Prendo spunto da una lettera di Repubblica dell’8 aprile scorso in cui la signora Franca Guidoni denunciava lo scarso senso di responsabilità (“la colpa è sempre degli altri”) a proposito di un episodio descritto in una precedente lettera da un’altra lettrice. Costei si era lamentata poiché si era venuta a trovare (per una sua mancanza: un ritardo nel versamento della quota universitaria delle figlia) nella condizione di dover pagare 50 euro in più. In realtà bastava stare alle regole, pensarci prima ed evitare così di incolpare altri!
Questo episodio marginale mi ha fatto ricordare un fatto accaduto pochi giorni fa per alcuni aspetti simile ad altri che ho dovuto gestire in passato: la figlia di un signore anziano con un quadro severo di demenza non condivideva le difficoltà che le stavo prospettando nel trattare la “sindrome del tramonto” del padre.
- Ma non basta dargli un sedativo?
- No signora, provi a leggere con calma le due semplici facciate che ho preparato per voi, i familiari dei pazienti, e che ho allegato alla relazione della visita di oggi. Ci sono tutte le spiegazioni che le sto ripetendo da diversi minuti, ovvero: quando si parla di sedazione di pazienti anziani se sono confusi ed agitati, 1+1 non sempre fa 2. O per chiarirle meglio… che paziente agitato + sedativo = paziente calmo… non sempre corrisponde alla realtà! Può calmarsi, a volte, ma in tanti altri casi va incontro a effetti paradossi (si agita di più!) o effetti collaterali (è molto sedato, cade, peggiora a livello cognitivo, per cui non riconosce magari la casa o voi familiari…) o eventi avversi vari (diventa lento e rigido, cade…).
Quando e se si agiterà, bisognerà valutare come prima mossa a casa (perché oggi è qui ed è calmo e collaborante nell’altra stanza) se papà è disidratato, ha la febbre, non evacua da molti giorni, se ha qualche dolore ma non riesce a comunicarvelo come faremmo noi sani, così come non è in grado di comunicarvi un suo disagio, un desiderio, una semplice informazione che vorrebbe darvi.
Poi bisogna vedere se si calma ascoltandolo, standogli accanto e accarezzandolo, parlandogli piano e con calore. Su queste due facciate troverà descritti altri esempi con rigorosa semplicità.
Solo dopo avere compiuto questo primo passo, se nessuna strategia senza farmaci riuscirà a calmarlo, da disperati, proveremo con gli psicofarmaci e con uno psicofarmaco alla volta secondo lo schema che le ho scritto, valutando il bilancio tra benefici ed effetti negativi.
- Ma io non ho tempo di leggere!
Traduzione: non sono abituata a leggere; non ho i mezzi per capire (analfabetismo di ritorno?); non ne ho voglia e lei mi deve trovare la soluzione e presto: non la sto pagando?
Non so se ho trovato la soluzione farmacologica al primo tentativo e dubito quindi che la signora tornerà a far rivedere da me il padre: chissà come andrà a finire, magari nelle mani di colleghi amanti delle scorciatoie i quali credono che aumentando le dosi di uno psicofarmaco che inizialmente non ha dato miglioramenti o, peggio, ha creato altri problemi, prima o poi il poveretto si calmerà (magari definitivamente…).
Questo esempio reale di inconsapevole violenza, in qualche modo di abuso, mi costringe a parlare di responsabilità nello scenario attuale dominato dall’invecchiamento della popolazione, dalle malattie correlate e da un clima di ageismo e di involontario (?) sopruso verso i più vulnerabili.
“Nessuno vuole più rispondere di nulla, ma chi scarica sugli altri ogni fardello, nei fatti si dichiara sostituibile e superfluo” scrive Donatella Di Cesare nel Corriere della sera del 5 aprile 2015. Riflessione incisiva! Vale per tutti e in ogni ruolo, dal semplice cittadino, al paziente, al familiare, al professionista sociale e della salute “non medico” (preziosi!) e infine al medico, non sempre adeguato a gestire la complessità generata dalle tante patologie che affliggono una persona anziana per affrontare le quali è necessario una specifica competenza professionale che utilizza, tra l’altro, flessibilità e continuità nell’assistenza ed una visione “completa” e peculiare di quella persona.
Ma che medico si trova davanti una persona anziana, rispetto ai suoi ricordi di bambino-paziente? Molto spesso non un medico che viene a casa, se proprio non è necessario, diversamente da un tempo; quindi, medico e paziente non si trovano insieme in un posto familiare a quest’ultimo, bensì in un posto “estraneo” al paziente: in ambulatorio, in poliambulatorio, in ospedale, in RSA.
C’è da aggiungere altro sulla attuale relazione medico-paziente: i pazienti, sembra un paradosso, da quando hanno iniziato ad essere «curati meglio», avvertono la sensazione di essere «curati meno». La vecchia relazione medico-paziente di ottanta anni fa non esiste più e va di sicuro stimolata nei rapporti comunicativi (devo sapere come informarti e comunicartelo in modo corretto…) ed empatici (capisco cosa provi…), oltre che essere professionalmente valida.
La suddivisione in aree specialistiche, peraltro, è diventata il simbolo della frammentazione del sapere e persino dello stesso corpo del paziente: questa frammentazione delle competenze implica sia una diminuzione delle responsabilità che finiscono per dissolversi all'interno del gruppo di medici ogni volta coinvolto, e proprio per la difficoltà di indicare a chi spetti l'onere di tirare le fila degli accertamenti eseguiti da vari specialisti e delle cure. Esiste chi si nasconde, chi delega uno degli altri professionisti, chi non è assolutamente in grado di gestire la complessità. Ecco uno dei punti in cui manca a volte la responsabilità, il sentimento di responsabilità.
Non è finita. Il corpo del paziente spesso viene poco “toccato” dal medico essendo diventata, invece, prioritaria la prescrizione di esami che esplorano gli organi. Esami qualche volte inutili, costosi o addirittura inappropriati. Usati spesso per “difendersi” (Medicina difensiva). Ascoltare e “toccare” una persona che ne avrebbe la necessità è anche un atto terapeutico il cui valore va oltre il pur valido effetto placebo!
Chi è tentato di restare chiuso nella torre d'avorio delle conoscenze deve invece imparare ad uscire, per cogliere “l'odore delle pecore”… Un medico che non percepisce “l'odore” delle persone che a lui si affidano resta un estraneo, la cui efficacia terapeutica è limitata… Sono parole di Papa Francesco dello scorso anno…
Una imperfetta relazione medico\paziente comporta, tra l’altro, una mancata adesione ad un trattamento terapeutico e a uno stile di vita adeguato, ovvero conseguenze dannose al paziente stesso e spreco di risorse. Risorse che si sperperano anche rincorrendo i miracoli che i ciarlatani promettono perché loro, paradossalmente, sono in grado di “parlare” ai bisogni dei più disperati in cerca del miracolo.
E allora proviamo a costruire una rivoluzione basata sulla responsabilità! Cominciando a pensare di cambiare questa relazione, proponendo che da un rapporto impari con un paziente che «non si occupava della malattia» (decida Lei, dottore!) ad un paziente, ad un cittadino emancipato, consapevole e responsabilizzato.
Un editoriale del BMJ del 2013, dal titolo “Let the patient revolution begin”(Richards et al.), afferma che l’unica possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra medici e pazienti, perché questi ultimi, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli.
Il tema del coinvolgimento dei cittadini e dei pazienti nell’ambito della salute è stato posto numerose volte anche in passato ma mai affrontato in maniera risolutiva dai tecnici e dagli amministratori.
In verità questa rivoluzione aveva preso le mosse da un seminario di 5 cinque giorni tenutosi nel 1998 a Salzburg (Austria) dal titolo Through the Patient’s Eyes con 64 partecipanti provenienti da 29 paesi (dagli USA alla Cina, dal Sudafrica alla Romania) e espressione di mondi diversissimi: operatori sanitari, giornalisti, attivisti di diritti umani, accademici, insegnanti, gruppi di auto-aiuto, filantropi, artisti, esperti di diritto, persino autori di romanzi. Nel 2001 era uscito un documento che riassumeva le posizioni emerse da quello storico incontro, una filosofia disegnata con le poche ma sferzanti parole del titolo Healthcare in a land called PeoplePower: nothing about me without me. Nella mitica terra chiamata PeoplePower, l’assistenza è interamente condivisa con i pazienti perché “niente che mi riguarda può essere fatto senza di me” (Delbanco T. et al. Health Expect 2001).
Un coinvolgimento reale dei cittadini\pazienti nell’ambito della ricerca può consentirgli di:
*decidere su investimenti e disinvestimenti
*partecipare ai comitati etici
*dare indirizzi identificando le priorità
*fornire suggerimenti nell’assistenza
*… e non solo essere utilizzati alla ricerca di fondi!
Certamente, tradurre nella pratica quotidiana dei servizi sanitari concetti come Patient-centered care, Patient empowerment, Expert patient non è semplice perché richiede un cambiamento di paradigma rispetto al modo in cui la medicina è tradizionalmente praticata e le variazioni di paradigma trovano sempre una resistenza sia negli operatori sanitari che negli stessi pazienti. Ma la strada è aperta e penso che sia conveniente non tornare indietro.
Personalmente, questa rivoluzione la chiamerei “Da Tolomeo a Copernico! Non più il medico ma il paziente al centro del sistema”.
Tuttavia, se un paziente non è in grado di accettare questo ruolo e lo stesso comportamento viene attuato dai familiari (vedi la storia che ho descritto all’inizio), come si realizza questo progetto, questo utile sogno?
Si realizza con chi partecipa. Gli altri? Sappiamo da tempo che la carenza di cultura (sanitaria e non) e la povertà che spesso l’accompagna determinano un accorciamento della vita di circa 5-7 anni e comunque una maggiore incidenza di fragilità. Se avessimo investito in cultura (sanitaria e non) a partire dalla scuola primaria decenni fa, oggi staremmo tutti meglio e con minori timori per la sopravvivenza del nostro welfare che deve rispondere a costi economici in progressivo aumento. Occorre schierarsi, prendere posizione. Si può, responsabilmente, iniziare al più presto e su tutte le fasce di età.
Don Luigi Ciotti ha scritto: “È necessario che i cittadini comuni si rendano partecipi della vita pubblica e non siano semplici spettatori… Responsabilità è impegno quotidiano, non indignazione saltuaria, non dolore a tragedia avvenuta”…
E Massimo Marnetto: “Esiste una omertà di attenzione, di chi non vuol sapere per non fare la fatica di capire, distinguere, prendere posizione. Il più italiano del “farsi i fatti propri”, in mancanza di un senso dello Stato, è una forma di concorso esterno alla mafia”.
Dobbiamo ribellarci ai modelli che, consolando, addormentano le coscienze.
Noi interveniamo in punta di piedi, con rispetto. Buona riflessione!