Riorganizzare le residenze per anziani, certo! Ma impariamo prima la neurogerontologia, perché, se continuiamo ad andare dietro al Senso Comune, ovvero alla zavorra dei pregiudizi e alle emozioni, smetteremo di usare il gentile ed intelligente Buon Senso.
Sono passati 19 anni da quando un gruppo di validi autori francesi ha lanciato l’allarme sulla sottovalutazione politica, sociale e persino medica del fenomeno già allora incalzante delle demenze, uno degli aspetti sanitari non secondari che accomuna molti ospiti delle residenze per anziani bisognosi di assistenza e cura. E successivamente sono stati tanti i messaggi da OMS e grandi istituzioni mondiali che incitavano alla priorità della diagnosi tempestiva di demenza. Tuttavia, la realtà è davanti ai nostri occhi ed è di parte di questo che scriverò. A proposito: qualcuno in Italia ha visto dei cambiamenti reali dopo il parto nel 2014 del Piano Nazionale Demenze?
Della mancata diagnosi di demenza ho scritto in diversi articoli pubblicati qui (con questo, fanno 50!). Oggi, col mio solito passo trogloditico, torno sull’argomento cercando di fare un po’ di ordine attraverso l’analisi queste 6 modalità del NON PUO’ESSERE DEMENTE.
La diagnosi. È il grande problema, scrive Amalia Bruni (1): “Solo il 50% dei pazienti con una forma di demenza viene oggi diagnosticato. Gli altri sono fantasmi, nascosti nelle case o nelle RSA, non identificati o al massimo edulcorati sotto terminologie vergognose perché aspecifiche e che nulla hanno da invidiare alle fumose e fantasiose diagnosi degli ospedali psichiatrici di una volta che avevano dalla loro come scusante la reale mancanza di conoscenze”.
Ne so qualcosa col mio studio “La strage delle innocenti (2).
A ulteriore conferma, dagli Stati Uniti è arrivata persino un’amara constatazione: “La diagnosi di demenza? Neanche da morti! Su 7.342 persone che erano state trasferite nelle case di riposo seguite dal 2000 fino al 2009, lo studio ha stimato come il 13,6% dei decessi osservati fosse attribuibile alla demenza, 2,7 volte più del 5% dei certificati di morte che indicano la demenza come causa del decesso. La sottostima è maggiore tra le persone di colore e i latinoamericani (3)”.
Il primo NON PUO’ ESSERE DEMENTE attinge a piene mani al cinismo irrispettoso sempre più emergente ai tempi nostri, unto di razzismo: si chiama AGEISMO. Il pregiudizio del “tanto è vecchio” che tutto giustifica questa volta viene applicato al campo della diagnosi di demenza. "È normale che perda la memoria, è vecchio\a”, comportamento che priva una persona fragile della dignità di una seppur infelice diagnosi.
Nello stesso tempo, il “tanto è vecchio” si presenta nelle richieste di tutele economiche, come l’assegno di accompagnamento: familiari ed anziano arrivano senza una diagnosi, senza uno straccio di accertamento appropriato, vengono a pretendere un attestato che consenta di approdare a quei cinquecento euro al mese per il vecchio genitore.
“In questo primo incontro di poco più di un’ora ho appurato che c’è con alta probabilità una demenza, e anche abbastanza severa; dobbiamo prima fare delle indagini per escludere le forme di demenza reversibili, poi magari tentare una cura con farmaci certamente non miracolosi, prendersi cura di alcuni aspetti di salute generale e anche dello stile di vita… e infine redigere quelle stranezze funzionali burocratiche che vanno sotto il nome di ADL, IADL e CDR e completare il tutto con una idonea richiesta del riconoscimento dell’invalidità e delle relative tutele economiche”.
“No! Tutto questo tempo?”
Il secondo NON PUO’ ESSERE DEMENTE è una sorta di “auto-ageismo” che la persona anziana si infligge, accompagnandolo magari con uno sguardo complice: “Ma sono tanto vecchia, dottore”, dice sorridendo e tuttavia sottraendosi alle indagini da fare, alle maggiori attenzioni da parte dei familiari, alle cure…
E siamo arrivati al terzo, intrigante, forse il più doloroso NON PUO’ ESSERE DEMENTE. “Ma è troppo giovane per essere demente!”
Ho già affrontato su Perlungavita.it qui l’argomento raccontando tre storie vere e poi del mio incontro con Wendy Mitchell due anni fa a Pinerolo. Attraverso l’impegno di Eloisa Stella di www.novilunio.net ho potuto conoscere altre storie “itineranti” di demenze iniziate a 50 anni, come quella di Kate Swaffer, Co-fondatrice e CEO di Dementia Alliance International (DAI), di Helen Rochford Brennan, di Keith Oliver, persone che girano per il mondo allo scopo di permettere a noi tutti di comprendere l’immensa portata del fenomeno demenze. Si sono impegnati a parlare anche a nome di quelli che non possono in quanto non posseggono più la giovinezza, la forza, la personale lucidità residua e la capacità di testimoniarle, seppur angosciosamente, in pubblico.
E da qui arriviamo al quarto NON PUO’ ESSERE DEMENTE: oltre al danno, lo sberleffo, le allusioni alla falsificazione, al fenomeno da baraccone col fine di ottenere un proprio tornaconto! “Ma come fa ad andare in giro a far conferenze se è demente”? Come se chi è malato di demenza debba obbedire alla legge manichea del tutto o nulla, del bianco e nero, come se non fosse previsto in natura il Grande Grigio della mente e delle capacità residue, quell’area in cui ci si può permettere ancora di guidare, cucinare, in qualche modo lavorare, ridere, guardare uno spettacolo, raccontare la propria vicenda umana, votare, cantare arie dell’Aida, e sicuramente amare.
“Immagino che tra i presenti a questa conferenza di oggi ci siano diverse persone che si stanno chiedendo se ho veramente una demenza… Per ora, la maggior parte delle mie disabilità cognitive e sensoriali dovute alla demenza sono invisibili; solo i miei amici più cari e i miei familiari sono in grado di cogliere i cambiamenti che vivo. In ogni caso, è difficile capire se una persona ha una demenza, esattamente com’è difficile identificare in questa sala chi soffre di malattie cardiache, di diabete o di qualsiasi malattia cronica (bravissima!!!). Tanto più che non è nemmeno etico fare una diagnosi in pubblico. Queste dinamiche sono probabilmente dovute al fatto che molti partono dal falso presupposto che le persone con demenza siano tutte uguali. L’approccio stigmatizzante alla demenza sembra inoltre suggerire che siamo tutti uguali nel modo in cui si presenta la malattia a prescindere dall’età in cui riceviamo la diagnosi. Ma soprattutto vorrei precisare che nessuno passa improvvisamente dalla fase della diagnosi alle fasi più avanzate di una demenza, specialmente quando si tratta di una diagnosi effettuata in una fase precoce della malattia”. Sono parole di Wendy Mitchell.
“E’ una doppia punizione quella di avere una diagnosi di demenza e dover dimostrare agli altri di essere veramente malati! A chi dubita della mia diagnosi, mio marito risponde sempre nello stesso modo: dovresti venire a vivere con noi per renderti conto di come sta mia moglie”. È la risposta indignata, da parte di Helen Rochford Brennan, a tali calunnie.
In questo articolo deve trovare spazio almeno un accenno alla storia di Paolo, che ha cominciato a manifestare i primi segni della malattia di Alzheimer appena superati i 40 anni, di sua moglie Michela, tenera, scarmigliata e battagliera, dei suoi piccoli figli: basta seguire Michela Morutto sui social e, meglio ancora, leggere “Un tempo piccolo” scritto da Serenella Antoniazzi, un’altra combattente, pubblicato da Gemma Edizioni, uno scrigno geniale e prezioso di libri per bambini e di racconti fantastici di persone con serie malattie.
E siamo arrivati al quinto punto. ” Ma non ha problemi di memoria!”
Perentorio: non tutte le demenze cominciano col buco… di memoria. È uno dei messaggi che lancio da decenni attraverso una mia diapositiva provvista dell’immagine di una ciambella col buco! Una demenza può iniziare a manifestarsi con problemi di linguaggio, di “comprensione dello spazio”, di “organizzazione dei semplici gesti” quali stirare oppure usare lo spazzolino da denti (come potete leggere nel libro Quando andiamo a casa? di Michele Farina). Può esordire con una variabile gamma di problematiche comportamentali tra cui l’incompresa (dai familiari e dai medici) apatia-abulia, spesso scambiata per depressione, trattata con antidepressivi e di conseguenza spesso peggiorata col loro uso; ci sono poi le allucinazioni e le “strane idee di furto o di danni continui e improbabili da parte dei vicini di casa”, i cambiamenti di personalità, dei gusti alimentari e persino del vestiario, la perdita dell’odorato e la stitichezza ( qui gli inizi della vicenda di Robin Williams, malato a sua insaputa), gli incubi notturni agìti picchiando chi sta accanto (RBD) e tanto altro.
Anche il fenomeno della bella “facciata” concorre ad allontanare il sospetto: ricordo alcune scene del film Iris, in cui il marito contrasta, sorridendo a dismisura, il tentativo da parte del medico di far luce sulle dimenticanze della scrittrice Iris Murdoch. Nella mia esperienza ho incontrato tantissimi familiari che non accettano la diagnosi di demenza in pazienti che camuffano la loro impotenza con risposte spensierate mescolate ad un umorismo fuori luogo che rende tutti complici dell’errore.
Si renderanno conto quando, mesi o pochi anni dopo, arriveranno confusi ed agitati ad un tramonto qualsiasi (sindrome del tramonto) oppure nel corso della notte si esibiranno in qualche esplosione di aggressività senza senso, di ricerca della propria casa, di affaccendamento nel tentativo di “mettere ordine alle proprie cose”. E sarà a quel punto che arriverà l’eroe che va al dunque, ma al buio di una diagnosi mancata, e attraverso le sue pregevoli gocce di Aloperidolo (Serenase o Haldol) farà sì che la faccenda si metterà male!
Siamo arrivati al termine, al sesto punto dedicato al disastro delle mancate diagnosi che vede protagonisti i medici, spesso gli specialisti di questo campo, coloro che non sanno che “il Mini Mental mente o può mentire…”
Qualche riflessione che emerge dalla personale esperienza. I colleghi lo sanno fare? Lo sanno «interpretare»? Sanno che ha delle lacune e che il punteggio è un mito da sfatare e quindi “che c’è punto perso e punto perso”? Ho visto coi miei occhi, o mi hanno confermato seri familiari o colleghe neuropsicologhe più che attendibili, che esistono quei professionisti i quali:
1. … non eseguono i test cognitivi brevi e inviano i pazienti alle neuropsicologhe per eseguire quelli estensivi, allungando le liste di attesa per chi ne avrebbe realmente bisogno! Una donna di 85 anni che riporta un punteggio di 13\30 al pur fallace “Mini Mental” non credo che abbia bisogno di test sofisticati la cui esecuzione richiede ore!
2. … fanno finta di eseguirli e scrivono nel referto i dati numerici del presunto risultato! “No, dottore, questa prova CHIUDA GLI OCCHI né quella della copia dei due pentagoni intrecciati la mamma le ha fatte”. Falso in atto pubblico. Si va nel penale.
3. … non fanno assistere i familiari… i quali potrebbe rendersi conto del reale profilo dello stato cognitivo e magari smettere di chiedere “le dica che deve bere di più”, una volta appurato che “pane, casa e gatto” la mamma non li ha richiamati alla memoria e che, quindi, tanti consigli subiscono la stessa sorte. I familiari, poi, possono comprendere tanto dalla prova CHIUDI GLI OCCHI… se la persona esaminata dice “Dove devo scrivere”?
4. … fanno ripetere la prova sbagliata più volte… “Provi a ridisegnare, dai”!
5. … aiutano: “Siamo in Ita…; siamo in inve…”
6. … non allegano una copia… Che serve, perché… c’è punto perso e punto perso nella “qualità” del test! Immaginate la tenera vecchietta che sale in ascensore accompagnata dalle due figlie che premono il tasto quarto piano, emozionata, impaurita dall’atmosfera dell’ospedale, dell’ambulatorio. “A che piano siamo?” recita il test. Questo è un punto “fesso” più che un punto perso, secondo il mio parere.
7. … ma soprattutto sbagliano in partenza adoperando il test “Mini Mental” sbagliato, quello che contiene due errori: la traduzione dall’inglese della parola MONDO, in cui sono presenti purtroppo due O, invece di adoperare CARNE, e lo scioglilingua (“tigre contro tigre”) al posto di “non c’è se né ma che tenga”.
È il momento della mia ennesima, ultima provocazione: “Si può essere dementi - e a volte in modo serio - riportando 27 o addirittura 29 risposte esatte su 30 al Mini Mental”?
Rispondo subito di sì poiché, a costo di ripetermi, c’è punto perso e punto perso e perché devo tener conto anche dell’esistenza delle fluttuazioni cognitive, in positivo ed in negativo, in quel giorno, in quella ora! E soprattutto devo ascoltare quanto mi sta raccontando il familiare e tenerne conto!
“Ma signora, il punteggio è ottimo. Sua mamma non ha una demenza”!
“Ma certi giorni scambia il water per il bidet, o arriva a chiedermi dov’è sua figlia”?
“Non può essere. E poi ha superato ampiamente il cut off”!
Il famigerato cut off, la trincea immaginaria di qualche inqualificabile esperto che delimita l’essere malato vero da quello immaginario. Immaginario per lui, non certamente dalla figlia protagonista dell’esempio, che in una fase successiva, con un altro professionista, appurerà che la mamma ha una demenza a corpi di Lewy. Ecco allora il punto perso dalla mamma, quello che “ne vale” (in negativo) almeno 15 in meno: la signora costruisce, in rosso, il proprio disegno all’interno di quello proposto, incapace di elaborarne uno indipendente accanto al modello. È il closing in, gente!
Se poi si riescono a dedicare ancora cinque minuti al test dell’orologio, si vedrà dell’altro…
In rapida conclusione, questi errori di diagnosi tempestiva o di mancata diagnosi ricadono pesantemente su infiniti aspetti della vita delle persone e delle famiglie, anche in assenza di una terapia fino ad oggi ritenuta valida per rallentare il procedere del danno neuronale.
È necessario ancora un piccolo, ultimo sforzo, e chiedersi: perché serve una diagnosi, e magari tempestiva, di demenza?
Perché esistono le forme reversibili, da tumore, ematoma post-traumatico, idrocefalo, iposodiemia, ipotiroidismo, ecc. ecc. E poi ci sono quelle magari non reversibili ma in qualche modo affrontabili: da LESS o altra diavoleria su base autoimmunitaria, quelle da prioni (“mucca pazza” & C.)…
Perché, in piena coscienza di malattia, una persona con demenza può tempestivamente organizzare il futuro, la semplice stesura di un testamento o le scelte di fine vita.
Perché esiste “la cura dei contorni”, delle malattie o condizioni che fanno da contorno ad un quadro di demenza, e spesso ne rappresentano dei reali fattori di rischio, come diabete, ipertensione, obesità, fibrillazione atriale, sedentarietà ecc. È la visione olistica che fa a pugni con una medicina sempre più frammentaria e frettolosa.
Perché, infine, la mancata diagnosi lede il diritto a tutele presenti a livello nazionale (legge 104, assegno di accompagnamento, ecc.) o locale. A tale proposito, nel clima di scarsa conoscenza neurogerontologica e, nello specifico, all’interno del campo minato delle demenze, certe commissioni che esaminano i casi di persone con demenza non sono sempre preparate a comprendere che si può, si deve, uscire da certi schemi predeterminati secondo un codice numerico assolutamente deviante, come recitano certe sentenze della Consulta. Mi fa assolutamente ridere, amaramente, l’aggettivo MODERATO applicato alle demenze che hanno “quel certo punteggio”, e ancor di più la Scala CDR (Clinical Dementia Rating Scale)! Nella fase moderata tale scala enuncia: perdita di memoria severa, materiale nuovo perso rapidamente; difficoltà severa nell’esecuzione di problemi complessi, giudizio sociale compromesso; richiede molta assistenza per la cura personale... Come si intuisce, l’aggettivo moderato in una scala universalmente accettata, può essere invece degno di contestazione perché fonte di errori nel giudizio clinico e prognostico e di conseguenza a livello di tutele legali e amministrative.
PS. Credo che nei codici di morte (perdonate la mia claudicante appropriatezza di linguaggio burocratico) esista ancora la parola DEMENZA SENILE. La DEMENZA SENILE non esiste!
Breve Bibliografia
1. Amalia C. Bruni, Valentina Laganà e Francesca Frangipane. Il demone nella mente di mio marito. Psicogeriatria 2017;1:29-37.
2. Ferdinando Schiavo. Progetto di studio La strage delle innocenti. 2015. www.alzheimerudine.it e www.ferdinandoschiavo.it.
3. Andrew C. Stokes et al. Estimates of the Association of Dementia With US Mortality Levels Using Linked Survey and Mortality Records. JAMA Neurol. August 24, 2020