Notizie allarmanti dai media: gli screening crollano del 70%, Covid blocca la prevenzione.
Dobbiamo darci responsabilmente da fare, col Covid e senza Covid!
Appena il tempo di pubblicare qui l’articolo del mese scorso sulla Prevenzione della fragilità e (della maggior parte) delle demenze e proprio a fine novembre sono state presentate le linee guida 2020 OMS (WHO) su attività fisica e sedentarietà. “Every move counts “, ossia: qualsiasi tipo di movimento conta.
Su “WHO guidelines on physical activity and sedentary behaviour” si accenna a qualche novità riguardante l’attività fisica ricreativa da praticare in maniera regolare e si dà uno spazio intelligente anche al concetto di mobilità attiva come pratica abituale, peraltro rispettosa dell’ambiente e con bassa incidenza di spese (ad es. di trasporto), facilitata ovviamente dall’ambiente sicuro, accogliente, vivibile. Si può semplicemente scegliere di usare le scale, di camminare o di usare la bici o gli sci da fondo (quando sarà possibile…), di nuotare (quando sarà possibile…).
Nel frattempo, sempre circa un mese fa, hanno visto la luce altri documenti: “Le persone con diabete dovrebbero fare almeno 30 minuti al giorno di attività fisica ad intensità moderata o superiore, idealmente tutti i giorni della settimana”. È quanto emerge dalle linee guida pratiche sulla camminata per i pazienti con diabete di tipo 2, realizzate dalla Società italiana di diabetologia (SID), dall'Associazione medici diabetologi (AMD), e dalla Società italiana di scienze motorie e sportive (SISMES).
A rafforzare l’idea che “basta poco movimento e la pillola (antidiabetica in questo caso, ma potrebbe trattarsi anche di quella ipotensiva) non va giù” è stato pubblicato uno studio su JAMA che si può riassumere così: “Poco moto in più e 2-3 kg in meno dimezzano il rischio diabete”. Gli esperti hanno seguito per un tempo medio di otto anni oltre 1000 persone ad alto rischio di ammalarsi di diabete, perché già con glicemia a digiuno alta (valori compresi tra 100 e 126 mg/dl di sangue), una condizione denominata prediabete che vede aumentare di circa il 50% il rischio di ammalarsi di diabete vero e proprio nel giro di soli 5 anni (1)
Aggiungo che anche il prediabete è una condizione che danneggia i vasi sanguigni e altro.
Cambiando registro, una notizia:”Lavorare fa bene...”. In sintesi, il lavoro retribuito protegge la memoria delle donne, siano esse sposate o single o con figli. Lo studio ha coinvolto quasi 6200 donne di età media 57 anni, il cui stato di salute è stato monitorato per un periodo complessivo di 12 anni, con controlli della memoria biennali. È dai 60 anni in su che emergono le differenze, la memoria delle donne con figli che sono state o sono lavoratrici declina più lentamente della memoria delle coetanee che non hanno lavorato o che hanno smesso definitivamente di farlo dopo la nascita dei figli. La memoria di una mamma non lavoratrice si riduce nello stesso arco di tempo del 50% di più della memoria di una mamma lavoratrice (2).
Purché, aggiungerei, non sia un lavoro ripetitivo, noioso, non apprezzato, altamente stressante, malamente sopportato, nel qual caso diventa un fattore di rischio per fragilità e demenza….
Non credo di spendere altro in questo scritto sui nove fattori di rischio per fragilità e demenze, evito così di renderlo un mattone, anche se gli incalzanti sovrappeso e obesità, ipertensione, fumo ecc. meritano le dovute attenzioni. Sulla depressione come fattore di rischio ma anche come elemento spesso “confondente” nel panorama delle demenze ho già scritto più volte qui.
Su scolarità e “curiosità culturale” tornerò a discutere nel prossimo numero, trattando questo tema insieme alle sempre più emergenti disuguaglianze sociali.
Ora desidero soffermarmi su altri fattori di rischio di fragilità e demenze oltre quelli dell’elenco conosciuto (vedi articolo precedente).
Un decimo, anche se non sempre modificabile, è legato ai problemi di vista: possiamo immaginare cosa avviene, sintetizzando in modo estremo, nella mente di una Persona ipovedente, tra depressione reattiva e ridotto flusso di buona parte delle informazioni (3).
Persino l’ormai semplice intervento per la cataratta, col recupero della visione, è in grado di migliorare le funzioni cognitive (4,5)
L’undicesimo riguarda un tema coinvolgente e tuttora incerto perché combattuto tra i precedenti studi che magnificavano come utile per la salute l’uso di modiche quantità di vino rosso ricco di polifenoli e, dall’altro punto di vista, un dato che riassumo con un solo lavoro, davvero inquietante:
“Basta l'alcol contenuto in due birre per provocare, nel lungo periodo, la perdita di cellule dell'ippocampo…” (6). L’abuso di alcol, comunque, va ribadito, é dannoso.
“Quando il sonno viene limitato a sole 5 ore, la beta-amiloide aumenta in due regioni del cervello note per essere vulnerabili nei confronti della malattia di Alzheimer: l'ippocampo, importante per la memoria, e il talamo, che aiuta a trasmettere i segnali nel cervello e regola il sonno e la coscienza. Il sonno é importante per eliminare i «rifiuti» dal cervello” (7). Siamo al dodicesimo fattore di rischio in qualche modo modificabile (e magari non attraverso l’uso di benzodiazepine: v. dopo).
Non si accumula però nel cervello dell’insonne solamente l’amiloide ma anche la tau, l’altra proteina implicata nella malattia di Alzheimer. Addirittura ciò sembra accadere persino in persone “non anziane”: uno studio preliminare svedese pubblicato quest’anno, effettuato su 15 giovani uomini, ha dimostrato che quando soggetti giovani e sani sono privati di una sola notte di sonno presentano nel sangue livelli più alti di tau rispetto a quando hanno trascorso una notte completa e ininterrotta di riposo (8).
A questo punto ci viene incontro nuovamente l’attività motoria ricreativa, il semplice cammino. Alycia N. Sullivan Bisson e colleghi (9) hanno dimostrato come fare 2000 passi in più al giorno aiuta a dormire meglio la notte. Hanno monitorato 59 persone dotate di contapassi, notando che quelle che avevano aumentato il cammino quotidiano di 2000 passi, circa un chilometro e mezzo, non solo dormivano di più la notte ma soprattutto dormivano meglio, con un sonno più profondo, rispetto a quelle che non avevano cambiato le loro abitudine fisiche.
Accenno ancora a due fenomeni: agli effetti dannosi generali e cerebrali delle apnee nel sonno, poco conosciute, indagate e trattate in Italia rispetto ad altri paesi, soprattutto nelle donne, e poi ai nostri ritmi circadiani. Il ritmo circadiano, scritto nel nostro DNA, ci detta quando dormire, mangiare ed eseguire attività fisica, destinandoci così ad essere mattinieri (cronotipo mattutino: l’allodola!) o nottambuli (cronotipo serale: il gufo!). I nostri orologi biologici sincronizzano i sistemi metabolici per renderli efficienti e funzionali nel periodo diurno per lasciarci riposare la notte. Se invertiamo le nostre attività, creiamo il fenomeno della “chronodisruption” correlata direttamente con disturbi metabolici, obesità e malattie cardiovascolari. I nottambuli possono avere un rischio maggiore di soffrire di malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2 rispetto ai mattinieri, in quanto tendono ad avere modelli nutrizionali meno salutari che non rispettano le tre dimensioni del comportamento alimentare - tempistica, frequenza e regolarità - e quindi i ritmi biologici e metabolici del nostro organismo (crono-nutrizione).
Chi dorme poco la notte e magari sonnecchia ore (sbagliato!) sul divano (sedentarietà) fa spesso visite inopportune nel frigo e aggiunge punti all’indice di massa corporea (BMI).
Al tredicesimo posto metterei lo stress cronico, quello cattivo, poiché possiede un ruolo nell’aumento del cortisolo e del danno ippocampale mediato dal glutammato che ricade nell’economia complessa del nostro cervello.
Ce lo saremmo immaginato al quattordicesimo posto un ruolo per le paradontiti? Si, anche loro sembrano “far male” alla salute del cervello (10). Ampliando lo sguardo verso un’economia globale del nostro corpo – nell’articolo precedente ho ricordato che ciò che va bene per il cervello fa bene al cuore e viceversa – aggiungo che il cervello può essere danneggiato attraverso un problema cardiaco più frequente a manifestarsi nella persona che invecchia: la fibrillazione atriale. E anche in questo caso i germi gengivali (e il microbiota intestinale no?) sembrano far danno. Alcuni ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 161.286 persone, seguite per circa 10,5 anni scoprendo che gli individui che si lavavano i denti tre volte al giorno avevano il 10% in meno di probabilità di sviluppare fibrillazione atriale e il 12% in meno di sviluppare insufficienza cardiaca rispetto a quelli che si lavavano i denti meno frequentemente (11).
Chi troviamo al quindicesimo posto, secondo questa mia personale hit parade? L’inquinamento… Qualcuno, a proposito di Alzheimer, si era posto il problema già nel 2014, parlando di “pistola fumante” (12). Poi, a ragione, si sono scatenati in tanti: il particolato ultrafine di magnetite (un ossido di ferro), prodotto dal traffico, soprattutto dai motori Diesel e dagli impianti di generazione di energia, è responsabile di malattie polmonari e cardiocircolatorie, ma anche di altro…” (13, 14).
Abitare vicino a strade trafficate, per esempio: quest’anno Weiran Yuchi e colleghi (15) hanno analizzato i dati di 678.000 adulti del distretto Metro Vancouver , osservando che vivere a meno di 50 metri da una strada principale o a meno di 150 metri da un'autostrada è associato a un rischio maggiore di sviluppare demenza, Parkinson e sclerosi multipla. Durante il periodo di follow-up, i ricercatori hanno identificato 13.170 casi di demenza non-Alzheimer, 4.201 casi di Parkinson, 1.277 casi di Alzheimer e 658 casi di sclerosi multipla. Per la demenza non-Alzheimer e il Parkinson, in particolare, vivere vicino alle strade principali o a un'autostrada è stato associato a un aumento del rischio di entrambe le condizioni rispettivamente del 14% e del 7% per cento.
I ricercatori hanno anche scoperto che vivere vicino a spazi verdi, come i parchi, ha effetti protettivi contro lo sviluppo di questi disturbi neurologici. Suggeriscono che questo effetto protettivo potrebbe essere dovuto a diversi fattori: avviene solo perché andiamo a “respirar terpeni”, come mi piace sintetizzare parlando dei benefici del passeggiare nel bosco, oppure perché rientra in uno stile di vita globalmente corretto e attento? Infatti, le persone maggiormente esposte agli spazi verdi hanno più probabilità di essere fisicamente attive e di avere più interazioni sociali.
Esiste realmente un collegamento tra sviluppo intellettuale e comportamentale nei bambini e spazio verde urbano? Sembra proprio di si: uno studio pubblicato in agosto, condotto in Belgio, ha incluso 620 bambini (310 coppie di gemelli) da 7 a 15 anni e, dai risultati del modello utilizzato, ha osservato una significativa correlazione tra la prossimità/distanza delle abitazioni di questi bambini dagli spazi verdi e il loro sviluppo intellettivo (misurato utilizzando uno strumento convalidato, la Wechsler Intelligence Scale for Children-Revised) e quello comportamentale (anch’esso valutato utilizzando uno strumento convalidato, la Achenbach Child Behavior Checklist). Queste correlazioni non sono state osservate nei bambini residenti in aree suburbane e rurali (16).
Infine, una recentissima analisi dei dati di oltre 18.000 adulti con deterioramento cognitivo: ha suggerito un’associazione tra l’inquinamento dell’aria (maggiori concentrazioni di particolato fine [PM2,5]) e la presenza di placche di β amiloide cerebrali, caratteristica della malattia di Alzheimer. Gli anziani con deterioramento cognitivo lieve (MCI) o con demenza residenti in aree con più alte concentrazioni di PM2,5 avevano una probabilità maggiore di positività alla PET amiloide, l’esame che “vede” il deposito di questa sostanza nel cervello (17).
Arrivo a delineare il sedicesimo fattore di rischio in buona parte modificabile, un argomento a me particolarmente caro e che mi fa dannare: alcune categorie di farmaci rappresentano delle vere e proprie mine vaganti per la salute dell’anziano.
Tanto per immergerci nella complessità “farmacologica” è necessario aggiungere che, a complicare la vita di chi è in là negli anni, esistono numerosi medicinali che, possedendo ovviamente delle attività “utili” sui neurotrasmettitori, possono influenzare la salute se adoperati in maniera scorretta.
Quanti anziani, ad esempio, accogliamo tra i nostri pazienti con una storia lunga 20 o 30 anni di Valium, Tavor, EN, Minias e altre benzodiazepine (BDZ) usate per l’insonnia? In recenti lavori scientifici si parla di aumentato rischio di demenza ed anche di morte per un uso prolungato negli anni (18,19, 20).
Ma esistono pure all’incirca 600 molecole dotate di azione anticolinergica (“contro” l’acetilcolina), meccanismo che può rivelarsi, tra l’altro, assolutamente “negativo” nel bilancio della memoria e del comportamento. Tra queste particolari mine vaganti si nascondono degli insospettabili compagni di strada della nostra vita, farmaci per così dire storici di cui indico il nome commerciale, come il Buscopan, lo Spamomen, il Lexil (vedere dopo) e tanti loro sodali antispastici viscerali, l’antidepressivo Laroxyl – spesso usato per combattere sintomatologie dolorose - ed altri vecchi “triciclici” (triciclici: che nome allegro!); c’è anche un antidepressivo più recente come l’usatissima Paroxetina (vari nomi commerciali); sono implicati alcuni farmaci che agiscono a livello bronchiale e vescicale e persino vecchie glorie come il Lasix, il Lanoxin, il Coumadin, la Codeina, gli antistaminici…
A proposito di antistaminici, la scheda tecnica del Benadryl e dell’ Allergan recita così: “Per i suoi effetti anticolinergici il prodotto non deve essere utilizzato in caso di glaucoma, nell’ipertrofia prostatica, nell’ostruzione del collo vescicale, nelle stenosi piloriche e duodenali o di altri tratti dell’apparato gastroenterico ed urogenitale...”
Non una parola su possibili reazioni negative, come alterazioni cognitive e persino il temutissimo e trascurato delirium!
Sui bugiardini, quindi, non esiste un chiaro avvertimento sugli eventi avversi a carico del cervello, un indizio di pesante sottovalutazione e di scarso impegno nei riguardi degli effetti neurologici sulla popolazione anziana, una ottusa modalità operativa in un mondo che invecchia nell’abbondanza di rimedi farmacologici.
Sull’ignoranza che grava a proposito di conoscenze neurologiche ho accennato ( qui) più volte: la neurologia, quest’altra sconosciuta; il direttore della prestigiosa rivista The Lancet che non viene “toccato” dai medici e che dichiara “l’esame neurlogico non esiste!” ( qui ).
Buoni propositi e cattive soluzioni in una recente esperienza e un caso di arroganza noncurante in queste due storie che ho vissuto come relatore e che vi racconterò in breve.
In un progetto di deprescrizione di benzodiazepine in residenze per anziani è stato proposto e somministrato il Laroxyl in gocce come placebo, ovvero come sostanza “inerte” (dovrebbe essere questa la natura e la funzione del placebo! Ma il Laroxyl non è inerte, anzi!). Parlando proprio di ciò e in generale degli anticolinergici ad un altro convegno, sono stato attaccato energicamente da un collega neurologo: “Vuoi privare un anziano che ha una nevralgia post-erpetica di questo farmaco?”
Cosa rispondere? “Si può provare, collega, ma se l’anziano va in confusione o cade corriamo il rischio di innescare un dannato circolo vizioso! Bisognerebbe inoltre valutare anche il “carico anticolinergico” di quella Persona anziana, ovvero chiedersi: quanti altre mine vaganti ad azione anticolinergica sta assumendo? (21)”
La pubblicità di questi 3 farmaci mi arriva circa 3 volte l’anno.
Si riconosce con la stellina gialla il Laroxyl e accanto c’è il Lexil (ambedue anticolinergici) e poi, con la stellina rossa, il Levopraid (antidepressivo, eucinetico viscerale…). Lui funziona diversamente dai precedenti, blocca i recettori del neurotrasmettitore dopamina, come tanti altri, tra cui diversi psicofarmaci e, anche qui, dei compagni di strada che alcuni dei lettori hanno avuto la possibilità di usare, spero correttamente: Serenase e Haldol, Entumin, Mutabon (una delle 3 combinazioni è quella “mite”: Mutabon mite fa tenerezza!), Deanxit e Dominans (dal nome sembrerebbero semplici ansiolitici…), Difmetré, Plasil (si, lui!), altri.
Torno sull’usatissimo Levopraid con una piccola storia di poche settimane fa.
Un collega mi ha chiamato per chiedermi di valutare un anziano con un sospetto parkinsonismo senza tremori. “Magari sta usando qualche farmaco anti-dopaminergico?” gli ho detto scherzando, conoscendo la sua pignoleria. “No, prende di tutto ma nessuno di quelli!”
L’uomo si è presentato lento e impacciato nel movimento, la faccia aveva perduto la sua espressività e così il vigore della parola: un classico parkinsonismo “ipocinetico”, senza tremori (sento il dovere di precisarlo in quanto molta “gente” identifica le parole parkinsonismo e Parkinson come malattie caratterizzate sempre da tremore!).
Ho chiesto subito (vizio mentale) l’elenco dei farmaci. Mi ha allungato lentamente un foglio.
“E questo Levopraid?”
“Lo prendo da dieci anni almeno”.
“Per quale motivo?”
“Non me lo ricordo. Il medico me lo rinnova”.
È un ennesimo esempio di “pasticcio” (eufemismo) da parte della figura professionale del medico nella marea dei farmaci esistenti applicata alla politerapia dell’anziano. Tuttavia, non desidero attardarmi su queste sostanze che agiscono sulla dopamina e sono implicate – se adoperate in un certo modo e sugli anziani, e peggio ancora sulle anziane – in parkinsonismi e numerosi altri disturbi, motori e non, in quanto ne ho portato testimonianza in diversi articoli su questo sito. Un caso emblematico per tutti, vi consiglio di (ri)leggerlo ( qui ).Oppure sul mio "Malati per forza"( Maggioli editore).
Per anticiparvi il tema finale del prossimo articolo sulla Prevenzione contro la fragilità e le demenze, che verterà principalmente sulle disuguaglianze sociali e sull’impegno che almeno tre attori dovranno imporsi, cittadino, medico e politico, vi accenno all’importanza della “comprensione” da parte del primo dei tre.
A volte bisogna adottare cambiamenti, anche radicali, del proprio stile di vita ed esserne capaci richiede fatica e impegno costante e, alla base, una reale comprensione del proprio stato di salute. Confermando elementi oramai certi, uno studio pubblicato a giugno e condotto dalla Mayo Clinic in Minnesota ha rilevato che i pazienti con insufficienza cardiaca e con problemi di alfabetizzazione sanitaria hanno un aumentato rischio di ricovero e mortalità. L'insufficienza cardiaca è una condizione cronica che richiede ai pazienti di assumere capacità di autogestione per monitorare il peso, la pressione sanguigna, controllare la dieta, la glicemia, attenersi alle linee guida su farmaci, fare attività motoria. Insomma, anche questo lavoro suggerisce che la comprensione di un individuo della propria salute potrebbe migliorarne gli esiti (22).
Lo ripeto da anni: CHI SA SI SALVA.
Ma la comprensione probabilmente non basta. Le mie nonne avevano studiato poco e all’epoca di prevenzione si parlava marginalmente. La loro vita, il loro stile di vita, mi ha insegnato qualcosa e l’ho voluto testimoniare nella presentazione di un manuale dell’associazione Alzheimer di Udine pubblicato circa 9 anni fa (23).
Nello scrivere su un argomento che mi sta a cuore perché rappresenta una sfida preventiva ai tanti motivi che impediscono una buona salute nell’età in cui ci chiamano anziani, non posso fare a meno di raccontarvi, col semplice valore di aneddoto, di due anziane con destini diversi.
Si tratta delle mie nonne: una, Filomena, è deceduta a 74 anni dopo almeno due decenni di discreto sovrappeso, diabete insulino-dipendente, cardiopatia, limitazioni articolari; l’altra, Maria, a 94 anni. La nonna Filomena viveva in cucina, brava cuoca e buona forchetta, ed era sedentaria da sempre; la nonna Maria era magra, mangiava lo stretto necessario e ogni giorno, clima permettendo, quindi spesso in Sicilia, faceva una lunga passeggiata da Ortigia, l’isolotto di Siracusa fino alla borgata pochi chilometri dopo il ponte.
Da trentenne avevo considerato che morire a 74 oppure a 94 “fosse comunque da vecchi”: quelle età mi apparivano lontane e inarrivabili.
Ora ho mutato, e mi sembra ovvio, la percezione del valore inestimabile di venti anni di buona salute guadagnati dalla nonna Maria, un regalo della vita che in parte tutti noi siamo nella condizione di meritare, con qualche sacrificio!
Due soggetti sono un campione troppo esiguo per una verità scientifica, ma questa storia personale, a parer mio, non è priva di insegnamenti.
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Bibliografia
1. Michael Sampson et al. Lifestyle Intervention With or Without Lay Volunteers to Prevent Type 2 Diabetes in People With Impaired Fasting Glucose and/or Nondiabetic Hyperglycemia: A Randomized Clinical Trial. Jama Internal Medicine 2020 Nov 2;e205938.
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4. A.R. Lou, K.H. Madsen, H.O. Julian, et al. Postoperative increase in grey matter volume in visual cortex after unilateral cataract surgery Acta Ophthalmol. 91 (1) (2013), pp. 58-65.
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10. Dominy SS et al. Porphyromonas gingivalis in Alzheimer’s disease brains: evidence for disease causation and treatment with small-molecule inhibitors. Sci Adv, 2019 Jan 23.
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