non è di natura alzheimeriana e che pertanto i primi sintomi si mostrano ben diversi rispetto alle vecchie conoscenze “amnesiche” da abbattere: la demenza vascolare non debutta con preponderanti alterazioni della memoria e così la demenza a corpi di Lewy o la malattia di Parkinson che evolve in demenza e le demenze fronto-temporali.
Tutte queste variabili, non sempre ben conosciute, provocano serie difficoltà per una diagnosi tempestiva. Ciò accade a volte per la mancata collaborazione da parte dei familiari (vedi il tentativo iniziale di diagnosi da parte del medico, ma contrastato da J. Bailey, marito di Iris, nel libro e film omonimo) e persino dei medici. A complicare il già pesante inizio e poi il decorso di ogni tipo di demenza concorrono, infatti, anche le diversità di vedute dei sanitari nelle vari ruoli professionali, compresi i medici delle commissioni per il riconoscimento delle invalidità e di altre tutele amministrative. Basterebbe leggere,msempre nel suo Quando andiamo a casa? l’indignazione di Michele Farina nei confronti del neurologo dell’INPS, «un feroce avversario di bassa lega», che chiede alla sua mamma: «Signora, lei se la fa addosso?».
Ma prima ancora di questi luoghi comuni da sfatare (e dei comportamenti offensivi della dignità che ne possono derivare) ne esiste uno, il principe dei luoghi comuni, che imperversa tra la gente comune e persino tra i professionisti della salute: è l’ageismo, il “tanto è vecchio”, un concetto, uno stato d’animo ammantato di nichilismo e fatalismo. In fondo è un “razzismo dell’età”. L’ageismo giustifica a suo modo qualsiasi forma di omissione di una diagnosi e possibilmente di una cura, e se una cura non c’è, del prendersi cura.
Altre erronee convinzioni? Il mini-mental (MMSE), il test cognitivo breve più usato nel mondo per la diagnosi può essere “negativo” o con punteggi alti che vengono ritenuti ancora normali anche in persone con manifestazioni reali di coinvolgimento cognitivo o comportamentale a volte persino serie. Succede perché il test è inadatto a valutare determinate funzioni cognitive; perché alcuni punti persi sono molto più “pesanti” di altri e vanno interpretati e non solo aridamente conteggiati; perché la sintomatologia cognitiva è fluttuante e quel giorno (o in quell’ora) la persona malata è in fase “positiva”!
Si può essere clinicamente dementi, ad esempio, sbagliando clamorosamente una delle ultime prove, quella della copia dei due pentagoni: se poi l’errore consiste nel disegnare all’interno del modello prospettando un accostamento al modello o il fenomeno del closing in, indica una mancanza di “elaborazione e programmazione nello spazio” ed altro ancora, anomalie che tradotte nel mondo reale, ovvero a casa della persona con demenza, si traducono nella incapacità di eseguire correttamente dei lavori in casa o di capire il mondo che sta attorno. Quel punto non vale uno come un qualsiasi errore nella data di quel giorno o sul piano in cui ci si trova, ma “vale almeno 15 punti” in meno!
Sono venuto a conoscenza di mini-mental mai o solo parzialmente eseguiti ma con una refertazione con tanto di punteggio e ovviamente senza che sia allegato! Un falso in atto pubblico…
No, questo disegno non glielo ha fatto fare, e neanche quella prova di lettura (Chiuda gli occhi) né quella del foglio di carta…
Il peso dei (falsi) miti e dei luoghi comuni e dei conseguenti errori non si ferma qui: nel campo delle terapie le variabili sono infinite. Si va dalla continuazione della terapia con inibitori delle colinesterasi anche a chi non è responder, alla quasi obbligatoria somministrazione di psicofarmaci, in genere antipsicotici, anche per manifestazioni comportamentali che andrebbero trattate preferibilmente o esclusivamente con strategie non farmacologiche, agli eventi avversi da psicofarmaci che spesso ne conseguono (e in questo ruolo sono compresi i “magici” antipsicotici atipici) che vengono scambiati per “normale” evoluzione della malattia (“tanto è vecchio”).
In una minoranza di persone che vengono ritenute affette da malattia di Parkinson accade che venga prescritta una terapia con dopaminergici di vario tipo e che questa sia persino aumentata di dose pur in assenza di una risposta terapeutica benefica sul movimento, e magari con forti effetti collaterali: incubi, tremende allucinazioni, deliri, ipotensione ortostatica, sonnolenza.
Perché non riflettere sulla possibilità che si tratti di un parkinsonismo, come è ad esempio la demenza a corpi di Lewy, e non di “vera” malattia di Parkinson? Perché non arrendersi all’idea che non possiamo curare con farmaci il problema motorio se la persona malata deve pagare tale (inutile) prezzo? La medicina della fretta non consente di impiegare dieci minuti a spiegare al paziente e ai familiari, con calma, empatia e qualche accenno di speranza, che la scienza è sconfitta e non esiste un trattamento “se non si guadagna nel movimento e si perde inoltre in altri ambiti"?
Anche se sta aumentando significativamente il livello di conoscenze sulle demenze da parte dei medici e degli altri operatori sanitari, restano ancora sacche di impreparazione, di scarso interesse, di ridotto impegno. Lo scrive Marco Trabucchi nelle news della Fondazione Leonardo nel febbraio di questo anno.
In qualche modo ricalca quanto stilato da Alessandro Padovani più di 10 anni fa (e proprio in: Marco Trabucchi Le Demenze. Pag. 663-680. UTET. 4° edizione. 2005), che commenta così il ruolo delle Unità di Valutazione Alzheimer (UVA) nell’ambito del Progetto Cronos: … il processo di costituzione delle UVA avvenne in modo improvviso e nei fatti un po’ frettoloso affidando deleghe e responsabilità a personale medico assai disparato e con livelli di preparazione e di esperienza in alcuni casi assolutamente eccezionali e in altri assolutamente insufficienti… furono coinvolti numerosi specialisti non sempre adeguatamente preparati ad affrontare la complessa gestione di pazienti con demenza, determinando una profonda disomogeneità di interesse, di partecipazione, di competenze, di mezzi e qualità tra le varie UVA all’interno della stessa regione, se non della stessa provincia…
Il Rapporto mondiale presentato nel settembre 2016 alla vigilia della XIII Giornata Mondiale dell'Alzheimer va incontro al nostro impegno ultradecennale di lotta ai luoghi comuni elencando i punti critici: i ritardi nella diagnosi, la necessità oramai non rinviabile del coinvolgimento dei medici di medicina generale e infine l’esigenza di intercettare tempestivamente i primi sintomi, tra i quali quelli cognitivi e comportamentali in buona parte citati prima.
E’ il riconoscimento che la strada che molti di noi che ci occupiamo di demenze e di fragilità stiamo percorrendo da tempo è quella giusta.
(Tratto da Cinema e demenze, l’arte e la cura, intervento personale all’evento ECM organizzato il 24 settembre 2916 a Udine dalla Demaison ONLUS dal titolo Demenze: un approccio esperenziale alle tecniche di cura).
L’argomento verrà riproposto dall’autore al FORUM NA di Bologna al workshop G9 Nel territorio delle demenze tra arte, miti, luoghi comuni ed errori il 16 novembre alle 11,30 attraverso la proiezione del cortometraggio Ti ho incontrata domani di Marco Toscani.