Tra i divieti e le privazioni più o meno facili da accettare di quest’anno e fonte di un forte dolore emotivo, c’è quello, straziante, di far visita ai propri cari ospiti delle Residenze Protette, l’accesso alle quali, per nove mesi, è stato completamente vietato o fortemente contingentato. Un provvedimento determinato naturalmente dalla necessità di prevenire la diffusione del virus, purtroppo inevitabile, ma non privo di “effetti collaterali“ e percepito come una violenza, seppur perpetrata in nome della sicurezza, sia dai ricoverati che dalle famiglie.
Certamente l’aspetto più eclatante del terribile impatto della pandemia sulle Case di riposo è stata l’elevata mortalità, che purtroppo si riscontra anche in questa seconda ondata, e che ha costretto i direttori sanitari a vietare l’accesso. Tuttavia non va sottovalutato il problema psicologico dell’isolamento delle persone più fragili e contemporaneamente più esposte ai rischi del contagio.
Gli anziani, soprattutto quelli cognitivamente più deboli, i malati di demenza, si sono sentiti abbandonati dalle famiglie, soli in questa delicata fase della loro vita, immersi in un clima di inquietudine, circondati solo da un personale reso irriconoscibile dai dispositivi di protezione e inevitabilmente più “distante” sia fisicamente, per il rispetto dei protocolli di sicurezza, sia emotivamente per non soccombere al senso di impotenza davanti all’immane compito di garantire una buona cura in condizioni così estreme.
I familiari da parte loro hanno avuto paura di perdere i propri affetti senza un vero commiato. In alcuni casi gli operatori hanno provveduto a rendere possibili dei contatti su tablet o attraverso WhatsApp, tuttavia questa modalità ha assolto allo scopo di rassicurare le famiglie sullo stato di salute dei propri cari, ma non ha potuto rappresentare un “ponte” in grado di superare la solitudine dei residenti, salvo rare eccezioni, poco consueti all’utilizzo della tecnologia e del digitale. Per i malati di demenza, in particolare, per i quali è già difficile mantenere la relazione in presenza, questi mezzi decisamente non rappresentano una valida alternativa.
Nella migliore delle ipotesi, quando durante l’estate c’è stata una riduzione della curva dei contagi, i familiari hanno potuto, previo appuntamento, fissato a volte anche a distanza di un mese, incontrare il proprio congiunto per un quarto d’ora, preferibilmente all’aperto o in un locale dedicato, naturalmente rimanendo a distanza, dietro un plexiglass di separazione, indossando i dispositivi di protezione e alla presenza di un operatore. Spesso queste visite “asettiche” hanno provocato più dolore che conforto, pochi sorrisi imbarazzati e tante lacrime.
Il paradosso che si è potuto osservare a bilancio di questo difficile periodo, è che le misure anti covid per tutelare la salute della popolazione anziana hanno avuto sulla stessa un effetto devastante. Hanno favorito su persone già fragili e in larga misura cognitivamente deboli, un ulteriore decadimento cognitivo, apatia, inappetenza, depressione, disturbi del sonno e ansia con il conseguente peggioramento anche delle patologie di tipo organico.
Si sa che “c’è un dolore che nasce nella carne e un dolore che viene dall’anima, ma raramente restano disgiunti” (Mortari) e quando il dolore dell’anima diventa insostenibile si manifesta nel corpo, rendendolo potenzialmente anche più esposto agli attacchi del virus.
Nell’approssimarsi di questo Natale anomalo in cui auguri e doni con gli amici, cenoni e tombole in famiglia si sono trasformate da consuetudini a trasgressioni, a reati perseguibili, un documento ministeriale approvato il 30 novembre scorso ha preso atto di questo problema e ha provato a porvi rimedio.
In sintesi il documento prevede che all’interno di residenze protette e RSA vengano riprese le attività occupazionali eventualmente sospese e che debbano essere assicurati non solo regolari collegamenti in modalità digitale con i propri familiari, ma anche la possibilità di “pieno accesso” dei parenti e dei volontari agli ospiti delle strutture. Si precisa peraltro che devono avvenire in piena sicurezza, che devono essere subordinati all’esito negativo di tamponi rapidi antigenici da effettuare a ogni accesso nella struttura e con la realizzazione, compatibilmente con le caratteristiche della struttura stessa, di locali idonei, ad esempio una “sala degli abbracci”. E, naturalmente, che devono venire sospese in presenza di focolai. Sinceramente poco cambia nella sostanza, se non che si è preso atto della difficoltà insita in un buon accudimento a trovare la “giusta misura”, della scelta etica tra proteggere dal punto di vista organico e sostenere dal punto di vista psicologico.
Per quanto rappresenti un documento importante, non affronta il problema alla radice. Ratifica qualcosa che gli psicologi sostengono da sempre, ovvero che mente, corpo e relazione sono aspetti imprescindibili, che ciascuno di essi è condizione essenziale del vivere; che l’uomo non ha solo dei bisogni primari, di nutrizione o di igiene personale, ma ha bisogno della relazione, uno strumento terapeutico centrale e potente, “come le piante hanno bisogno dell’acqua” (Vernooij). All’interno delle strutture assistenziali quindi all’anziano va garantito il mantenimento dei legami e dei rapporti in cui era inserito e le attività socio relazionali sono da considerare altrettanto necessarie di quelle sanitarie.
Il bisogno di carezze e sguardi accoglienti che possono comunicare la vicinanza dell’altro, di una parola che cura e può addolcire il vissuto di chi sente di perdere tutto ciò su cui fondava la propria identità, non è sentimentalismo, ma una necessità. Soprattutto dove il senso di sé è in crisi, dove il linguaggio della logica non è utilizzabile, è il contatto a rendere raggiungibili, a generare comprensione e fiducia. Si è sempre sensibili al tatto e alla relazione, agli abbracci che fanno sentire ancora degni di attenzione, che restituiscono un’immagine positiva di sé.
Lo ha compreso anche un writer che ha riportato su una parete del centro di Udine una frase che attribuisce ad Anais Nin : ”Tutto quello che ho da dirti posso dirtelo solo con le carezze”. Sia che si intenda che l’unica cosa che vale la pena dire, ovvero quanto l’altro è importante, si può comunicare solo attraverso il contatto, sia che le carezze sono l’unico modo di comunicare rimasto, suggerisce l’essenzialità di questo approccio.
Quello di cui il documento ministeriale non tiene conto è che forse non è possibile chiedere questo tipo di cura, in grado di garantire una buona qualità di vita e una “buona morte” all’attuale sistema assistenziale, che in questa situazione di emergenza non ha retto e sta dimostrando la propria inadeguatezza.
Già in tempi normali nelle Case di riposo e nelle RSA il tempo dedicato a ogni ospite è stabilito sulla base di una rigida tempistica organizzativa, al punto che i minuti di assistenza dedicati quotidianamente a ogni paziente sono il parametro abitualmente usato per qualificare il livello di assistenza assicurato da una RSA. Gli standard vanno da 90 a 150 minuti al giorno in media (e comprendono igiene personale nutrizione assistenza infermieristica ecc.). Anche nelle strutture migliori i grandi numeri dell’accoglienza e l’organizzazione stringente non consentono un incontro autentico con l’altro. Fanno inevitabilmente perdere personalizzazione, sensibilità e attenzione all’unicità della persona di cui si ha cura. Avviliti dall’impossibilità di sentirsi ascoltati, sentendosi inutili o “sbrigati” come una faccenda, i residenti finiscono spesso per attendere che si compia il loro destino in silenzio, o “silenziati” dai farmaci. Dal canto loro i familiari, dopo il ricovero, vengono privati della priorità del proprio ruolo, devono “farsi indietro” rispetto alla maggioranza delle decisioni che riguardano i propri cari che possono incontrare solo da “visitatori”, come estranei, con pesanti ricadute sul piano psicologico.
La pandemia da Covid ha ulteriormente, drammaticamente, aggravato la situazione.
Soprattutto in questa seconda ondata in Friuli la situazione delle Residenze protette è piuttosto allarmante, peggiorata rispetto al primo lockdown. In regione in 107 delle 170 case di riposo presenti si registrano focolai di contagio, probabilmente veicolato dagli operatori. Purtroppo le disposizioni della Regione e delle Aziende Sanitarie obbligano le strutture a continuare ad assistere i contagiati invece di ricoverarli. Allo stesso tempo molti degli operatori contagiati non vengono sostituiti, con un conseguente aggravio del carico di lavoro e delle condizioni di rischio per chi rimane in servizio e un peggioramento della qualità di assistenza ricevuta dagli ospiti.
In queste condizioni, in cui non è nemmeno possibile ottemperare alle disposizioni contenute nel documento ministeriale, come si può immaginare di garantire una buona cura all’anziano fragile, che gli restituisca dignità e fiducia in sé e in un mondo percepito come estraneo e avverso, che lo incoraggi e ne rinforzi le capacità adattative? Come è possibile dare ascolto e appoggio ai familiari e al complesso coacervo di emozioni che provano?
Forse sarebbe più opportuno immaginare per il futuro di investire in soluzioni assistenziali alternative, più flessibili e informali e proprio per questo più adatte a rispondere a esigenze di maggiore personalizzazione. Un’ alternativa ad esempio sono le realtà di cohousing per anziani, o per malati di demenza, da decenni presenti nei paesi del nord Europa e che vanno diffondendosi anche in Italia. Trattandosi di piccoli nuclei residenziali, che riproducono nei numeri le dimensioni di una famiglia, vengono percepiti come accoglienti e rassicuranti da i residenti, consentono al tempo stesso di garantire la massima personalizzazione, un certo grado di socializzazione e il giusto equilibrio tra protezione, sicurezza e rispetto per la libertà, l’identità e l’autonomia residua. In una realtà di questo tipo, soprattutto se autogestita, i familiari, supportati da adeguate figure professionali, possono assumere responsabilità decisionali simili a quelle dei direttori sanitari delle strutture: scegliere le linee guida per la comunità, proporre attività occupazionali calibrate sui reali interessi e capacità dei residenti, ma soprattutto essere presenti con quell’accudimento affettivo che non è possibile aspettarsi dal personale, neanche il più formato.
Un progetto di questo tipo, interamente privato e autogestito dalle famiglie coinvolte, il cohousing Demaison per persone malate di demenza, è attivo in Friuli dal 2013. Certamente non è possibile affermare che non si siano avuti disagi in conseguenza al covid, ma sono stati decisamente contenuti proprio per i piccoli numeri e grazie all’autogestione. Le famiglie, per la sicurezza dei residenti e delle assistenti familiari, hanno scelto di limitare le occasioni di rischio. Per questo, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, sono state temporaneamente sospese alcune delle attività previste (riprese appena possibile) e sono stati molto contenuti anche agli accessi dei familiari, che tuttavia si sono sempre verificati. Il disagio maggiore per i residenti è stata la minor naturalezza nei contatti e nelle presenze, il contatto fisico ridotto rispetto al solito; per le famiglie invece è stato organizzare il rientro dalle ferie estive delle assistenti familiari titolari, che sono partite quando non c’erano limitazioni alla circolazione fra i paesi europei e che al rientro erano invece tenute a un periodo di quarantena. Anche in Demaison quest’anno il pranzo di Natale, che generalmente riuniva la tutte le famiglie intorno a una tavolata imbandita con un menu multietnico, sarà meno gioioso del solito, come purtroppo avverrà per la maggior parte della popolazione, tuttavia complessivamente il cohousing Demaison ha dimostrato anche in queste circostanze drammatiche di avere dei punti di forza, perché è una modalità di assistenza equilibrata, in cui nessuno si sente solo e che consente di ottimizzare le risorse, flessibile e facilmente replicabile, a patto di essere disponibili a interazione e condivisione.