Riprendo gli spunti e pensieri di Lidia Goldoni dell’1 novembre per esprimere alcune considerazioni, frutto della mia esperienza professionale pluridecennale nell’ambito della prevenzione in sanità pubblica.
Il termine prevenzione oggi è molto usato e con varie accezioni. Si ha tuttavia l’impressione che proprio questa fortuna ne abbia sfumato i contorni, rendendo difficile capire quanta e quale prevenzione si faccia effettivamente.
In medicina la prevenzione primaria è facilmente spiegabile partendo da un atto medico come la vaccinazione, atto ormai consolidato dal punto di vista dei contenuti scientifici (si somministra un farmaco efficace) e ben definito per quanto riguarda i destinatari, i tempi e le procedure: la vaccinazione con il tossoide tetanico conferisce una protezione attiva all’individuo, impedendogli di contrarre l’infezione mortale in caso di contatto con il bacillo del tetano. La complessità aumenta se si considera l’effetto allargato di altri vaccini che conferiscono protezione non solo agli individui che si vaccinano ma anche alla comunità in cui gli stessi sono inseriti: se un numero sufficiente di persone di una comunità si vaccina, il contagio viene limitato e si verifica un effetto protettivo anche per i non vaccinati, ciò che può contribuire alla scomparsa di quella malattia. In questo modo il vaiolo è stato eliminato da tutto il mondo, la polio è stata cancellata dalla maggior parte dei paesi e in alcune realtà sono già scomparsi morbillo, parotite e rosolia. La vaccinazione diventa quindi un atto di grande responsabilità anche dal punto di vista sociale, a fronte dei, seppur minimi, rischi che il vaccinato corre. Data per scontata l’importanza di questo atto, così chiaro e definito nella sua essenza medica, non possiamo trascurare il fatto che la riduzione drastica della mortalità per malattie infettive verificatasi nel secolo scorso ancora prima dell’introduzione della vaccinazione, viene attribuita in buona parte al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione, miglioramento reso possibile dall’emanazione di leggi e regolamenti a cui hanno collaborato medici e urbanisti. La vaccinazione non costituisce quindi l’unico atto preventivo nei confronti delle infezioni essendo altrettanto importante adottare misure di igiene personale (es. lavarsi le mani, arieggiare gli ambienti, nutrirsi adeguatamente) e misure igienico-sanitarie collettive che riguardano la preparazione degli alimenti piuttosto che il controllo dell’acqua potabile, l’igiene abitativa ed urbana, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti o la salvaguardia delle matrici ambientali. Benchè queste ultime misure nell’opinione pubblica vengano considerate atti preventivi minori, la loro importanza appare in tutta evidenza nel momento in cui scoppiano epidemie che non possono beneficiare di vaccini specifici, com’è successo di recente con la SARS e in parte con l’aviaria. Purtroppo, la conoscenza dei rimedi non ne comporta automaticamente la disponibilità per tutti: nel nostro paese oggi la mortalità per malattie infettive è inferiore all’1% ma nei paesi in via di sviluppo continua a registrarsi una mortalità specifica superiore al 40%, simile a quella presente in Italia nell’ottocento.
Esistono dunque varie possibilità di prevenzione primaria e tutte agiscono in varia misura sulle cause di malattia, rimuovendo o attenuando i fattori di rischio o potenziando i fattori protettivi. La gerarchia tra le misure ritenute scientifiche e quindi “maggiori” (il farmaco, l’intervento tecnologico) e le misure ritenute “minori” (le pratiche igieniche o i comportamenti) non esiste solo nella percezione comune; le varie aree della prevenzione primaria riscuotono attenzioni diverse anche da parte dei professionisti, della stampa e degli amministratori. Si ha l’impressione che, più che il costo, sia a volte determinante la possibilità di offrire una qualsiasi risposta spendibile nell’immediato, preferendo rifuggire dalle situazioni più complesse in cui ruoli e responsabilità sono distribuiti in capo a vari soggetti e le azioni si snodano in un arco temporale più lungo. A fronte del successo di un’offerta vaccinale che continua a crescere, è più difficile occuparsi di stili di vita. Oggi sappiamo che la modifica degli stili di vita sta alla base della prevenzione (anche primaria) delle malattie croniche cioè di quell’ampio gruppo di malattie, cardiopatie, ictus, cancro, obesità, diabete, che costituiscono la prima causa di morte e che sono in crescente e rapida diffusione. Queste malattie non beneficiano di interventi una tantum: sono malattie che hanno origine in età giovanile, ma che richiedono anche decenni prima di manifestarsi clinicamente. Dato il lungo decorso, richiedono una assistenza sanitaria continua, impegnativa e costosa; complessa anche perché richiede l’intervento di varie discipline per la coesistenza di patologie plurime. Alla base di queste malattie, oltre alle caratteristiche individuali, ci sono fattori di rischio estremamente diffusi ma modificabili con interventi di prevenzione primaria: mancanza di attività fisica alimentazione eccessiva o squilibrata, consumo di tabacco, abuso di alcool. Questi fattori a loro volta possono generare quelli che vengono definiti fattori di rischio intermedi, ovvero l’ipertensione, la glicemia elevata, l’eccesso di colesterolo e l’obesità sui quali è possibile intervenire efficacemente con interventi sanitari di prevenzione secondaria (diagnosi precoce) e terziaria (recupero della funzione), oltre che con la terapia farmacologica. Per questo spesso si identifica la prevenzione con gli interventi di screening o con i check up periodici finalizzati a individuare i soggetti che presentano rischi specifici o che hanno una malattia latente non ancora sintomatica. Si tratta di interventi necessari ma certo non sufficienti perché non interessano tutta la popolazione e non vanno a modificare le cause della malattia, campo d’azione della prevenzione primaria. Un esempio recente di come si possa intervenire a monte dei fattori di rischio è dato dalla legge sul fumo.L’imposizione del divieto di fumo nei luoghi di lavoro e nei locali aperti al pubblico si è dimostrata capace di ridurre l’esposizione al fumo passivo di fumatori e non fumatori contenendo anche il numero di sigarette fumate attivamente e aumentando il numero di fumatori che smettono di fumare. La prevenzione delle malattie croniche quindi non può limitarsi ad individuare precocemente e contrastare i fattori di rischio a livello individuale, può e deve risalire a quelle che sono “le cause delle cause” cioè a quei fattori generali che possono influenzare in modo positivo o negativo le condizioni di salute dell’intera popolazione. L’adozione di stili di vita sani è l’arma più valida per prevenire la diffusione delle malattie croniche così come il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e la profilassi vaccinale sono stati determinanti nei confronti delle malattie infettive.
Per quanto riguarda i quesiti di Lidia Goldoni li tradurrei così: produrre salute è compito dell’organizzazione sanitaria o è un problema di tutti? Serve semplicemente un aumento del budget o sono necessarie risorse di altro tipo? Basandomi sulla mia esperienza di operatore della prevenzione non posso che concordare sul fatto che sono necessarie una migliore ripartizione e una razionalizzazione della spesa sanitaria. La spesa sanitaria corrente tra il 96 e il 2006 è costantemente cresciuta, passando da 52,2 miliardi di euro a 98,7; alla prevenzione viene assegnato il 2-3% del bilancio sanitario mentre la spesa farmaceutica ne copre il 16 % con al primo posto antiipertensivi e ipolipemizzanti; considerando il progressivo invecchiamento della popolazione e la tendenza ad una sempre maggiore aggressività nell’approccio terapeutico è prevedibile un tendenziale incremento nella prescrizione di questi farmaci nelle malattie croniche anche se le principali linee guida hanno ormai stabilito la necessità che la prescrizione farmaceutica sia preceduta da una efficace prescrizione/sorveglianza sullo stile di vita. In un’Italia sempre più anziana e propensa al consumo sanitario, sta lentamente migliorando l’assistenza sul territorio e nell’ultimo decennio è raddoppiata la spesaper prestazioni integrative, protesiche e riabilitative. Il maggior carico assistenziale non è stato accompagnato tuttavia da interventi preventivi efficaci. Secondo i dati della comunità europea, a fronte di un’aspettativa di vita che aumenta velocemente (76.4 anni per gli uomini e 82.4 anni per le donne nel 2008) non si registra un uguale guadagno di anni di vita in salute, che terminano ad un’età media di 60.9 anni per gli uomini e 62 per le donne. Una parte notevole della nostra vita (anche vita lavorativa, stando ai nuovi provvedimenti pensionistici) è quindi caratterizzata dallo stato di malattia.
Le principali agenzie internazionali mettono in guardia contro il rischio della non sostenibilità di questa situazione, quindi non c’è dubbio che dal punto di vista economico sia conveniente e necessario intensificare gli sforzi per prolungare la salute e prevenire la non autosufficienza. Anche questo percorso non è privo di ostacoli: è preferibile spingere la prevenzione su livelli elevati usufruibili da poche persone o individuare interventi che possono contribuire a un maggior benessere per molti? In ogni caso bisognerebbe umilmente riconoscere che non tutto è prevenibile (e non subito) e che, al di là di quelle che sono le possibilità tecniche, le scelte andrebbero operate in base ad una valutazione matura degli interessi collettivi. Se questo sia un compito riservato alle organizzazioni sanitarie credo emerga da sé. Gli interventi assistenziali sono necessari così come in sanità sono richiesti un atteggiamento più orientato alla prevenzione ed una cura meno centrata sul farmaco; è necessario tuttavia prendere atto che la base della malattia si costruisce in tutto il corso della vita ed all’esterno dell’ambito strettamente sanitario. La sfida, anche oggi, consiste nella capacità di unire i vari settori della società per individuare un obiettivo comune ed innescare un processo di cambiamento finalizzato a guadagnare salute. Cambiare comportamenti consolidati è più facile se la persona è inserita in un ambiente che può facilitare le abitudini salutari e se ha un livello culturale più elevato, perciò una risposta positiva alla richiesta di cambiamento di stile di vita si realizza più frequentemente nelle persone con uno status socio-economico più elevato, le stesse che presentano anche mortalità posticipata, morbilità e disabilità più contenute; lo stesso vantaggio hanno coloro che vivono in aree caratterizzate da condizioni socioeconomiche più elevate. Una prevenzione efficace deve porsi il problema di eliminare o almeno cercare di limitare le diseguaglianze di salute per necessità pratica oltre che un imperativo etico, ma una prevenzione sradicata dalla realtà e dalla società difficilmente può centrare questo obiettivo. E’ importante attraverso l’epidemiologia far emergere le disuguaglianze di salute ma è compito di tutta la società individuare la cultura che le nutre e trovare il modo di eliminare le disparità. Io penso che nessuna categoria e nessun soggetto sociale possano ritenersi estranei a questo processo anche perchè tutti possano trarre vantaggio nella loro vita da una maggiore equità. Un esempio: le malattie cardiache sono la prima causa di morte in ambo i sessi, tuttavia il rischio di morte cardiovascolare è più alto nelle donne a causa di una sottostima dei sintomi, di una diagnosi più tardiva e di un diverso comportamento terapeutico. Un altro esempio: durante le ondate di calore il rischio di morte anticipata riguarda gli anziani che vivono in condizioni di solitudine e deprivazione. La sanità in questi casi può adottare alcuni correttivi ma dovremmo anche farci qualche domanda sul tipo di società che vogliamo.
La prevenzione è anche difficile da comunicare perché, a fronte delle azioni messe in campo e delle risorse impiegate, innesca processi complessi e ottiene risultati misurabili nel lungo periodo. Per tutti questi motivi fare prevenzione richiede volontà politica, capacità tecniche, continuità d’impegno e disponibilità a lavorare in modo integrato. La prevenzione richiede anche trasparenza perché non sempre gli interessi del singolo e della collettività coincidono; a volte il beneficio di un determinato intervento può essere diffuso e quindi rilevante senza tuttavia garanzie certe per il singolo che si è sobbarcandosi qualche disagio o sacrificio. E’ un fenomeno ben conosciuto ed indicato come “il paradosso della prevenzione”.
Questo quadro complesso evidenzia che non si può seriamente occuparsi di prevenzione sanitaria senza allargare la visuale a quelli che sono i modelli sociali, economici, culturali che contribuiscono ad elevare il rischio di malattia e senza confrontarsi con la società. Probabilmente è proprio questa complessità di attori e di interessi coinvolti che rende così difficile comprendere cosa significhi prevenire oggi.
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