L’argomento principale di questo numero di PLV è il metodo Gentlecare di Moyra Jones ed io, come le volte precedenti, andrò “fuori tema”. Ma mi consolo con una storiella che ho letto su un Venerdì di Repubblica: Curzio Maltese riferisce quanto gli era stato raccontato da Vincenzo Cerami, che aveva conosciuto Pier Paolo Pasolini (PPP) quando era insegnante in una scuola media di Ciampino, una scuola in cui, prima dell’avvento di PPP, la media dei voti degli alunni in italiano era “quattro”, accompagnato dall’ammonizione ”sei andato fuori tema!”. Il nuovo professore, PPP appunto, amava invece quelli che andavano fuori tema premiandoli a volte con un “dieci”.
Oggi il preside l’avrebbe licenziato!
Andrò fuori tema anche questa volta con una riflessione su:
Chi è responsabile della Medicina della fretta? Anche i cittadini e i pazienti?
Alcune volte accade che alla fine di una conferenza una persona tra il pubblico esponga un caso clinico molto spesso complicato che riguarda se stesso o un familiare, accompagnandolo con una richiesta di diagnosi o terapia, precisando che alla sua soluzione si sono già impegnati senza successo diversi professionisti. E così, con sguardo che ondeggia tra la speranza e forse anche la sfida, vorrebbe da me una soluzione, su due piedi!
Oppure mi capita di essere contattato per telefono o via mail da persone che descrivono un caso clinico con lunghe e necessarie spiegazioni corredate da esami e l’immancabile risonanza magnetica (che tutto dovrebbe vedere e tutto dovrebbe risolvere…) richiedendo un parere e, ancora meglio, una diagnosi certa. Rispondo il più delle volte che è un compito impossibile “da lontano” perché i casi clinici neurologici sono solitamente complessi e per una valutazione seria serve presenza, tempo e impegno.
Replico così anche per quesiti apparentemente semplici, come quando mi viene richiesto dalla platea o per telefono o per mail un rimedio per l’insonnia. L’affermazione in genere è secca: NON DORMO oppure NON DORME riferendosi a un familiare, magari con demenza (ancora più complicato!). La domanda, in qualsiasi circostanza (platea, telefonata o mail che sia), sembra presupporre una risposta rapida e ovviamente farmacologica. Ad essa, tuttavia, rispondo che non può essere questa la strada corretta, almeno in una dimensione di serietà professionale nella quale chi indaga dovrebbe elencare, tra l’altro, una serie infinita di domande, che provo ad elencare per il caso dell’insonnia: ha difficoltà ad addormentarsi o si sveglia nel mezzo della notte o alle prime luci dell’alba? Si sveglia spontaneamente o per bisogni fisiologici magari ripetuti nella notte? A che ora va a letto, che cosa beve o mangia di «eccitante» durante il giorno, cosa mangia o beve a cena, che farmaci usa, russa, va in apnea, come dormiva prima di ammalarsi?
E poi, studiare la personalità, i bisogni, soprattutto i disagi confessabili e non; interpretare il contesto sociale e familiare e altro ancora. Infine, prospettare delle soluzioni, che non sempre includono uno psicofarmaco.
Questa modalità di lavoro, poiché di lavoro si tratta e non di gioco mediatico-televisivo, riferita all’esempio dell’insonnia ma ampliabile a numerose manifestazioni cliniche, richiede di “capire” numerosi elementi per poi ben operare. Sta certamente agli antipodi rispetto a chi, semplificando, si attende la facile soluzione, che a quanto pare prevede la veloce prescrizione di un ipnotico e i saluti di commiato. Le modalità sono simili anche per rispondere a quesiti più complessi come strane cefalee, saltuari formicolii, vertigini, svenimenti, fallimenti di memoria e anomalie complicate del movimento, perdite di forza e svariate altre macedonie di sintomi. Che sono parte del lavoro quotidiano del neurologo.
La buona medicina ha necessità di tempo e di professionalità.
Vi descrivo un caso recente che mi ha fatto ulteriormente riflettere e aiutarmi a sostenere questo indirizzo che probabilmente non mi fa apparire simpatico a chi opta per la soluzione veloce.
E’ del 2014
Sono stato contattato da un’amica siciliana che vive, come me, in Friuli: ad un suo lontano familiare di 62 anni che abitava in un capoluogo della Sicilia era stata diagnosticata da due neurologi in loco una Demenza Fronto-Temporale in quanto da qualche settimana l’uomo “appariva cambiato” nel comportamento e nelle abilità che possedeva. I familiari, quindi, hanno cercato di coinvolgermi per avere lumi sulla correttezza della diagnosi, inviandomi documenti clinici e lastre di risonanza magnetica, che non riuscivo a “vedere” bene” al computer. Ho fatto una scelta, come altre volte: ho sostenuto (e con forza, perché ho un’irresistibile abitudine a dire di si ed una curiosità innata che mi fanno imbarcare in casi complicatissimi) l’impossibilità di una diagnosi per manifestazioni così serie in assenza di una mia personale valutazione. Ho approvato la decisione dei familiari di rivolgersi a un collega neurologo, conosciuto per la sua professionalità in merito al sospetto clinico, che lavora in una struttura sanitaria pubblica di Milano.
Il resto ed il finale li espongo in poche parole: ricoverato, gli è stata diagnosticata una Vasculite cerebrale, una “infiammazione” dei vasi cerebrali sostenuta da una malattia autoimmunitaria che colpisce vari organi, il LES (Lupus).
Sottoposto alle cure del caso, è deceduto tuttavia poche settimane dopo.
Le riflessioni che questa vicenda umana mi impone:
1. Se avessi collaborato, di certo non sarei stato capace di pervenire alla diagnosi via mail e telefono!
2. Avremmo perso altro tempo prezioso, e già se ne era perso tanto: una diagnosi tempestiva avrebbe potuto salvare quella vita…
3. Esistono “altre” demenze oltre quelle conosciute e vanno sempre sospettate, soprattutto se l’evoluzione è piuttosto veloce: di questo e di altro (esami del sangue, del liquor, ecc.) avrebbero dovuto tener conto i due specialisti a cui la famiglia si era inizialmente rivolta.
4. Infine, pazienti o familiari, da veri disperati, tentano comprensibilmente tutte le strade possibili! Vanno capiti ma nello stesso tempo informati e indirizzati.
Cosa aggiungere? La richiesta di una diagnosi attraverso gli attuali mezzi di comunicazione o gli esami a cui viene illegittimamente data la patente di risolutori, dimostra che pazienti e familiari non hanno idea di come si svolga una valutazione medica specialistica seria e accurata pur se ricca di incertezze. Procedendo in questo modo essi stessi contribuiscono a svilire il ruolo dei medici che intendono lavorare con scrupolo.
Una delle possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra clinici e pazienti o comuni cittadini. I pazienti, in particolare, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli. E i cittadini, se adeguatamente informati, possono collaborare correttamente con i medici o, se serve, in qualche modo difendersi dalla Malasanità. Dobbiamo cominciare ad accettare il fatto che le competenze in materia di salute e di malattia risiedono tanto nel ruolo medico quanto tra i professionisti non-medici che lavorano in ambito sanitario e sono vicini ai pazienti e alle loro famiglie, tra gli esperti di altri settori essenziali per migliorare la salute, e infine tra i comuni cittadini che operano nella società civile.
La realtà della salute, quindi, dovrebbe vedere con un compito da protagonisti, accanto alla figura sanitaria centrale, il medico, gli altrettanto essenziali ruoli sanitari dei professionisti non medici, fino ad arrivare al cittadino malato e alla sua famiglia, al cittadino sano:
Lo stato assistenziale, il welfare, conquistato nel XX secolo, è destinato a ridurre le proprie prestazioni sotto il peso della crisi economica attuale e dell’invecchiamento della popolazione. Per ovviare alle carenze nell’area sanitaria si dovrà necessariamente realizzare un progressivo coinvolgimento dei cittadini, i quali verranno invitati ad assumersi la responsabilità della salute propria e dei propri cari, evitando gli stili di vita nocivi (alimentazione scorretta, alcol, fumo, non aderenza alle terapie e alla collaborazione alla prevenzione, ecc.).
A questo proposito cito un editoriale dell’autorevole BMJ del 2013 dal titolo “Let the patient revolution begin” (Richards et al.) in cui si afferma che l’unica possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra medici e pazienti, perché questi ultimi, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli.
Con queste prospettive, ogni cittadino non dovrebbe smettere di informarsi adeguatamente, di imparare, aiutato a leggere e a studiare, in una forma necessaria di autodifesa. I dati sconvolgenti e recenti di un analfabetismo di ritorno in Italia, tuttavia non rendono per nulla allegri: può significare andare incontro al destino di un futuro in cui prevarranno ancora di più la scarsa informazione mista ad ignoranza, inosservanza di norme, faciloneria, cinismo, ridotta prevenzione, abbandono di terapie necessarie, fragilità, e, infine, errori ed eventi avversi da farmaci (un’ altra area di sofferenza inutile e di consumo delle risorse sanitarie), e infine al ritorno dei ciarlatani.
E così, armato di pazienza, ho preparato uno scritto preconfezionato, buono per tutti, o quasi, che comparirà presto sul mio sito www.ferdinandoschiavo.it e che adopererò come risposta a certe mail:
A coloro che mi sottoporranno per via telematica la soluzione di casi clinici, quasi sempre complessi, soprattutto se riguardano anziani:
Gentile Signora, gentile Signore, è realmente arduo poter dare risposte “da lontano”, senza vedere, ascoltare, domandare, ri-domandare, toccare, esaminare accuratamente il corpo e gli esami, i mille aspetti che contraddistinguono ciò che sta accadendo a Lei o a “quella” persona cara, con la finalità di arrivare ad una diagnosi e in conseguenza ad una soluzione idonea.
Ogni persona è una storia, e noi dobbiamo ricordarci che entriamo nel privato di una storia umana.
Ancora più complicato è il compito di poter seguire (persino dal vivo!) una persona anziana. Le malattie croniche dell’anziano sfidano il modello dominante della medicina e dell’attuale assistenza, costruito per le malattie acute e non sulla complessità della condizione della persona avanti negli anni, solitamente portatrice di varie patologie e consumatrice di una sfilza di farmaci a numero crescente con gli anni che crescono. Gestire la complessità lontano dai vecchi paradigmi in cui a una causa corrisponde un effetto è un compito arduo: nella persona anziana, lo schema di causa ed effetto, molte volte semplice da appurare, ovvero la mono-malattia, si avvera piuttosto raramente. La mono-malattia è un avversario contro cui ci si impegna avendo come obiettivo, peraltro, la guarigione; va bene per i soggetti giovani o adulti, non sempre per gli anziani, in cui le priorità tecniche si smarriscono. L’obiettivo della medicina per il paziente anziano è, infatti, la qualità della vita e non quello irrealizzabile della guarigione di tutte le malattie di cui di regola egli è affetto.
La persona anziana, se è fragile, si trova spesso in una condizione da “filo del rasoio”, in cui basta effettivamente poco per far precipitare la situazione, quel poco che a volte non viene adeguatamente indagato da una sanità frettolosa, e proprio con chi avrebbe bisogno di essere esaminato con una buona dose di conoscenza gerontologica e delle necessarie riflessioni. A creare un aggravamento della preesistente situazione clinica e a pregiudicare la sua salute e autonomia attraverso una modalità da circolo vizioso oppure tramite un andamento progressivo a cascata sono sufficienti la febbre e le sue infinite cause; la disidratazione (e basterebbe guardare la lingua o toccarla!); la ritenzione urinaria (sarebbe sufficiente palpare l’addome!); un fecaloma; un dolore fisico che l’anziano non riesce a tradurre in semplici informazioni per permetterci di aiutarlo; una riduzione della pressione arteriosa stabilmente o solo in ortostatismo (viene esaminata?) con conseguente sensazione di stordimento e pericolo di cadute nonché di danno cerebrale emodinamico “silenzioso”; una ipoglicemia; gli effetti combinati di tanti farmaci e soprattutto degli psicofarmaci.
Nell’esempio che segue, la catena di eventi che inizia a causa di una patologia in fondo non drammatica ma che molti anziani, magari cognitivamente fragili, “non riescono a comunicare” come semplice bruciore a far pipì o simili, conduce all’incerto finale, che prevede anche la morte.
La neurologia e la neurogeriatria sono portatrici di tematiche sconosciute ai cittadini.
Un formicolio o una perdita di forza transitori e improvvisi ad un braccio vengono percepiti spesso come un problema circolatorio del braccio stesso, quasi mai del cervello del lato opposto! E si tratta spesso di un attacco ischemico transitorio (AIT) cerebrale, che può preludere ad altri attacchi oppure ad un ictus cerebrale dagli esiti disastrosi. In compenso, quasi tutti sanno che l’attacco ischemico transitorio, ma a livello cardiaco, richiede una corsa in ospedale. Stessa patologia, in fondo, ma conoscenze diverse di due apparati del nostro corpo. E non va meglio per molte altre malattie neurologiche: quanti cittadini sanno cosa è la Miastenia per la quale è morto il miliardario Onassis? O la Poliradicoloneurite di Guillain-Barrè' di cui porta ancora i segni il regista Ermanno Olmi? O sanno che la diplopia (vedere doppio) nasconde quasi sempre un problema neurologico e non oculistico?
Pretendere di risolvere i casi complessi per via telefonica, via mail oppure in piedi davanti agli astanti di una conferenza svilisce il lavoro di chi cerca di continuare a farlo alla vecchia maniera (tocca dirlo!) impegnandosi per almeno un’ora alla prima valutazione medica allo scopo di capire, prospettare una diagnosi e le relative soluzioni attraverso un itinerario collaudato dall’esperienza.
E’ uno schema che in molti casi l’attuale sanità sembra avere smarrito quando non applica il “prendersi cura” limitandosi al “curare” guardando l’orologio, invece di ampliare il compito sanitario all’informazione-formazione di pazienti e familiari per coinvolgerli in una conoscenza adeguata delle problematiche e delle strategie farmacologiche e non, invitarli alla prevenzione adoperando empatia, corretta comunicazione, giustificata larghezza del limite di tempo.