Il tema della solitudine è stato promosso perché rappresenta una reale evidenza che stimola la conseguente seria necessità di discuterne, ha risvegliato le coscienze di chi sta vicino agli anziani col lavoro o col cuore.
Ne ho già scritto su questo sito (Le tante facce della solitudine e i suoi rischi) e torno a scriverne dopo avere seguito il convegno Nemica Solitudine a Padova il 15 novembre e aver partecipato come relatore e organizzatore, insieme a Demaison Onlus, a Città Sane di Udine e a IFOTES, e come relatore al “nostro” convegno di Udine il 17 novembre scorso La solitudine in età avanzata. Fragilità, depressione, demenze e possibili soluzioni.
Avevo scelto questo logo "Se tu vieni, ad esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice" tratto da Il Piccolo Principe in quanto è fortemente evocativo del “tanto” che possiamo fare con “poco”, con la nostra semplice presenza. E’ un logo che uso da anni quando spiego un concetto apparentemente semplice che riguarda le differenze tra anziano e adulto in termini di salute, di fragilità, di cronicità, quando insisto sulle necessità di un approccio medico diverso, tutti temi cari ai geriatri e diventati indispensabili per me che sono un neurologo dei vecchi.
La frase mi aiuta a far comprendere l’estrema utilità dei “piccoli guadagni”, gli small gains, tutta quella “cura” fatta di dettagli sanitari, sociali ma soprattutto umani ed emozionali che possiamo offrire ai nostri anziani. Si tratta di piccoli interventi che sono in grado tuttavia di determinare spesso risultati clinici sorprendenti e con un forte rilievo soggettivo positivo in chi soffre da lunga data: una semplice visita e una chiacchierata, uno stimolo a uscire all’aria aperta e camminare un po’ di più, a variare l’alimentazione, a cucinare qualcosa insieme, a cantare, a trovare persino tempo e modo di dedicarsi alla cura dei piedi, strutture portanti che i geriatri tengono giustamente in gran conto. E, insieme, si può fare tanto altro ancora.
Di piccoli guadagni hanno scritto e parlato anche Diego De Leo e Marco Trabucchi nell’editoriale apparso nel primo numero del 2018 di Psicogeriatria, annunciando per il 15 novembre 2018 “End loneliness” Prima Giornata Nazionale contro la Solitudine dell’Anziano. Per l’occasione di Padova è stato ampliato l’editoriale con altri significativi contenuti.
“Quasi nove milioni di italiani hanno paura di restare soli al momento del bisogno. Gli anziani sono i più insicuri di avere qualcuno che li sostenga in caso di necessità…”. L’idea di fondo “io sono perché noi siamo” ha coinvolto tutti noi.
Altre belle riflessioni sono arrivate dalle diverse relazioni, cominciando dalla crescita delle famiglie unipersonali in cui per fortuna il vivere da soli non sempre corrisponde a una condizione di effettivo “star soli” e “star male”: infatti, nel concetto di solitudine "amara" (quella che ti fa soffrire per intenderci) non conta la rete sociale obiettiva (rapporti sociali nel mondo reale e su FB) ma la presenza di poche e valide amicizie e ovviamente la personale percezione di felicità (di «non solitudine»).
Si è discusso di solitudine dei “connessi” giovani e vecchi, quando ci si allontana dalla società per abbandonarsi a FB e a questo vorace mondo di internet che si sostituisce ad alcune mancanze nelle tappe della nostra crescita sin da bambini.
Di differenze concettuali tra Solitudine, che rappresenta uno stato soggettivo, e Isolamento, che ne è la versione oggettiva e in qualche modo misurabile.
Di ineliminabili ambivalenze umane tra la tendenza a “andare verso l’altro” e la pari aspirazione all’indipendenza e autosufficienza.
Di paura di stare soli con se stessi, compensata in qualche modo attraverso gli altri.
Della solitudine dei diciottenni di 100 anni fa al fronte e dunque di solitudine antica sopportata stoicamente ma che, nei nostri tempi, sta diventando nemica nei modi dei negazionisti della vecchiaia e della morte.
Della necessità di progettare e di immaginare, della solitudine creativa amica dei poeti.
Della solitudine che torna ad essere nemica dei familiari che accudiscono un malato con demenza, abbandonati da amici e parenti assenti, poco considerati persino dagli stessi medici mentre vivono la loro drammatica esperienza di vita.
E delle donne molto spesso protagoniste di solitudine in tanti ruoli.
Nel “nostro” I mille volti della Solitudine dell’anziano si è discusso anche di solitudine come fattore di rischio di demenza ma nello stesso tempo di solitudine come effetto della demenza, a volte addirittura come iniziale cambiamento comportamentale della persona malata ma ancora senza evidenti sintomi cognitivi.
E infine si è parlato di anziani singoli manipolabili, truffati, di campanelli che squillano e spezzano la solitudine facendo breccia sulla diffidenza, di anziani che spariscono: in un caso veneto un professore è stato trovato mummificato in casa parecchi anni dopo, nell’evidente indifferenza da parte di familiari, amici e vicini. Abitanti di questa nostra società.
Il tema degli “Spariti” d’altra parte mi è caro da tempo. L’ho trattato in un convegno che, insieme a Demaison Onlus, ho organizzato a Udine il 22 settembre scorso: al nostro secondo FAR MIND, LA MENTE LONTANA, commentando il film di Pupi Avati Una sconfinata giovinezza.
Abbiamo toccato nel finale questo aspetto, davvero intrigante: gli SPARITI, forse meglio del termine SCOMPARSI che ho usato fino a ieri, possono allontanarsi per vari motivi, tra cui la presenza di una demenza non diagnosticata, "non capita" dai medici oppure sottovalutata dagli stessi familiari e dagli amici.
Perché questo territorio della mente è dominato e intralciato da numerosi luoghi comuni e pregiudizi, il primo dei quali è costruito su un preconcetto relativo alla terza e quarta età, l'AGEISMO (... tanto è vecchio...) che tutto giustifica.
Il secondo è supportato dall'idea malsana di "sapere tutto sulle demenze", che tutte siano "senili" o, bene che vada, siano "Alzheimer", e che comunque TUTTE abbiano come sintomi basilari l'arcinoto problema di memoria per avvenimenti recenti. Nulla di più falso! E deviante.
Gli spariti possono essere ritrovati in tempo, o no.
Era appena sceso il sipario sulla ultima drammatica scena del film in cui, allontanandosi, la moglie di Lino, giornalista sportivo malato di demenza, sparito da qualche giorno nei boschi dell’infanzia emiliana, aveva sussurrato “C'è un bambino che scappa e la sua mamma si dispera perché non riesce più a trovarlo. Dove vanno tutti i bambini che scappano? Perché è così segreto e irraggiungibile quel luogo? Perché le loro mamme non sanno più trovarlo?” IA quel punto della mattinata il mio amico Claudio è salito sul palco e ci ha emozionati tutti, costringendoci spontaneamente a rifugiarci nel più partecipe, rigoroso e commosso silenzio. Ci ha raccontato della mamma smarritasi in un bosco nell'agosto del 2016 mentre si trovava in Piemonte, a Re, in pellegrinaggio. Era andata a cogliere fiori di campo a pochi metri dell'albergo che ospitava lei e le altre persone, tra cui quella a cui era stata affidata e che, stremata dal caldo di agosto e dal viaggio, era andata a riposare. Il suo corpo è stato trovato a marzo del 2017. Claudio ci ha consegnato un pezzo della sua storia e della sua vita non proprio facile.
Ho riflettuto a lungo: la solitudine della persona con demenza, la solitudine che deve aver provato la mamma di Claudio persa in quei boschi sconosciuti, forse simili ai suoi boschi dell’infanzia, al suo spegnersi lontana dai suoi affetti più cari.