Salute, Benessere, Scelte individuali
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Sono passati più di centocinquanta anni da quando Ivan Turgenev, in Padri e figli, faceva pronunciare al giovane nichilista Bazarof la frase rivolta al coetaneo Arkady: “Tuo padre é un buon diavolo, ma è un uomo a riposo, la sua canzone è finita”.
Il papà di Arkady aveva circa cinquanta anni, “oramai” solamente un ufficiale in pensione e quindi in attesa dell’imminente finale di dipartita!
Da allora l’umanità, persino quella schiacciata dalla storia e dalla finanza di rapina, ha guadagnato anni di vita, seppure con un finale intriso di fragilità di vario tipo. Oserei aggiungere che, malgrado la frase alquanto irrispettosa di Bazarof, in fondo la considerazione verso gli anziani, magari limitata ai propri anziani in casa, si è in qualche modo mantenuta nei decenni a seguire.
A parte vari tragici incidenti di percorso come quelli che hanno visto protagonisti Pietro Maso, Loretta Graneri e altri figli carnefici dei genitori, ci metto dentro il film “Parenti serpenti” di Mario Monicelli, un certo rispetto per genitori e familiari anziani si è conservato.
Ora si annuncia all’orizzonte una nube che porta qualcosa di nuovo, di inquietante.
“Ho passato qualche ora, sere fa, ad ascoltare un avvocato esperto di diritto di famiglia che mi raccontava di come siano sempre più numerosi i casi di genitori che si rivolgono al suo studio per difendersi dai figli”.
È Concita De Gregorio ad averlo scritto il 24 agosto su Repubblica.
“È un fenomeno molto diffuso, tra colleghi noto, ma se ne parla pochissimo: sa, i figli sono figli, il buon nome della famiglia, la vergogna, lo stigma sociale. Spesso sono persone della media o alta borghesia: preferiscono che non si sappia. Poi certo, alcuni casi finiscono in cronaca, esplode la violenza, dei fatti di sangue parlano i giornali. Ma mi creda: è capillare. I figli che pretendono dai genitori soldi, beni, che chiedono l’amministratore di sostegno per controllare le loro spese e contestarle. Arrivano a pretendere l’interdizione. I genitori arrivano spesso insieme, piangono. Specialmente le madri: in qualche modo li giustificano, sono pur sempre i loro figli, ma capiscono che si devono difendere e lo fanno… Dunque, la questione è questa: famiglie benestanti, non necessariamente ricche. Figli adulti, più che maggiorenni, a volte anche trenta-quarantenni, che con determinazione, rabbia, con violenza se non fisica senz’altro psicologica rivendicano il loro diritto ad essere mantenuti, a ereditare in vita dei padri, ad avere case, cose, denaro. Colpisce la sicurezza con cui i giovani si sentono autorizzati ad avere quello che credono spetti loro: io penso che debba trattarsi anche di un’abitudine ad essere accuditi, la nostra generazione si è preoccupata troppo di eliminare le difficoltà che avrebbero potuto incontrare e così facendo li ha indeboliti. Infine, sono diventati violenti. Ma non è solo questo. Non può essere solo questo”.
Sono le parole dell’avvocato con le quali Concita conclude l’allarmante testimonianza.
Pochi giorni fa sul Corriere, una storia forse di segno opposto e parimenti angosciante.
Vede protagonista, intervistato, il figlio di Lando Buzzanca, anni 88. Non amo il gossip per cui mi sono limitato a leggere l’articolo, quasi una pagina intera, senza cercare notizie dettagliate altrove. In poche parole, il figlio teme che lo stato di salute mentale dell’attore non gli consenta di fare certi investimenti che ruotano nell’ambito dell’attività lavorativa della più giovane e intraprendente attuale compagna. Sembra peraltro che Buzzanca, già da tempo malato di una forma di demenza oramai avanzata, non sia in grado di capire il linguaggio comune. Tecnicamente si tratta di una componente nota a noi della famiglia dei neurologi da quasi due secoli: si chiama afasia di Wernicke ed è dovuta ad un malfunzionamento legato a vari tipi di lesioni (anche degenerative) che coinvolgono un’area del lobo temporale sinistro (anche nei due terzi dei mancini). Non so, ovvio, se le capacità di critica e di giudizio e il resto del bagaglio cognitivo dell’attore siano traballanti. È una delle storie dei nostri giorni.
Il figlio, breve chiosa, parla di “demenza senile”, demenza che non esiste. Chissà quando ce ne libereremo!
Come neurologo dei vecchi ho dovuto impegnarmi diverse volte in battaglie, anche giudiziarie nel ruolo di perito di parte, difendendo anziani e anziane alle prese con le smanie di familiari, spesso figli ingordi e poco riconoscenti oppure sinceramente preoccupati delle sorti economiche e di salute del congiunto malato. Ho avuto a che fare con figli che presumevano, a torto o a ragione, che il padre stesse dilapidando il patrimonio con la più giovane badante, con l’amica di turno.
Tra i tanti, mi sono occupato del signor Francesco, anni 83 ben portati, accusato dai due figli di essersi appropriato dell’eredità della moglie (nonché madre dei due!), deceduta pochi mesi prima. Ha chiesto, come prassi, il giudice: “All’epoca della registrazione del testamento, la signora era in grado di intendere e di volere”?
Il signor Francesco mi è sembrata persona mite oltre che sano di mente e intelletto, in possesso di un solido senso etico. Molto segnato da questi risvolti imprevisti nell’epilogo della sua vita, non riusciva a capacitarsi di questa denuncia. Ancora rattristato per la perdita della compagna di una vita che aveva scrupolosamente e amorevolmente seguito nelle peripezie dolenti di una malattia di Alzheimer. Ho esaminato i suoi documenti; alcune persone che lo conoscevano – e che conoscevo - mi hanno descritto l’amara vita di caregiver solitario che ha condotto in quei lunghi anni. Appariva sinceramente addolorato e stupito da questa azione legale.
“Ma a chi vuole che lasci i miei averi quando me ne andrò, dottore? Ai miei figli! Non vogliono parlarmi, spiegarmi, lasciarmi spiegare. Non capisco”.
Ha vinto la causa. Non so come avrà disposto in testamento l’assegnazione dei suoi averi.
Di segno opposto la vicenda del signor Nereo, circa la stessa età, uno grande e grosso abituato a comandare in casa e fuori, assolutamente incapace di capire di essere preda di una demenza che gli aveva tarpato le ali del senso critico, di ciò che è bene e di ciò che rappresentiamo come male. Personalità e mancata coscienza di malattia hanno collaborato a complicare tutto (qui) .
Non conosco come sia finita ma, almeno fin dove sono arrivato a seguire lui e i familiari preoccupati, aveva già dilapidato un bel po’ di soldi, miracolosamente comparsi nel conto corrente della giovane amica straniera.
Un altro Francesco, invece, a 80 anni era assolutamente in ottime condizioni fisiche e cognitive, voleva godersi gli ultimi spicciolo di vita fino a quel momento non priva di sacrifici.
Una piccola fortuna costruita dal nulla lavorando sodo era stata già consegnata in vita ai figli, ma evidentemente non bastava: loro volevano tutto e subito! Mite qual era, il signor Francesco ha accettato con umiltà che i figli lo conducessero da me per farsi valutare. Hanno assistito alla visita rendendosi conto dell’ottimo livello mentale del padre al colloquio e ai test cognitivi. Ho parlato a tutti e tre, poi separatamente col signor Francesco da solo e infine con gli imbestialiti figli.
Penso che mi abbiano odiato, intrisi nel sangue dei loro presunti diritti, in un loro mondo etico che non concepisce il senso e la necessità dei doveri.
Lo avranno portato altrove, penso, chissà se avranno trovato qualcuno che ha supportato le loro tesi violente e scandalose.
Ho visto cose che voi umani… direbbe il protagonista di “Blade runner”. In tre vicende ho visto tre fratelli maschi avere le stesse reazioni, trarre le medesime conclusioni:
“La mamma la vedo davvero bene, abbiamo parlato a lungo, è lucida”.
“Ma dovresti fermarti qui nel tardo pomeriggio o, ancora peggio, di notte! Diventa mister Hyde”!
“Sai che non posso per il lavoro e la distanza da qui…. Mah. Per me la pazza sei tu”!
Ecco come una figlia viene incoronata nel ruolo di sfortunata caregiver.
In altre storie le protagoniste erano generose mogli separate che tornavano ad accudire mariti finiti in solitudine, malati di demenza.
L’umanità ha forse bisogno di lezioni di gentilezza e di etica. Mi piace ripetere, quando capita, che “l’etica viene prima della legge”.
Se possedessi più cultura certamente troverei fini citazioni da letture recenti e storiche sull’ingratitudine umana. E non ho, purtroppo, le conoscenze utili a comprendere pienamente se la proposta di insegnamento dell’Educazione Civica nelle scuole sia uno strumento valido.
Mi fa riflettere a tal proposito un argomentato articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del| 14 luglio, provocatorio già sin dal titolo: “Non sappiamo più educare i giovani (solo compiacerli)”.
“Ingraziarsi i giovani è divenuta da decenni la parola d’ordine di un Occidente sempre più vecchio e sempre più preso dalla paura di esserlo. Compiacere i giovani è divenuto così il primo comandamento di chiunque intenda apparire al passo dei tempi … che si farebbe impalare pur di non chiudere una discoteca da diecimila decibel.
Ma i giovani non dovrebbero essere adulati. Adularli, compiacerli, è il modo più sicuro per rovinarli: perché così li si rinchiude nell’informe in cui essi ancora consistono e dal quale invece devono essere aiutati a uscire, «e-ducati» (condotti fuori: ah la folgorante perspicuità della lingua latina!)… Disgraziatamente è proprio ciò che le nostre società, a cominciare dalle famiglie, non riescono più a fare. Non sappiamo educare le nuove generazioni, dare loro una misura e un retroterra, e quindi un orizzonte di senso per l’oggi e per il domani; riempire di un contenuto positivo di attesa e di speranza gli anni d’apprendistato che esse vivono.
Ed è per l’appunto su questo fronte che anche la scuola italiana registra il suo fallimento più visibile…cioè formare una coscienza, introiettare un limite, plasmare un carattere, sapere che cosa è bene e che cosa è male. Una scuola che coltiva una simile illusione, che crede che la chiave dell’educazione sia l’insegnamento di «democrazia» è una scuola che in realtà ha smarrito il senso della propria natura e con essa la propria anima. Che rimane una sola: l’istruzione.
La scuola è nata per istruire e dalla convinzione che l’istruzione in quanto tale abbia un potere educativo, che essa in quanto tale incivilisce. Solo gli sciocchi o i demagoghi, infatti, credono che l’istruzione consista nell’assimilare un insieme di nozioni e basta. È invece tutt’altro.
Istruirsi, in realtà, vuol dire attraverso le nozioni appropriarsi di un retaggio. Vuol dire cioè stabilire un legame con quanto è stato pensato, conosciuto, scritto e fatto d’importante prima di noi e quindi farlo nostro. Istruzione, infine, vuol dire essere accompagnati nell’impresa da un maestro (ogni insegnante deve sforzarsi di esserlo).
È Leopardi, sono la storia e la matematica che insegnano ad essere cittadini di una patria libera e a rispettare gli altri, non l’educazione civica.
La scuola, invece di opporsi all’ideologia sociale dominante fondata per intero sulla delegittimazione del passato, sull’attacco a tutti i suoi valori, sul discredito di ogni tradizione, accredita l’idea che nella scuola stessa ciò che davvero conta — e deve contare! — siano ormai solo le «competenze»…. il tutto, come è ovvio, per l’entusiastico impulso di burocrazie senza principi e di ministri dell’istruzione di nessun peso mossi solo dallo spasmodico desiderio di far parlare bene di sé i giornali dell’indomani”.
Nota a margine
Il gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini, eseguito tra il 1618 e il 1619 e conservato nella Galleria Borghese, ha una potente forza simbolica includendo tre generazioni, Enea, Anchise e Ascanio mentre fuggono da Troia… Il vecchio Anchise, seppur timoroso, evidentemente fragile nel fisico, sostiene amorevolmente il simbolo della patria abbandonata; Enea è forte, virile, al centro del destino, mentre il piccolo Ascanio sembra spaventato e nello stesso tempo speranzoso, proprio come il nonno. Generazioni che si rispettano.
È tra le parole (valori!) scomparse, le ho citate diverse volte su questo sito. Il rispetto non ha una data di scadenza.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
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In questa diapositiva che, con la genialità e la benevolenza di Altan mi accompagna da un bel po’ di anni, è impressa la sintesi dell’argomento di cui scriverò oggi, ed è un tema certamente non nuovo nei miei articoli che trovate su questo sito.
In pieno lockdown, era marzo del 2020, si è (forse) completato un ciclo di malattie da farmaci, tutto al femminile e in un’unica famiglia allargata.
Ho pensato di condensare tutte le mie risposte dettagliate scritte a penna sin dal lontano 1974, partendo dalla mia esperienza reale con diversi componenti della famiglia in questione, e di farlo attraverso una lettera indirizzata all’ultima vittima, alla signora Anna Lamento, che mi aveva contattato agli inizi dello scorso anno pre-pandemia per suoi problemi neurologici di salute. L’avevo conosciuta quando aveva accompagnato nell’ambulatorio della Neurologia di Udine sua nonna materna, esattamente nel 1974.
"Gentile Signora, desidero mettere su carta ancora una volta la vostra storia ora che la Sua vicenda di apparente malattia di Parkinson sembra per fortuna tramontata dopo il nostro incontro nel gennaio dello scorso anno.
Erano passati neanche due mesi da quella visita e, dalle sue parole per telefono (causa lockdown), confortate dalle immagini che Lei mi aveva inviato via WhatsApp, ho potuto concludere che con la sospensione delle bustine di Geffer, che Lei aveva assunto per almeno un anno, sono lentamente spariti i suoi terribili sintomi di “mummificazione”. Una parola pesante, mummificazione, ma ne abbiamo discusso, quasi sorridendo del termine che tante volte mi è toccato usare in questo territorio della fragilità fatto di persone anziane, di farmaci che se la prendono con la dopamina, proprio perché ero molto fiducioso che il suo rallentamento motorio, quel suo sentirsi legata, rigida nei movimenti, imbalsamata nella mimica facciale e persino nella parola, tutto questo, insomma, sarebbe svanito riducendo velocemente il farmaco fino a sospenderlo.
Lei era tornata ad essere quella mia coetanea con movimenti fluidi e giovanili che circa 47 anni fa condusse nell’ambulatorio di Neurologia di Udine sua nonna.
Ricorderà che la nonna aveva sintomi simili ai suoi di un anno fa; che eravate convinti in famiglia che avesse la malattia di Parkinson anche se non tremava (bravi!). Voi la chiamavate morbo, parola che non mi piaceva neanche allora. La giustificavate “con l’età”, circa 80 anni.
Ricucendo la storia, con un po’ di fatica (ma perché non vi preparate prima quando andate dal medico? Come a scuola!) ho scoperto che assumeva da circa un anno due o tre compresse di Vesalium al giorno per “problemi di stomaco”. Questo farmaco contiene come “ansiolitico”, purtroppo, quella carogna di Aloperidolo (si chiamava, in quei tempi senza generici, Serenase e Haldol, farmaco che sopravvive ancora nelle prescrizioni, malgrado tutto) noto per creare parkinsonismi ed altro ancora. Non è, dunque, un banale ansiolitico fatto di Valium o di una delle sue sorelle denominate benzodiazepine. Non che Valium & C. “facciano bene” ma almeno non creano quei problemi!
Pensi, qualche mente illuminata ha sospeso in Italia il Vesalium nel 1993!
Rammento ancora una sensazione spiacevole alla fine della mia visita: apparivate allarmate, vi si leggeva negli sguardi con cui vi interrogavate silenziosamente. Sembrava che Lei avrebbe preferito che la nonna avesse una “vera” malattia di Parkinson piuttosto che affrontare, pur col mio educato e collaborativo resoconto scritto, la reazione inviperita che presagivate da parte della vostra dottoressa di fronte alla possibilità che il responsabile di quei sintomi fosse un farmaco consigliato, e a lungo, da lei.
Della reazione della collega accennerò dopo, tuttavia rievoco con gioia, e sarà stato così anche per Lei, che la nonna si rimise in sesto in due-tre mesi con la graduale riduzione e poi la sospensione del farmaco, nel frattempo aiutati in questo percorso da una gastroscopia, un farmaco innocente ed una dieta idonea. La nonna tornò a curare l’orto (di cui ricordo gli omaggi!) e a usare la bicicletta. La sua morte, un bel po’ di anni dopo, nel sonno, fu accettata serenamente da voi tutti.
Verso il 1985 Lei arrivò in ambulatorio “da me” (in Neurologia, nell’attività ambulatoriale pubblica cercavamo di sostenere le preferenze dei cittadini, che quella volta non si chiamavano utenti…), stavolta con la sorella più giovane della nonna, l’ultima di sei figli: a causa di una depressione che sembrava legata proprio alla morte della sorella a cui era molto legata, la vostra dottoressa, sempre quella, le aveva dato Deanxit.
Ha il profumo dell’ansiolitico nel nome, ma anche questo non contiene un “normale” ansiolitico ma un amico dell’Aloperidolo, insomma un antipsicotico! Anche lei “mummificata” dopo un po’ di mesi di cura.
Nuovamente, mi toccò darvi la speranza che fosse in causa quel farmaco in tutto o in buona parte. Ci furono i soliti sguardi spauriti e qualche commento, stavolta esplicito: “Ma che dirà la dottoressa? Comincerà a gridare come la volta passata e a dire perentoriamente “Bene! Fate quello che vi dice lo specialista anche se io non concordo!”
Finì bene anche quella volta, Lei se lo ricorda. La zia non ebbe bisogno neanche di antidepressivi, tanto contenta era di essere tornata guizzante come prima.
Venne il turno di Sua mamma, nel 1995 aveva l’età mia di adesso, 76 anni, e da circa 10 anni assumeva la Flunarizina (che ha circa sei nomi commerciali, tanto per complicarci la vita, e complicarla ai pazienti dei medici della fretta), consigliata dalla dottoressa per capogiri non meglio precisati. Quella volta la prassi di riduzione e poi di sospensione del farmaco apportò solo qualche miglioramento. Ci trovavamo, quindi, in una condizione che vi ho riassunto anche in uno scritto che avevo preparato da tempo per i pazienti:
• la comparsa di parkinsonismo (o di altre espressioni cosiddette extrapiramidali, si chiamano EPS) dipende da diverse variabili. Può manifestarsi, ad esempio, dopo poche settimane o mesi per gli antipsicotici tradizionale (Aloperidolo & C.) e dopo alcuni mesi (4-9) per Flunarizina e simili. Tuttavia, non sono per nulla rari i casi a sviluppo clinico precoce;
• nella maggioranza dei casi la persona con parkinsonismo da farmaci, dopo settimane o mesi dalla sospensione del farmaco incriminato, torna alla normalità;
• in una piccola percentuale, il farmaco può rivelare la presenza di una malattia di Parkinson o di un parkinsonismo latente (ovvero, che si sarebbero sviluppati, a livello di sintomi, anni dopo). In questi casi possiamo assistere, dopo la sospensione del farmaco incriminato, ad una regressione parziale della sintomatologia parkinsoniana e, nel tempo, alla sua nuova progressione. Il farmaco incriminato non ha fatto altro che “anticipare”, slatentizzare, l’inizio clinico della sintomatologia parkinsoniana in un soggetto predisposto;
• oppure può accadere che, a distanza di qualche anno dalla regressione totale del parkinsonismo, questo ricompaia, stavolta senza alcun rapporto con farmaci sospetti. Anche in questo caso è suggestiva l’ipotesi che il farmaco abbia influito sulla predisposizione di quel paziente alla malattia di Parkinson o ad un parkinsonismo e che, anche in questo caso, abbia “anticipato” l’inizio biologico e clinico della malattia;
• appare ovvia l’affermazione che questi farmaci – di cui vi allego l’elenco - possono aggravare il quadro clinico di una malattia di Parkinson o di un parkinsonismo preesistenti. Non vanno pertanto proposti!
Per qualche anno la mamma rispose abbastanza bene ai farmaci che in un modo o nell’altro regalano dopamina a quel sistema funzionale senza incidere, purtroppo, sulla progressiva morte cellulare dei suoi neuroni. Poi ci fu una rovinosa caduta. Ricordo che la visitai in ortopedia: era in preda a un Delirium, uno stato “confusionale” eternamente e attualmente ancora sottovalutato e purtroppo frequente, a volte mortale. La mamma ne morì, infatti, complice uno scompenso cardiaco fatale.
Siamo nel 2000, l’anno in cui sono andato in pensione apparente (ho continuato a collaborare col reparto per circa 6 anni): stavolta è entrata in campo Sua cognata che, dopo avere ingurgitato per qualche mese (tre mesi?) una compressa di Maveral, uno dei primi farmaci ad agire sulla serotonina con azione antidepressiva, un parente stretto del Prozac, aveva iniziato non solo a rallentare il suo movimento, un po’ come è successo a voi, ma anche “a non stare ferma”, a dondolarsi di continuo sulle gambe, a sentirsi “ansiosa dentro”, ad alzarsi e sedersi dalla poltrona senza sosta per ore. Stavolta era in campo un medico di fiducia maschio, abbastanza testardo nell’insistere su quel farmaco e che con tutta evidenza non capiva molto di parkinsonismo e, soprattutto, di acatisia. Si chiama così quella condizione (qui) in Perlungavita.it
Solita procedura di lenta sospensione, qualche blanda benzodiazepina, e nuovamente il miracolo. Anche stavolta con dissolvimento della depressione, come se lo stress della sofferenza provata per mesi e l’essere tornata a vivere in condizioni migliori avesse “vaccinato” la cognata.
Vado ai giorni nostri.
Apparentemente incolpevole (“che vuoi che facciano due bustine al giorno contro certe difficoltà digestive!”), il Suo Geffer contiene Metoclopramide, ovvero il più famoso Plasil, che è un “derivato” di quello scaffale che comprende i suoi fratelli antipsicotici, come l’Aloperidolo.
Non ho notizie della reazione della Sua dottoressa alla buona novella della Sua guarigione. Nel gennaio del 2020, l’ultima volta in cui ci siamo visti in presenza, mi aveva detto che andava in pensione e che avreste finalmente cambiato medico di famiglia.
Si avvicina il 25 novembre, si tornerà a discutere di femminicidio violento, il fenomeno non è regredito, anzi.
Non si parlerà certamente del femminicidio nascosto, colpevolmente sottovalutato e taciuto da sempre, quello che capita alle “vecchie” per responsabilità di alcuni farmaci assunti in maniera inappropriata. È un argomento complesso, indiscutibilmente, con tutte quei nomi da imparare, con le innumerevoli controindicazioni e avvertenze da conoscere e studiare sui bugiardini.
“C’è pure scritto: in caso di… rivolgiti al tuo medico o al farmacista di fiducia. Perché allora dobbiamo preoccuparci noi semplici cittadini?”
Un pieno di ipocrisia, un passaggio di patata bollente da una mano atterrita all’altra: davvero si può pensare, oggi, che i medici o i farmacisti possano sapere “tutto” di questa fantasmagorica e complessa attrezzatura di molecole che la scienza ci ha fornito negli ultimi decenni?
- Autore/rice Francesca Carpenedo
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La salute- così come definita dall'OMS- non significa assenza di malattia ma si concretizza in quello stato complessivo di benessere che comprende la sfera fisica, mentale e sociale (1)
La diffusione
Il rapporto globale sull’ageismo pubblicato dall’OMS si basa, tra le altre, su un’indagine sistematica, condotta nel 2020, della letteratura internazionale esistente in ambito sanitario ed economico e coinvolge 422 articoli di 45 Paesi diversi.
Nonostante questo, la mancanza di indicatori validati e univoci, impedisce di pervenire a conclusioni certe e di misurare la forza del legame tra ageismo e effetti sulla salute delle persone e sull’economia dei diversi Paesi, o addirittura di imputare all’ageismo il manifestarsi di determinate problematiche legate alla salute.
Ciò non di meno il rapporto rimane un documento importante per il suo approccio globale al fenomeno e perché stabilisce con certezza l’esistenza di una correlazione tra ageismo e salute e tra ageismo ed economia (2).
Come già accennato, una parte importante del rapporto riguarda l’indagine sull’ageismo nella sua manifestazione istituzionale, ambito particolarmente sensibile vuoi per la radicalizzazione di abitudini e comportamenti discriminatori difficili da eliminare, vuoi per la forma spesso inconscia che riveste (3).
Tra le istituzioni che compongono l’ambiente che ci circonda, un’attenzione particolare va riservata al SETTORE SANITARIO dove, come si è tristemente potuto verificare in questi ultimi due anni, l’ageismo può indirizzare la scelta tra curare e non curare.
Il “razionamento delle cure” deciso sulla base dell’età è infatti pratica consolidata praticamente ovunque e si manifesta in diversi ambiti; dalle decisioni di non sottoporre a particolari trattamenti – come ad esempio la dialisi, o la respirazione assistita tramite ventilatori, o ancora gli interventi chirurgici – alla decisione di non includere le persone oltre i 65 anni nei trial farmacologici – come ad esempio i farmaci destinati alla cura del morbo di Parkinson (4).
Vi è invece incertezza sull’incidenza di comportamenti ageisti da parte di medici e personale sanitario non medico, anche se il fenomeno è chiaramente percepito. Allo stesso modo il personale medico psichiatrico sembra non essere sufficientemente attrezzato o attento quando si tratta di diagnosi di malattie mentali nelle persone anziane, spesso manifestando attitudini negative e riluttanza a lavorare con questo gruppo anagrafico.
La situazione è perfino peggiore quando si passi a valutare comportamenti ageisti all’interno delle strutture residenziali. I pochi studi esistenti – principalmente in Canada, Israele e Australia – ne sottolineano evidenti manifestazioni sotto forma di linguaggio infantile e comportamento condiscendente da parte degli operatori, mancanza di diagnosi e controlli medici accurati, abuso nella somministrazione di farmaci, scarsa o nulla considerazione per i bisogni e i desideri dei residenti o, infine, poca qualità negli scarsi servizi disponibili.
Le indagini condotte hanno dimostrato una certa prevalenza del fenomeno anche in molti settori (5) del MONDO DEL LAVORO e in tutte le fasi della vita lavorativa, dal momento dell’assunzione – quando ai lavoratori “anziani” vengono preferiti i giovani – via via lungo tutto il percorso lavorativo – con minori occasioni di aggiornamento, ma anche con valutazioni meno favorevoli rispetto ai lavoratori più giovani – fino al momento del pensionamento. Questa attitudine influisce negativamente sui lavoratori favorendo un’uscita prematura dal mercato del lavoro.
Anche l’importantissimo settore della COMUNICAZIONE è intriso di messaggi ageisti. La rappresentazione dell’età adulta e anziana in televisione e nei social media è cruciale perché in grado di influenzare il nostro modo di pensare alla terza età e, di conseguenza il nostro comportamento nei confronti loro e di noi stessi.
Uno studio condotto in Europa e Nord America sulle pubblicità nelle riviste e in televisione tra il 1980 ed il 2020 ha dimostrato che le persone anziane in questo settore sono sottorappresentate. Ma mentre fino agli anni ‘90 alla scarsa rappresentazione si accompagnava una stereotipizzazione negativa, da quel momento in poi si assiste ad una variazione nella narrazione delle persone anziane: da soggetti vulnerabili, fragili e in generale poco attraenti, si passa alla presentazione di una categoria attiva, che si gode il tempo libero e che conduce uno stile di vita sano. (6) Questo fatto tuttavia può nascondere una forma di ageismo più sottile e subdola: può cioè indurre a pensare che l’invecchiamento in salute sia una responsabilità dell’individuo e che le diseguaglianze e le inequità nell’accesso ai servizi non siano fattori determinanti. In generale però bisogna sottolineare che la rappresentazione delle persone anziane nei media varia in modo consistente da Paese a Paese.
Recentemente le ricerche si sono concentrate sui social media – Twitter e Facebook in particolare – dove la comunicazione è pubblica e non filtrata, riflettendo in questo modo il sentire reale degli individui. I risultati mostrano la prevalenza dell’utilizzo di un linguaggio che rafforza una rappresentazione stereotipata delle persone anziane come deboli, vulnerabili e parte di un gruppo omogeneo nella fragilità, disconoscendo in questo modo il fatto che ci sono anziani che effettivamente soffrono una situazione di reale svantaggio (economico, sanitario, ecc.) ma che ci sono altrettante persone anziane in piena salute ed efficienza mentale che ancora contribuiscono in varie forme alla crescita della propria comunità.
Questi sono solo alcuni tra gli esempi più eclatanti di ambiti sociali dove l’incidenza di comportamenti ageisti è componente fondamentale nei rapporti con le persone anziane. Ma l’elenco è lungo: basti pensare al nostro sistema LEGISLATIVO che – intersecandosi con l’ageismo sanitario e lavorativo – impone limiti di età per i trapianti di organi (indipendentemente dalle condizioni generali del paziente) o prevede la possibilità di pensionamenti forzati. O ancora al mondo IMMOBILIARE dove frequentemente si riscontrano condizioni di affitto diverse in relazione all’età degli inquilini o dei possibili acquirenti. Oppure al mondo della TECNOLOGIA, dove l’ageismo – spesso autoinflitto – provoca la scarsa alfabetizzazione digitale degli ultra 65enni che, di conseguenza non vengono inclusi nei focus group per lo sviluppo del design e di nuovi programmi. Attitudini ageiste di riscontrano anche nel modo in cui i DATI vengono raccolti e le STATISTICHE vengono predisposte. In genere infatti i dati statistici spesso non includono il gruppo di età superiore ai 65 anni o, se lo fanno, lo considerano come un gruppo omogeneo arrivando a includere un range fino a 40 anni e oltre. Basterebbe pensare all’aumento degli ultra-centenari per constatare la necessità di disaggregare il macro-gruppo. E infine vorrei menzionare il mondo FINANZIARIO, di cui ancora troppo poco si parla. Lo studio dell’OMS rileva la generale difficoltà, in particolare nei Paesi a medio-basso reddito, per le persone anziane di accedere a strumenti come i mutui e i crediti in generale. La situazione si fa ancora più critica nel caso delle donne anziane, già svantaggiate da un sistema pensionistico che, in alcuni Paesi, non riconosce le pensioni “sociali”. Nei Paesi industrializzati viceversa, sono gli strumenti finanziari di investimento e gli strumenti assicurativi quelli dove si rileva una maggiore discriminazione, risultando spesso le persone anziane escluse dalla possibilità di sottoscrizione o soggette a politiche di prezzo differenziate. (7)
In generale il rapporto dell’OMS indica che le diverse forme di ageismo e la loro prevalenza variano nelle diverse zone geografiche, sono più o meno incisive a seconda delle diverse culture e si sono modificate nel tempo, come indicano le tabelle.
L'impatto sulla salute e sul benessere sociale
L’indagine dell’OMS ha rilevato come la consistente presenza di comportamenti ageisti negativi nei confronti delle persone anziane risulti in un forte impatto sulla loro SALUTE, sulla qualità e sull’aspettativa di vita. La correlazione è ancora più forte nei casi di ageismo auto-inflitto, quando si manifesta nei confronti di persone che soffrono altri svantaggi – ad esempio quello economico – o che vivono in condizioni di basso sviluppo culturale.
Questi effetti negativi sulla salute – fisica e mentale – si manifestano in tutti i Paesi oggetto di studio e presentano una tendenza all’incremento, probabilmente legata anche alle frequenti crisi economiche che oramai si verificano periodicamente e interessano una vasta parte del pianeta.
Scendendo nel dettaglio, il rapporto indica che le persone che subiscono discriminazioni sulla base dell’età hanno una maggiore probabilità di incorrere in una morte prematura, una minore probabilità di guarigione da eventi acuti e, in linea di massima, intraprendono abitudini di vita non corrette – come ad esempio l’aumento nel consumo di tabacco e alcool.
L’abuso e l’uso improprio di farmaci, o la loro errata prescrizione dovuta alla scarsa attenzione riservata al paziente anziano sono anch’essi fonte di eventi avversi che conducono a ricoveri altrimenti evitabili o addirittura a esiti fatali.
L’ageismo è anche associato all’insorgere o acutizzarsi di problemi legati alla salute mentale, come la depressione. In base a stime mondiali per l’anno 2015, si calcola che approssimativamente 6.33 milioni di casi di depressione siano attribuibili a forme di discriminazione (8).
Allo stesso modo la discriminazione è in grado di provocare o acutizzare il processo di decadimento cognitivo. In questo ambito gli studi sono numerosi e in tutti si conclude che quando una persona anziana viene esposta a stereotipi negativi, indipendentemente dalla sua consapevolezza, la capacità mnemonica e l’abilità cognitiva diminuiscono, fenomeno questo a cui viene dato il nome di Stereotype Threat (minaccia dello stereotipo) (9).
Il discorso è analogo quando si consideri l’impatto dell’ageismo sul BENESSERE SOCIALE (10) inteso come percezione di un complesso di indicatori coma la qualità di vita, il grado di isolamento ed esclusione, la sessualità, la paura di essere oggetto di potenziali crimini e il pericolo di cadere vittime di abusi e maltrattamenti.
Gli studi e gli articoli presi in considerazione per l’indagine sistematica indicano in modo unanime come le persone anziane abbiano una percezione negativa di tutti gli indicatori sopra riportati:
- Qualità della vita – tutti i 29 studi sull’argomento rilevano la percezione da parte degli intervistati – di età compresa tra i 60 e i 100 anni – di una insoddisfacente qualità di vita, dovuta principalmente a considerazioni legate all’invecchiamento e ai problemi di salute che ad esso si associano;
- Isolamento ed esclusione – è una condizione comune tra le persone anziane e viene alimentata da tre fattori diversi: la sensazione di essere non desiderati o socialmente rifiutati; l’internalizzazione di stereotipi negativi riguardo l’invecchiamento ( i.e. la vecchiaia è il tempo dell’isolamento e dell’abbandono della partecipazione sociale); la presenza di usi, consuetudini e leggi ageiste (i.e. il pensionamento forzato per certe categorie di lavoratori o, ancora un ambiente circostante non age-friendly con barriere architettoniche e trasporti pubblici inesistenti o poco accessibili)
- Sessualità – nonostante sia ormai riconosciuto che la vita sessuale rimane una componente della nostra vita importante a tutte le età, tuttora l’argomento rimane tabù in molti Paesi (soprattutto nel continente Africano e nei Paesi del Sud America) o viene sottovalutato nei Paesi più industrializzati, dove il comportamento sessuale viene associato unicamente alle pratiche tradizionali ed eterosessuali. Ne risulta che le persone spesso interiorizzano l’aspettativa negativa riguardo alle proprie capacità di performance in età anziana;
- Paura del crimine – l’ageismo è in grado di influenzare il modo in cui le forze dell’ordine ed il sistema giudiziario dedicano attenzione alle denunce e alle richieste di intervento da parte delle persone anziane o trattando con scarsa attenzione le loro richieste di aiuto o, viceversa, riportando in modo sproporzionato e sensazionalistico i crimini che li riguardano, alimentando in questo modo la paura di essere vittime preferenziali
- Abusi e maltrattamenti – l’ageismo può anche determinare l’aumento del rischio di abusi sulle persone anziane nelle sue varie forme. Un recente sondaggio mondiale infatti indica che 1 anziano su 6 riporta eventi abusanti nei suoi confronti.
SULL’ECONOMIA
Nonostante le evidenze siano molto limitate, è possibile affermare una correlazione indiretta tra ageismo e benessere economico tanto individuale quanto a livello collettivo.
Le stime dei costi complessivi – sulla salute e sul benessere sociale degli individui anziani – dell’ageismo sono cruciali:
- Perché ne definiscono il peso sulla società in termini economici;
- Perché sono in grado di influenzare la programmazione politica e l’allocazione delle risorse per la ricerca;
- Perché sono utili nel comprendere come i problemi legati alla salute e al benessere sociale sono in grado di rallentare lo sviluppo di un Paese o di una comunità.
A LIVELLO INDIVIDUALE già si è avuto modo di vedere come l’ageismo nel mercato del lavoro sia in grado di influenzare la vita lavorativa e indurre un’uscita prematura dal mercato del lavoro, comportando uno svantaggio economico per la vittima che si troverà esposta ad un maggior grado di povertà o di insicurezza finanziaria. Ulteriore conseguenza personale, come già evidenziato, è un peggioramento delle condizioni di salute fisiche (in termini di declino cognitivo) e mentali (con il possibile insorgere di stati depressivi), fatto che comporta un aumento della dipendenza sul sistema del welfare nazionale.
Sebbene esistano pochi studi sugli effetti dell’ageismo sull’ECONOMIA NAZIONALE, tutti portano alla conclusione che i costi sono molto elevati e che una riduzione del fenomeno sul mercato del lavoro e nel sistema sanitario porterebbero ad indiscussi vantaggi economici. Ad esempio uno studio condotto negli Stati Uniti ha dimostrato come, in una società che impiega 10.000 persone, il demansionamento di lavoratori dovuto a motivi anagrafici abbia portato ad un aumento di 5.000 giorni di assenza ingiustificata e ad una perdita di 600.000 dollari in termini di minori salari pagati. Uno studio australiano ha invece stimato che un aumento del 5% nell’impiego di lavoratori over 50 comporterebbe un beneficio all’economia nazionale di 48 miliardi di dollari australiani (11).
Ma, come si è detto, i costi dell’ageismo si riflettono anche sulla spesa sanitaria nazionale. Nel 2020 gli Stati Uniti hanno condotto il primo studio nazionale sulle conseguenze dell’ageismo sull’economia del Paese (12). Nel corso di un anno si sono cioè calcolate le spese sanitarie conseguenti a comportamenti ageisti subiti da persone di 60 anni e oltre con riferimento alle 8 principali voci dove maggiore è la spesa sanitaria, e cioè: malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche, problemi all’apparato muscolare, ferite, diabete mellito, problemi sanitari derivanti dal fumo, disordini mentali e malattie non trasmissibili. Lo studio ha verificato che per ogni 7 dollari spesi 1 dollaro (pari a 63 miliardi di dollari) è imputabile a problemi sanitari causati da comportamenti ageisti!
E’ indubbio, a questo punto, come l’ageismo possa a tutti gli effetti essere considerato – oltre che un’istanza legata al godimento dei diritti umani – anche un problema di salute pubblica, in grado di pesare in modo consistente sulle finanze nazionali. Diventa quindi importante per il governi nazionali, non solo riconoscerne l’esistenza e darne una dimensione effettiva riguardo a diffusione ecosti, ma proporre dei programmi di sensibilizzazione e prevenzione che partano dalla formazione primaria e propongano una lettura nuova dell’essere umano non più come somma di fasi distinte della vita ma come un unico continuo con diverse esigenze, caratteristiche e possibilità.
(continua…)
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Note:
(1) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 3, pag. 48
(2) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 3, Box 3.1, pag. 50
(3) Per “istituzione” si intende il contesto sociale in cui tutti ci troviamo a vivere: sono le leggi, le regole e le norme sociali, le politiche e le pratiche adottate dalla comunità
(4) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 2, pag. 23
(5) Tra cui il commercio, i servizi contabili e il settore turistico. The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 2, pag. 26
(6) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 2, pag. 27
(7) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 2, pag. 30
(8) Chang ES, Kannoth S, Levy S, Wang SY, Lee JE, Levy BR. Global reach of ageism on older persons’ health: a systematic review. PLOS ONE. 2020;15(1):e0220857.
https://doi.org/10.1371/journal.pone.0220857 .
(9) Lamont RA, Swift HJ, Abrams D. A review and meta-analysis of age-based stereotype threat: negative stereotypes, not facts, do the damage. Psychol Aging. 2015;30(1):180–93.
https://doi.org/10.1037/a0038586
(10) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 3, pag. 52
(11) The Global Report on Ageism, Geneva, World Health Organization, 2021: Chapter 3, pag. 56
(12) Levy BR, Slade MD, Chang ES, Kannoth S, Wang SY. Ageism amplifies cost and prevalence of health conditions. Gerontologist. 2020;60(1):174–81.
https://doi.org/10.1093/geront/gny131.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
C’è un tempo perfetto per fare silenzio
C’è un tempo perfetto per fare silenzio
Guardare il passaggio del sole d’estate
E saper raccontare ai nostri bambini
quando è l’ora muta delle fate
Ivano Fossati (C’è tempo da Lampo Viaggiatore)
Viviamo nel tempo del rumore e il rumore ha creato una dipendenza.
Il silenzio è sotto attacco, in una società sempre più rumorosa ed irrispettosa che ritiene il silenzio semplicemente un’assenza di suoni o di vita e lo dimostra urlando in treno, per strada, ovunque, utilizzando suonerie di cellulari che strimpellano offesa al senso del pudore oltre che macerare i timpani.
La distrazione è ormai uno stile di vita, l’intrattenimento è perpetuo, la frenesia e il frastuono sono diventati un’abitudine così che, quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un’anomalia, un tempo morto, una fonte di disagio.
Non sembri un paradosso, ma il silenzio ha il compito di parlarci, deve dirci delle cose, ci svela l’intimo gigantesco timore di doverci soffermare a conoscere meglio noi stesso.
Il silenzio, come la solitudine ( qui) e (qui) , può essere amico; oppure nemico e in questo caso diventa espressione di dolore.
Tuttavia non deve essere necessariamente assoluto e neanche costringerci alla clausura in casa, come scriveva qualche secolo fa Pascal (“La disgrazia degli uomini proviene dal non sapersene stare tranquilli in una camera”): i rumori dei nostri passi solitari in un sentiero, la musica di un ruscello, lo sciabordio delle onde del mare, lo stormire delle fronde degli alberi mosse dal vento ci tengono compagnia e sono rassicuranti. I problemi sorgono quando non riusciamo a gestire il “silenzio interno”, non siamo in grado di disinserire quel pilota automatico che scandisce spasmodicamente le ore delle nostre giornate, lavorative e non, riducendo la capacità di ascolto e di concentrazione sotto la spinta dell’insaziabile dopamina.
Da anni ho rinunciato ad andare ai concerti di musica leggera perché non sopporto più i telefonini dei vicini di posto con la loro luce smagliante rivolta contro i miei occhi: sviano la mia attenzione che dovrebbe essere univoca e rivolta verso le luci del palco, verso i veri protagonisti. Oramai non tollero la gente che li accende ritmicamente perché aspetta messaggi, altrimenti si sente inutile a questo mondo (paura del vuoto della loro vita?) e neanche coloro che parlano e commentano come se fossero a casa propria davanti alla tv: non stanno ascoltando la tenerezza, l’atmosfera, l’intensità di un suono armonico, di una voce, non coltivano le emozioni ma solamente la foga prepotente della dipendenza che li porta a fotografare, registrare con quell’aggeggio che hanno in mano un momento del quale avvertono una qualche forma di fascino da mostrare agli assenti. È certamente una magia diversa dalla mia personale quando ascolto incantato ripromettendomi di usare pezzi del cervello, l’amigdala, la stazione di Bologna che filtra e conserva la memoria delle emozioni, per ripropormi il ricordo delle meraviglie di quegli attimi.
Gli infiltrati rumorosi e luminosi si cominciano a vedere purtroppo anche nelle sale del cinema, persino in quelle per raffinati cultori, qualcuno nei teatri. Sono una deriva di questa società.
“Il silenzio non consiste semplicemente nell’assenza di rumore e di parola, ma è una realtà plurale. C’è un silenzio necessario in certi luoghi e, come tale, imposto, c’è un silenzio inscritto con segni all’interno della scrittura stessa, c’è silenzio fra le note musicali… Accanto a questi silenzi funzionali, ve ne sono altri negativi o addirittura mortiferi: silenzi “che pesano”, che rendono inquieti e spaventano, silenzi opprimenti, abissi di silenzio! Di più, esistono silenzi complici e pieni di viltà, silenzi che dovrebbero essere spezzati dalla forza di un profeta, silenzi di ostilità, che paralizzano la comunicazione, silenzi amari di solitudine sofferta…
Vi sono però silenzi positivi, irrinunciabili. In primo luogo il silenzio rispettoso della parola dell’altro, ma anche il silenzio scelto nella consapevolezza che “c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”. Un silenzio particolare è quello dell’amicizia e dell’amore…Vi è infine il silenzio interiore, nel cuore di ciascuno di noi, per accogliere la presenza degli altri e dell’Altro, Dio. Nel silenzio diventiamo più ricettivi, lunghe ore di silenzio ci aiutano a guardare dentro di noi, ad ascoltare ciò che ci abita in profondità”.
Sono parole di Enzo Bianchi, priore della Comunità Monastica di Bose di quasi dieci anni fa e che ho modificato da la Repubblica.
Ed ecco, a fare compagnia a Enzo Bianchi, una citazione di un gigante, George Orwell, e si trova all’ingresso degli studi della BBC a Londra: Se libertà significa ancora qualcosa, questa è il diritto di dire alle persone ciò che non vogliono sentire.
Mi è servita, diciamolo allora! per avere il coraggio di reagire elegantemente in caso di necessità.
Io mi sono ribellato con un breve manifesto che poi ho provveduto a espandere, ed è diventato questo scritto. È nato dal mio intimo bisogno di reagire, appunto, con la complicità dei teneri e pacifici proprietari-gestori della pensione sulle colline di un’isola del sud Italia, la “mia seconda casa” da almeno trent’anni che ho raggiunto a maggio in vacanza solitaria usando le distanze precauzionali esistenti nei treni a lunga percorrenza – non presenti negli aerei - e standomene mascherato e ben distante dagli agglomerati umani in aliscafo.
Questo posto è un luogo di pace, di naturale silenzio. Vi si arriva, dopo treno, taxi, aliscafo e nuovamente taxi (il mio solito e sgangherato) percorrendo strade alquanto strette e trafficate per trovarne lì altre ancora più minuscole e per questo finalmente inutilizzabili dalle automobili. Sono percorsi silenziosi dove non si respirano gli escrementi gassosi invisibili dei mezzi motorizzati ma sono in funzione piccole vetture elettriche che hanno sostituito pochi decenni fa i muli e gli asini che portavano su per le colline le valigie, quelle che ancora non avevano le attuali comode e funzionali ruotine che invogliano ad avventurarsi nella salita dell’ex mulattiera a piedi.
Cosa è successo a maggio?
In una calda e ventilata mattina di sole sono arrivate in quattro, tutte donne di mezza età, alloggiate nelle stanze accanto alla mia, in comune l’ampia e colorita terrazza rivolta agli ulivi, ai melograni, ai fichi e ai fichi d’India lì accanto e quelli arrampicati nelle quiete colline attorno, con vista su un grosso spicchio di mare dalle alte falesie.
Da subito hanno cominciato a chiamarsi in modo colorito fra di loro, a chiedersi a vicenda in quale valigia fossero i bikini o gli accappatoi, a ricevere telefonate dalle suonerie sguaiate provenienti dai propri cari in terraferma, a cui bisognava raccontare con foga come fosse magnifico il posto (prima del loro arrivo!). Hanno continuato a rumoreggiare nelle piscinette termali accanto alla terrazza e poi nei lettini vicini alle nostre stanze. Malgrado il sole delle 13 e poi quello delle 14 e delle 15, sono rimaste là, inerti davanti al pericolo di scottature e di favoritismi cancerogeni ai nei, imperterrite a chiacchierare a tonalità medio-alta e con qualche risata di eccessiva sonorità, in netto contrasto col silenzio assolato che riposava attorno, il silenzio delle persone e della natura stessa.
Sono corso ai ripari dopo essermi consultato velocemente con gli amici proprietari, persone responsabili, corrette e dolcissime, piuttosto refrattarie e imbarazzate nel comminare rimproveri e divieti, e così ho velocemente preparato un file sul tema dei benefici del silenzio che ho tratto in buona parte dal mio "Malati per forza" adattandolo allo scopo. Franco, uno dei proprietari - l’uomo più sorridente del mondo! - lo ha stampato e affisso in bella vista nella vecchia vetrata che ci accoglie all’arrivo e poi in giro per la pensione.
Fino a quel momento i numerosi cartelli sparsi ovunque che invitavano al “rispetto del silenzio” (due parole d’oro oramai desuete, in via di sparizione) erano stati inutili o invisibili agli occhi spiritati rivolti al loro altrove delle quattro ospiti. Il mio scritto invece deve avere fatto centro, in serata era tornata l’antica amata atmosfera: loro quattro sussurravano, i cellulari si limitavano forse a vibrare ed hanno continuato a comportarsi così anche nei giorni seguenti!
Chissà, forse le avevano colpite alcune parole dello scritto, magari quelle che seguono…
… Il buzzurro queste sensazioni non le percepisce, non le comprende. E pensare che dal silenzio potrebbe trarre benefici a livello psichico e nel corpo intero, affidandosi ad un elemento valido per una corretta prevenzione e curando l’allontanamento nel tempo e nell’intensità dell’immancabile fragilità che sopravviene con l’età. Altri benefici derivano dall’ascolto della musica, dalla musicoterapia, della meditazione e, infine, dall’ozio costruttivo, da non confondere assolutamente con la distruttiva noia! È preferibile ascoltare. Ascolto, una delle parole in via di sparizione, come Responsabilità, Rispetto, Sacrificio, Dignità, Umiltà, Pudore, Riflessione, Pazienza e, infine, Doveri (ora esistono solo Diritti, no?).
In questo luogo si rispetta l’altro.
E si legge molto. “Leggere è ascoltare: leggere è un modo per dimenticare tutte le urla che ci troviamo contro nel nostro quotidiano. Ascoltare significa (senza tante chiacchiere) identificare un modo per comprendere il presente che altrimenti ci stravolge e ci fa parte di sé, fino al punto di non sentire più il rumore assordante della banalità, il vuoto che domina le giornate rendendo sordi i nostri desideri. Ascoltare, leggere, eleggere la propria volontà di senso”. È il logo della Luca Sossella Editore.
L’inquinamento sonoro può essere annoverato fra i moderni problemi ecologici e disintossicarsi dall’eccesso di rumori fa bene. L’assenza di rumori provoca una sensazione di relax a cui fanno da testimoni alcune modifiche positive fisiche come il rallentamento del battito cardiaco, la riduzione della pressione arteriosa, la maggiore profondità del respiro, una stabilizzazione del ritmo delle onde cerebrali e un aumento della capacità di concentrazione. Quando tutto intorno a noi tace, il cervello inizia a percepire il rumore del silenzio.
Riducendo le soglie e ascoltando le pause e gli intervalli, possiamo osservare una sorta di “dieta ipofonica”, come la chiama Franco Cassano. Il silenzio fa bene se si vuole riflettere o meditare. È creativo: sperimentatelo nelle passeggiate solitarie o davanti ad un tramonto!
Chiudere la bocca, aprire le orecchie, ecco il passo indietro – la continenza – che ci aiuterebbe tutti quanti a vivere meglio!
Nell’isola per una volta ha funzionato.
- Autore/rice Redazione
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Incontri e conversazioni tra anziani, operatori, animali
I vecchi: Rita, Lidia, Franca, Piero, Carlo
Gli inquilini pennuti e pelosi
La gatta Vittoria , le galline Anita e Zoe, Gertrude (la mamma di Qui,Quo Qua (pulcini chiari )e Emi, Evi e Eni (pulcini scuri), il gallo Germano, Le oche Grace e Rosy, l'anatra Angi ( ma crede di essere un'oca)
Gli operatori
Rosanna Direttrice sanitaria, Maria Grazia Direttrice della Residenza, Angela Infermiera
Il fotografo e la responsabile sanitaria
Fotografi
Alberto e Francesca
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Prima di raccontarvi di Michele, mio amico, colto ed educato sessantenne di Siracusa, voglio accennarvi ad un altro Michele che, a dire il vero, non conoscevo.
I due Michele condividono una storia recente di malasanità in buona parte “neurologica” e di pronto soccorso.
Michele Merlo era un artista emiliano, un cantante di 28 anni, in arte Mike Bird. Era stato dimesso dall’ospedale di Vergato, sull'appennino bolognese, dove si era presentato da solo con dei sintomi che, secondo la famiglia, dovevano essere presi in considerazione in maniera più approfondita. "È andato al pronto soccorso di Vergato in piena autonomia", aveva detto il papà di Michele, Domenico, fuori dal reparto di rianimazione di Bologna. "Lamentava dei sintomi che un medico accorto avrebbe colto. Aveva una forte emicrania da giorni, dolori al collo e placche in gola… se l'avessero visitato avrebbero visto che aveva degli ematomi. Non abbiamo un referto medico ma un braccialetto col codice a barre che io ho a casa. E un audio che mio figlio ha mandato alla morosa: "Sono incazzato, mi hanno detto che intaso il pronto soccorso per due placche in gola". Invece lui era stanco. Michele aveva due braccia così. Faceva sport, non beveva, non ha mai usato droghe, gli piaceva la bella vita, mangiare bene, le cose belle, ha girato l'Italia in lungo e in largo".
Il giorno dopo il giovane è stato operato per un'emorragia cerebrale provocata, favorita da una leucemia fulminante, ed è deceduto.
“A Vergato gli avevano dato degli antibiotici da prendere: quando l'hanno mandato a casa aveva 38,5-39 di febbre. Ma non fidandosi, il giorno dopo ha chiamato il suo medico di famiglia a Bassano, che invece gli ha consigliato un altro antibiotico. Senza vederlo, però!”
Antibiotici a gogò (Resistenza batterica agli antibiotici? Batti un colpo!) e “visite” per telefono.
Nella mia lunga militanza ospedaliera (l’ospedale è quel luogo dove, se vuoi, ti trovi nella condizione di confermare ciò che sai e di metterlo in pratica, ma puoi anche imparare – tanto - dagli errori degli altri e soprattutto dai tuoi) non ho mai invidiato i colleghi dell’area di emergenza, il pronto soccorso: facevano (fanno) un lavoro in prima linea altamente stressante, di elevata responsabilità, a volte ingrato e per molti aspetti pericoloso sotto il profilo legale e persino “manuale” (fatti recenti ci dicono che con una certa frequenza sono i più facili da picchiare da pessimi familiari scontenti!).
Ho sempre compreso le loro difficoltà perché, in fondo, anche noi del reparto di neurologia eravamo tormentati dalle urgenze che provenivano da loro oppure direttamente con la richiesta “rosa” del medico curante. Tra queste c’erano le urgenze reali, spesso ben relazionate dai colleghi, e quelle improprie, con poche laconiche righe: “Sindrome vertiginosa”, “Cefalea”. Visita neurologica urgente.
Io e qualche altro collega, i più fetenti, sostanzialmente coetanei, dopo qualche anno abbiamo cominciato a sperimentare un breve itinerario che consisteva:
1. In una perentoria domanda, magari ripetuta due o tre volte, in considerazione di una certa reticenza, modalità che non risparmiava neanche i cittadini friulani davanti alla realtà di un camice bianco, in questo caso quello del medico curante, a cui la loro salute era stata affidata. La domanda era questa: “Il suo medico l’ha visitata prima di redigere questa richiesta?”
2. Se la risposta era no (ce lo aspettavamo: non c’era traccia di una bozza di storia clinica, di una misurazione della pressione arteriosa, di un lontano sospetto diagnostico), eseguivamo scrupolosamente la valutazione clinica e, se non era necessario ricoverare il\la paziente, iniziavamo polemicamente il referto di dimissione scrivendo: “Il\la paziente afferma di non essere stata visitata dal medico curante che ha redatto la richiesta urgente.”
Lascio alla immaginazione del lettore le reazioni o le mancate ipocrite reazioni del medico redarguito. Mi chiedo ancora oggi se qualcosa sarebbe cambiato in meglio in qualche anfratto del nostro SSN qualora già in quei lontani anni fosse esistita una commissione gestita dall’ordine dei medici o da responsabili del SSN stesso, utile almeno per riflettere su questi episodi quotidiani di malasanità e cercare di porvi rimedio.
Sempre nelle settimane scorse, ha ricevuto forse maggiore attenzione mediatica la intricata vicenda della diciottenne morta, anche lei per emorragia cerebrale, dopo la vaccinazione. Un’altra complicazione neurologica.
E ora vi racconto dell’altro Michele che vive nella mia città natale, Siracusa.
Michele è molto amico di mia cugina che ne ha sempre descritto le doti di signorilità, di intelligenza, di curiosità intellettuale. Insieme a lui, in una soleggiata e ventilata tarda primavera ho visto l’Aiace di Sofocle al teatro greco: ricordo i suoi commenti e i collegamenti storici, veramente piacevoli, e poi le grandi risate davanti a un piattone di arancini!
Anche lui vaccinato con Astra Zeneca, la mattina dopo, domenica, era apparso “confuso” a un suo caro amico che lo aveva chiamato al telefono e poi ai familiari allertati. Passavano le ore e lo stato “confusionale” destava una comprensibile apprensione. Da qui la decisione di condurre Michele al pronto soccorso della città.
Dopo qualche ora in pronto soccorso il tam tam amici-famiglia è arrivato a me con una richiesta di un parere “da lontano”. Odio dare pareri neurologici “da lontano”, senza poter visitare, fare le domande opportune, osservare. Ne ho scritto i motivi sull’Avviso Importante nel mio sito. Ma stavolta non potevo sottrarmi. Ho raccolto qualche elemento della storia - un tempo si chiamava “scrupolosa anamnesi” ma pare che non sia molto di moda, oramai - e ho cominciato a capire che si trattava di una manifestazione clinica di afasia (in questo caso con una alta componente di difficoltà nella comprensione del linguaggio e, di conseguenza, problemi di espressione verbale) legata ad una reazione al vaccino su base immunitaria o vascolare (o di ambedue, come stiamo cominciando ad apprendere in questi mesi strada facendo!) a livello temporale sinistro.
A quel punto la sorella mi ha messo in contatto telefonico col collega del pronto soccorso a cui ho manifestato il mio sospetto diagnostico, dicendogli che sospettavo un’afasia di Wernicke.
“Ma nooo! È molto nervoso, agitato, confuso, ho chiamato lo psichiatra e gli abbiamo fatto una fiala di Valium endovena!”
“Guarda che Michele è uno che non ha reazioni immotivate, esagerate, è uno saggio e responsabile. E, se è agitato, lo è perché non comunica bene con gli altri, con voi, a causa del problema del linguaggio.”
“Tranquillo, ora è tranquillo. Lo teniamo qualche ora e lo mandiamo a casa.”
Santo Vuazzap! Un’ora dopo ho visto Michele attraverso il cellulare della sorella.
“Ciao Michele, come stai?”
“Bene”, ha risposto un impassibile Michele, appoggiato ai cuscini dello schienale del letto del reparto di emergenza, con le braccia conserte.
“Puoi mettere le braccia avanti, parallele?”
“Bene” ed è rimasto a braccia conserte, immune alle sollecitazioni della sorella per fargli eseguire l’ordine (è il test di Mingazzini)
“Michele, chi è lì accanto a te?”
“Bene”
“Secondo te, in che stagione siamo?”
“Bene”, la solita impassibile risposta.
Qualche altra domanda, solita apatica e stereotipata risposta. Non poteva essere il Valium ad averlo ridotto così e di afasici di vario tipo ne ho visti tanti!
“Anna, dimettetelo, andate velocemente a Catania, magari alla Neurologia del Cannizzaro. Ho conosciuto in passato i colleghi, bravi e dai modi umani. Ti scrivo due righe sempre sul tuo cellulare segnalando questa evoluzione verso quella che considero oramai, seppur “da lontano”, una afasia globale. Mostra lo scritto ai colleghi increduli di qua, compreso quello “del nervoso”, e ai colleghi neurologi di Catania. Fate presto, però!”
Michele è stato ricoverato in quel reparto e ci è rimasto per quasi un mese, sottoposto a due rachicentesi (punture lombari), risonanze magnetiche e vari altri accertamenti. Senza tediarvi, la prima RM encefalica ha evidenziato un “gonfiore” del lobo temporale sinistro, provocato da un verosimile edema infiammatorio (autoimmunitario o meno). Guarda caso è l’area interessata alla comprensione del linguaggio, l’area di Wenicke, in connessione con il “centro” di Broca frontale e con regioni vicine. A sinistra: vale per tutti i destrimani e nei due terzi dei mancini.
Con antivirali e cortisonici Michele ha ripreso a parlare e comprendere qualcosa già nelle ore successive migliorando progressivamente fino alla dimissione di poche settimane fa. Sta recuperando ma è ancora in una condizione simile alla “nebbia mentale”, come viene chiamata una certa sequela cognitiva post-infezione da Covid-19.
In un racconto pubblicato qui- ma che non riesco a individuare e a segnalarvi- ho raccontato della mamma di mia cognata la quale è stata accolta da sonore risate da parte di una collega dello stesso pronto soccorso quando le aveva chiesto, su mio suggerimento, se avevano pensato che il malessere della mamma fosse magari conseguenza del fatto che la pressione arteriosa si riduceva di molto quando l’anziana donna si metteva in piedi. Solamente quando è tornata a casa, mia cognata ha proceduto alla misurazione ed ha confermato quanto sospettato ed ha ridotto le dosi di ipotensivo…
In triste conclusione, la neurologia resta scienza orfana. Penso con ammirata nostalgia ai “nostri” infermieri e persino a quelli\e che si chiamavano inservienti del reparto: sarebbero stati capaci di capire che si trattava di un’afasia. Molti di loro, senza leggere lo scritto del medico inviante, emettevano sospetti diagnostici dopo un semplice sguardo alla persona in carrozzina per una visita urgente. “Dottore, c’è una richiesta urgente di là che l’aspetta. Vada con calma: il signore ha una paresi facciale destra, ma è periferica.”
“Come ha fatto a capire che è periferica e non centrale?”
“Non riesce a chiudere bene con le palpebre l’occhio destro.”
Nella mia città natale, la neurologia e la neurochirurgia sono arrivate qualche decennio dopo la mia emigrazione “al nord” nel 1970, a Udine, dove c’era “tutto”, in una città con un numero di abitanti sostanzialmente uguale. Le due specialità sono state avviate a Siracusa dopo, ma non all’interno dell’ospedale, bensì in una struttura che sta da un’altra parte della città. Non sono un tecnico di programmazione sanitaria né un architetto che costruisce ospedali ma ritengo, attraverso le mie esperienze vissute sul campo, che i neurologi devono lavorare accanto ai rianimatori, agli internisti, ai reumatologi-immunologi, ai cardiologi, a tutti gli altri.
La mancanza di cultura neurologica, malgrado il peso delle “nostre” patologie nella società e nella sanità, persiste. E io faccio fatica a capire perché.
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
Ho cominciato a scrivere questo articolo l’8 maggio. Ricorreva l’anniversario della morte di Antoine-Laurent de Lavoisier, il “padre” della chimica moderna, processato e ghigliottinato l’8 maggio 1794 in pieno Terrore. “La république n’a pas besoin de savants!” disse il giudice Coffinhal, che peraltro sarebbe finito anche lui sul patibolo tre mesi dopo! Continuavo a scriverlo il 10 maggio, mentre ricorreva l’anniversario del rogo di libri di Berlino nel 1933.
Insomma, nella storia i libri e i suoi lettori hanno attraversato diversi momenti critici. Abbiamo numerosi esempi storici e qualcuno abbastanza recente, come nella Cambogia di Pol Pot.
Sì, qualcuno, periodicamente, se la prende coi libri.
Ricordo le emozioni di Fahrenheit 451, un film del 1966 diretto da François Truffaut, tratto dall'omonimo romanzo fantascientifico-distopico di Ray Bradbury. Un’opera predittiva, al pari di “1984” di George Orwell, di fantapolitiche svolte della società futura, che sottolinea lo strapotere mediatico assunto dal mezzo televisivo. In tutta la vicenda l'onnipresente schermo casalingo costringe la popolazione a una ebete sudditanza nei confronti del potere. Montag è uno dei pompieri occupati dal potere a distruggere col lanciafiamme i libri, ma, resosi conto nel frattempo del valore della lettura, cerca di salvare un libro. Il capitano se ne accorge e gli punta la pistola contro, ma Montag riesce a ucciderlo con il lanciafiamme. Inizia così la sua fuga da ricercato e alla fine si unirà agli "uomini libro" che cercano di preservare il contenuto dei libri imparandone a memoria il testo (scena fantastica) e in seguito bruciandoli per evitare che gli siano tolti.
Pur con qualche velato timore che qualcosa di simile possa diventare realtà e la presenza di sporadici, attuali segnali inquietanti, la realtà del momento sembra incoraggiante: si scrivono tanti libri, forse troppi, ma pare che siano aumentati anche i lettori, e proprio a causa della pausa imposta dalla pandemia e della riscoperta di un valore inestimabile qual è l’esperienza della lettura.
Nelle settimane scorse ho partecipato come giurato al secondo concorso letterario della Debanfield di Trieste godendomi la lettura di alcuni straordinari racconti. Alla fine del percorso e delle nostre segnalazioni la presidente Michela Marzano ha scelto come racconto vincitore “La storia di Rosa” scritta dall’attrice Daniela Poggi (gli elaborati erano, comunque, anonimi), la quale a sua volta, dopo aver portato in giro per l’Italia uno spettacolo sul dramma familiare della demenza, ha appena pubblicato un libro sul tema, “Ricordami”.
Mara Venier, amabile intrattenitrice televisiva, o come si chiama il lavoro che fa, per quelle poche volte in cui l’ho seguita, ammirandone comunque l’autenticità, ha pubblicato un ricordo della mamma malata di demenza: “Mamma, ti ricordi di me?”
Il tema delle demenze, quindi, continua a trovare ampio spazio nella cultura, anche se è un novizio. L’interesse per queste patologie è legato principalmente all’effettivo aumento dei casi, con previsioni per il 2050 che superano i 150 milioni di malati di demenza, previsioni che peraltro non tengono conto di un dato: circa il 50% sfugge alla diagnosi, ne ho scritto diffusamente qui e sul mio sito in “La strage delle innocenti”.
Anche le porte del cinema si sono aperte a queste malattie ufficialmente nel 2001 con due bei film, il notissimo “Iris” sul dramma vissuto dalla scrittrice Iris Murdoch, filosofa e scrittrice britannica, ed un altro poco conosciuto, argentino, “Il figlio della sposa” che narra di un amore maturo e durevole tra due conviventi – lei malata di demenza - da quasi cinquanta anni. L’anno 2001 coincide, guarda caso (ma non ho intento complottista!) col rinnovato interesse a questi aspetti della salute per l’arrivo nel mondo dei primi farmaci “contro”, gli inibitori delle colinesterasi.
L’interesse culturale non demorde, anzi, si rinnova con altri prodotti straordinari, anche teatrali: “Il Padre” con Alessandro Haber e Lucrezia Lante della Rovere é tratto dalla pièce del 2012 di Florian Zeller, che lo scorso anno ha esordito come regista, appunto, di “The Father. Nulla è come sembra”, con un esemplare Anthony Hopkins, vincitore recente dell’oscar 2021!
Non ha incassato molto e mi spiace immensamente – lo conferma Michele Farina nel suo “Quando andiamo a casa?” - l’emozionante “Una sconfinata giovinezza” di Pupi Avati, di cui ho accennato al drammatico finale qui, insieme a Claudio Bonivento a proposito delle persone che si perdono, spariscono a volte vengono inghiottite dal nulla per colpa di una malattia non diagnosticata o malamente gestita. O per semplice sfortuna.
È un film peraltro “utile” che commento attraverso spezzoni significativi a scopo didattico.
La conclusione di questo lungo preambolo: di demenze si discute e si scrive! E si legge.
Per merito dell’isolamento - si può dire così? – avevo deciso di leggere libri nuovi e di rileggere autori classici. In questa ottica, ad esempio, mi sono appassionato, ma di giorno! all’ottima scrittura di “Cecità” di José Saramago, dedicando sera e notte a “Il fu Mattia Pascal” e a capolavori del genere. Non ritengo di essere il solo ad adottare il sistema giorno\ notte, ovvero dedicare alle letture un po’ sconvolgenti le ore di luce naturale e a quelle della sera libri che possono farmi sorridere o rassicurare, accompagnandomi verso un sonno sereno e ristoratore.
Con questo schema in mente ho preso in mano anche alcuni libri dedicati al tema della fragilità e delle demenze. Li ho tutti destinati alla luce del giorno, temendo ripercussioni emotive che mi turbassero, appunto, il riposo notturno.
Tuttavia, devo confessare che per due ho dovuto fare una inversione di marcia: stavo leggendo di giorno “Lunafasia” di Luca Lodi e, in contemporanea notturna il libro “Un tempo piccolo” di Serenella Antoniazzi dedicato alla vicenda di Michela Morutto e di suo marito Paolo. Di notte, perché spinto dall’urgenza di alcuni webinar a cui ci avevano invitati per discutere del dramma delle demenze giovanili.
Ad un certo punto, però, ho deciso di dedicare la notte al fantasioso e tenero “Lunafasia” e alle ore illuminate dai raggi del sole il doloroso, denso di amare riflessioni, “Un tempo piccolo”.
“Lunafasia”, insomma, si adattava alla notte, prometteva di regalarmi la trasparenza di una favola intelligente e la sottile speranza che un miracolo come quello descritto da Luca Lodi potesse accadere nella realtà di noi vecchi.
In ogni modo, preavviso, ciò che accomuna vari protagonisti dei due libri è il ruolo di combattenti. Amo i battaglieri – per le giuste cause - e mi tengo lontano dai guerrafondai.
Conosco Luca Lodi in quanto ho curato la prefazione (responsabilità loro!) del volume “Viaggiatori Controcorrente. Percorsi di benessere non farmacologico” scritto assieme a Maria Silvia Falconi, Valentina Molteni e Orlando Prete (Editrice Dapero. 2017. A proposito: un caro ricordo di Renato Dapero, mente geniale che il Covid ci ha portato via pochi mesi fa). Mi aspettavo una scrittura, seppure in forma di romanzo, più “tecnica” e di conseguenza magari piuttosto fredda. Di tecnica, ma forse sarebbe meglio chiamarla diversamente, Luca accenna alla fine, nelle utilissime “Schede di approfondimento” curate da Emilia Lazzarini, nelle quali riversano la personale sensibilità e l’esperienza matura. Esiste persino una simpatica esplosione di originalità al sapore di impegno sociale nella dedica finale - in busta chiusa! - a tutti i professionisti della cura.
Il resto è a tutti gli effetti un romanzo formativo di piena e salutare inventiva, la narrazione della magica notte di Luna Blu che vede protagonisti un OSS di quelli bravi ed empatici e, particolarmente, un’ospite della RSA dove lui lavora, un racconto in cui la delicatezza, la semplicità dettata dall’impegno professionale dell’autore (Luca, resta curioso! Imparerai fino a 95 anni, restando lucido, te lo assicuro!) servono alla nostra comune battaglia contro la zavorra dei preconcetti, dei pregiudizi e degli errori di eccessiva semplificazione che imperversano sui luoghi di cura delle persone fragili.
La trama di “Lunafasia”: non desidero privarvi della magia della sorpresa, per cui accennerò a qualche tratto divertente (su cui non può mancare, tuttavia, la necessaria serietà della riflessione!) dopo avere riportato dei frammenti di interviste rilasciate da Luca: “Lunafasia è stata un’esigenza, volevo condividere il mio pensiero legato al mondo delle RSA. Un pensiero critico che andasse a scavare oltre a quello che viene ritenuto “normalità”. Attraverso la trama ho voluto toccare i punti nodali che contribuiscono a creare la routine del lavoro con le persone anziane istituzionalizzate, osservandole con occhio critico… Un punto di vista al quale tenevo molto e che ho fatto emergere con non poca soddisfazione è lo sguardo su questa complessa realtà da parte della persona anziana. In questo romanzo formativo ho creato il contesto affinché sia Clotilde (persona anziana co-protagonista) a dare la sua versione, a dire cosa è essenziale e cosa no; permettendosi di fare confronti, dare giudizi e contestare fortemente alcuni ambiti, dall’ambiente di vita delle RSA, all’uso di contenzioni, alla qualità dei pasti e - perché no? - alla dignità della persona…”.
Luca scrive nel suo libro: “La mia personale visione è caustica, ma realistica. Gli chiediamo di fare delle azioni che non comprende, in un luogo che non conosce, con persone estranee vestite di bianco che gli impongono di prendere pastiglie di varie forme o di spogliarsi per fare il bagno in nostra presenza, e questo non dovrebbe inalberarsi?Io, nei suoi panni, avrei fatto molto di peggio! Altro che violento…”
E poco prima ci commuove con “… tra tutte le parole urlate non manca mai la parola mamma. Come ci si può scordare di lei”?
Ad un certo punto della notte magica con Clotilde subentra un’idea…
“Solo allora mi viene l’idea. E non un’idea. L’Idea, quella con la I maiuscola: ho un’opportunità unica e non sarò certo così stupido a sprecarla.
“Facciamo un gioco?” le propongo. “Io ti dico una frase o ti indico un oggetto e tu lo racconti come preferisci… ti va?”
“Certo che sì. Mi piacciono i giochi…”
“La divisa che indossiamo come la chiameresti?”
“La chiamereiiii…” - la pausa aiuta a prendere tempo – “la chiamerei: anonimo vestiario. Meglio: è una revoca d’identità. Voi siete come le perle della mia collana: da lontano tutti uguali, ma se osservati con più attenzione ti accorgi che alcune perle sono più rotonde e belle di altre”.
Pochi secondi di silenzio e arriva il suo giudizio.
“Non ti preoccupare… tu sei una bella perla”.
“Le spondine del letto”?
“Sbarre da prigione o utili appigli, a seconda dei casi”.
“Le pastiglie che ti stavo portando stasera”?
“Bomba stordente! Che altro si può dire di quella roba… Continua dai, mi sto scaldando solo ora”.
Scrocchia le dita di entrambe le mani con un sol gesto. Sembra divertita e anch’io mi sto appassionando al gioco.
“Quella carrozzina”?
“Quella è… un carro lanciato in discesa! Ti permette di muoverti ma non decidi tu dove. Non sai quante volte mi hanno presa alle spalle e portata senza dirmi nemmeno dove… ti assicuro che non è bello”!
Sì, se gli ospiti potessero dir la loro…
Ancora un tocco di fantasia da applicare interamente e intensamente alla realtà del mondo professionale nelle RSA. Si trova alla fine, nelle “Note dell’autore”: “Siamo meticolosi, professionali e indifferenti al punto di scordarci le persone anziane. Concentrati sul fare mentre trascuriamo il nostro essere empatico. Non è retorica… molte volte nelle mie formazioni parlo della sindrome dell’anziano fantasma. Malattia di mia invenzione: non cercatela in MSD. Questa compare quando non percepiamo più come presenza quell’anziano taciturno che occupa sempre lo stesso posto. Ci passiamo davanti trenta volte e lui non c’è più, pur rimanendo lì… La regola d’oro che dovrebbe accompagnare ogni professionista della cura è: prima le persone poi le cose. Prima gli anziani poi il mansionario che ci porta a fare, fare e fare ancora... perdendo il senso deontologico della nostra professione”.
Fantasia e realtà, immaginazione che non sempre riesce a mitigare il dolore assoluto.
È il momento del breve commento di “Un tempo piccolo. Continuare a essere famiglia con l’Alzheimer precoce. Storia di Michela e Paolo”. È stato pubblicato da Gemma Edizioni, luogo di testi letterari in cui si mette in luce in maniera intelligente la sana ed elegante fantasia, seppure a volte con sfumature dolenti.
Inizio dalla prefazione di Annalisa Monfreda, direttrice di Donna Moderna: “… raccontare, per Michela, non è mentire, consolarsi, immaginare. Ma capire. E così dà voce a tutto. Alla rabbia, all’acidità, al rimpianto. Non risparmia niente di ciò che una malattia porta in una famiglia. “Scambierei volentieri la demenza con il cancro”, urla a un certo punto. “Ma è vero amore questa relazione che oggi è diventata una prigione, una missione?”, si chiede a un tratto. La verità non risparmia neanche gli anni prima della malattia. Un matrimonio che è un eterno compromesso…
… Michela racconta per aiutare tutti quelli come Paolo, che avranno la sfortuna di incontrare questa malattia in un’età precoce”.
Tutto chiaro, no? Nessuno sconto alla dura realtà, all’amarezza del dopo e alle incertezze di coppia del prima. Nessuna edulcorazione della materialità dei nostri rapporti umani, dove non tutte le famiglie sono da “mulino bianco”!
Infatti, già nella premessa, Serenella Antoniazzi tiene a precisare: “Il racconto di Michela e Paolo è nato quasi per caso. Le registrazioni che facevano le ascoltavo. Mi è sembrato giusto dare dignità alle loro vite non solo durante la malattia, ma anche prima che questa arrivasse, per sconvolgerle per sempre. Per questo motivo il libro si divide in due parti, prima e dopo l’insorgenza della malattia.
La voce narrante è quella di Michela, è lei a tessere le fila delle storie; è lei la custode principale delle memorie e la combattente del presente”.
Poi cita Sant’Agostino: “Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Questo diario sarà un tempo piccolo che non trascorrerà mai via da noi”.
In TU, “… Paolo racconta quel che può, le emozioni antiche nella sua memoria, gli agguati al padre nel lettone la domenica, il suo profumo buono di sapone di Marsiglia, il profumo inconfondibile del suo eroe. Poi la sua malattia, la demenza, la sua sedia vuota… Michela lo ascolta: “Ti ascoltavo e mi chiedevo se stessi parlando di tuo padre o di te. Non eri in grado di descrivermi in maniera dettagliata gli atteggiamenti di tuo padre agli inizi della malattia, perché eri troppo piccolo per ricordarli però, in qualche modo, sapevi che erano simili a quelli che ti stavano appartenendo”.
In questo libro si cavalca l’onda della realtà, della verità, non trovano spazio edulcoranti con sapori fittizi. L’impegno di Michela è reale, è moglie, madre, caregiver, senza sconti per nessuno.
Quello praticato a livello sociale da Serenella era già collaudato perché risale a qualche anno fa, quando le sue battaglie hanno portato al “Fondo per le vittime di mancati pagamenti per dolo di terzi” istituito a livello ministeriale nella Legge di stabilità del 2016.
Ho seguito come neurologo vicende di demenze giovanili, di alcune ho scritto qui, dramma nel dramma.
Colpiscono persone in età lavorativa, con congiunti increduli o, all’opposto, allarmati e battaglieri, in età lavorativa, con bambini o adolescenti che vivono stralunati lo sconvolgimento delle loro vite familiari e le speranze del futuro.
“Stamattina mi hai chiamata gridando e mi hai chiesto di raccontarti di noi. Io ti ho domandato in che senso e tu hai specificato che intendevi “Chi siamo noi, come siamo io e te”. Ieri, mentre passeggiavamo lungo la pista ciclabile che costeggia il Lemene, mi hai fatto la stessa domanda. Ti ho risposto che sono più di vent’anni che noi siamo noi e ti ho chiesto se si era già cancellato tutto quello che ti avevo raccontato ieri. Le nostre fatiche, le nostre litigate, i momenti di gioia, il primo bacio, la casa nuova, il nostro cagnolino, i nostri bambini, erano già spariti dalla tua mente?
Tu allora mi hai implorata di non arrabbiarmi, perché avevo ragione e sapevi di essere un peso. Poi hai detto una cosa terribile, che tu saresti, anziché una spalla su cui piangere quando sono sfinita, il nulla. Hai detto proprio così e poi che non avresti mai voluto questa malattia, che è sparire pur restando vivo, e non avresti mai voluto perdermi. Poi mi hai chiesto di perdonarti perché sai già che un giorno mi guarderai e non ti ricorderai più chi sono. Mi fa morire di dolore, hai detto.
Le tue parole sono state un pugno nello stomaco. Sai, ho quasi sempre il sentore di impazzire, mentre giro vorticosamente dentro un uragano fatto di immagini, ricordi, sensazioni che, a volte, non sembrano neanche mie. Apro le finestre sul nostro passato, con enfasi per i momenti più belli e con ritrosia per quelli più brutti, che spesso sono costretta a scaraventare direttamente fuori. Scelgo di ometterti una parte di verità per non raccontarti di altro dolore. Non abbrutisco coloro che, invece di amarti, ti hanno allontanato; sebbene il rancore sia tanto, mi rendo conto che non ho il diritto di alterare un passato che già vacilla nella tua mente e, giorno dopo giorno, si cancella sempre di più.
Oggi il tempo è stato clemente con noi, ci ha concesso istanti preziosi per raccontarci chi siamo, chi eravamo e perché non vogliamo arrenderci, un’altra volta. E così, ancora, ti ho raccontato della nostra prima casa. Perché è questo che facciamo: restiamo appesi, fluttuando sul filo sottile di una memoria troppo breve che però a volte riesce a illuminare di sprazzi lucenti i nostri giorni. Vorrei cristallizzarli e appendermeli al collo per portarli sempre con me, come talismani che ci proteggono dalla dimenticanza”.
Che commenti posso aggiungere a tanta dolorosa tenerezza?
“Ti guardo mentre cerchi di farti un panino e mi si stringe il cuore: non trovi il pane e, se lo trovi, non sai come dividerlo per mettere dentro il prosciutto; prima provi con le mani, poi ricordi che serve il coltello. Ti osservo, lo guardi e in un attimo tutto ti torna alla mente e riesci a prepararti la tua rosetta ben imbottita di prosciutto, per poi divorarla con gusto”.
Al momento Michela, Paolo, i figli Mattia e Andrea stanno combattendo le loro battaglie quotidiane senza alcun fattivo supporto.
“Michela, come ogni persona che si trova a lottare per un familiare colpito da questo male, vuole solo salvaguardare la sua dignità e quella dei suoi cari. Vuole lavorare, perché se ha perso la possibilità di sentirsi donna, almeno le venga lasciata quella di sentirsi persona al femminile. Vuole preservare e allungare il tempo in cui i figli, ancora piccoli, possono interagire, con tutti i limiti del caso, con il proprio padre, che non sta morendo, ma sta scomparendo, giorno per giorno, pur essendo fisicamente presente. Vuole che Paolo, spesso cosciente di quello che gli sta succedendo e consapevole del fatto che è inesorabile ed inarrestabile, conservi la gioia di essere attivo nei momenti di lucidità, perché, come uomo, non passi il tempo a capire cosa (non si può dire chi) diventerà giorno dopo giorno.
Michela, Paolo, Mattia e Andrea non chiedono soldi, non li chiedono per sé. Michela, con Paolo, sono disposti a passare tutto questo, ma vogliono che la loro testimonianza serva a far riflettere e comprendere, a tutti, cosa può accadere in una comune famiglia”.
Serenella Antoniazzi è riuscita a trasferire su carta la sofferenza di una famiglia intera, di una parte della società, nel lento percorso di una malattia che parcheggia, spesso, chi è malato su un binario morto e con lui la sua famiglia.
In tempo, prepariamoci a capire, per affrontare queste malattie crudeli che uniscono, separano, cancellano, imprigionano, rendono estranei e forse nemici nel modo più doloroso. Tentiamo di aiutare che aiuta. Facciamolo anche attraverso l’arte dello scrivere, coi film, col palcoscenico del teatro. Arte, sentimento, lealtà del racconto a volte superano la realtà, coinvolgono le emozioni che devono servire a contrastare miti, luoghi comuni, errori e disinformazione, a far mutare opinioni e atteggiamenti. In una parola: ad insegnare.
Concludo con le parole iniziali del magnifico articolo pubblicato su Neurology dalla moglie di Robin Williams, di cui ho raccontato qui
- Autore/rice Ferdinando Schiavo
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali
La variabile impazzita si trova lassù in alto a sinistra: personalità e coscienza di malattia…
Buongiorno Dottore, mi chiamo XX e le scrivo su mio padre di 92 anni…Mio padre "mi sconcerta dirlo", é diventato di difficile gestione: noi (io mia madre e mio fratello) ci siamo trovati impreparati a tentare di gestire una situazione nuova e grande. Non so se sia solo vecchiaia, demenza, cattiveria o cos’altro ma non sappiamo come comportarci. Ci troviamo di fronte ad una persona con una notevole forza fisica dal carattere forte forgiato da una madre possessiva, dagli eventi della guerra dal fatto di essere orfano di padre dall’età di otto anni e da tanto altro. Non so come comportarmi vorrei capire se esiste (una scuola) dei corsi o cos’altro per educarmi/educarci alla gestione di una persona che ha sbalzi di umore, uscite di pura cattiveria, che “vive di notte”, che fa i bisogni in salotto dicendo che non riesce a raggiungere il bagno, che getta l’orina dalla finestra e fa la cacca sul tappeto (e non soffre di incontinenza). Mia madre ha 88 anni, mio fratello 64, loro tre vivono assieme in una bifamiliare, io vivo da solo sotto…. non dormo a causa delle performance notturne del papà……. la mamma è sfinita …mio fratello soggiogato…. Io sono insomma, mi sento impotente e non so cosa fare, tentiamo di far aiutare la mamma da una signora (per le pulizie ecc.) ma lui non vuole e si ribella…
Nella mia mail ho chiesto, tra le altre cose, se il medico di famiglia si stava interessando al caso.Risposta del sig. XX: il medico di famiglia c’è ma la “furbizia“ di mio padre è tanta 🤣. Poi ... c’è il problema che lui guida ancora, quindi...
Ho visitato il papà, presente tutta la famiglia, attraverso uno stratagemma di mia invenzione che ho riportato nel mio libro Malati per forza, ovvero una falsa lettera dell’INPS: non descrivo qui lo stato cognitivo, ben mascherato attraverso una certa “facciata” ovvero un misto di furbizia e di astuzia. C’era comunque un quadro di demenza tipo Alzheimer di livello “moderato” (termine che uso con cocente malavoglia per i motivi che ho spiegato qui il mese scorso a proposito di “classificazioni” dello stadio demenziale attraverso la scheda CDR).
Soprattutto volteggiava nell’aria quella condizione che noi neurologi (e le neuropsicologhe) chiamiamo un atteggiamento frontaleggiante, un mix di disinibizione, sottovalutazione, menar il can per l’aria, commenti fuori luogo. E poi, infine… la variabile impazzita: l’assenza assoluta e persistente della coscienza di malattia.
La vicenda clinica e umana si è conclusa male poche settimane dopo, con un ricovero in ospedale per broncopolmonite, DELIRIUM (perdonate l’uso delle maiuscole ma, per una patologia ampiamente sottovalutata, serve!) e la morte dell’anziano.
Gentile Dottor Schiavo, le scrivo per confermarle quello che le dissi nel nostro colloquio di ieri.
Le condizioni fisiche e soprattutto psichiche di mia madre sono vertiginosamente precipitate nel corso dell'ultimo anno. Nonostante tutti gli sforzi compiuti per garantirle una qualità di vita il più possibile serena e dignitosa, gestirne la vita quotidiana è diventato difficile quando non impossibile per le persone che se ne occupano e in particolare per me, con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale e che oramai identifica come la persona che l'ha privata di tutto, della patente, della libertà: sono ai suoi occhi a tutti gli effetti la sua principale carceriera.
Non mi dilungo in dettagli che a lei saranno ben noti: la lotta costante e spesso vana per farle accettare l'aiuto di cui ha bisogno per ogni gesto e attività della giornata, la rabbia che esplode regolarmente e a tratti violenta, l'impossibilità di una minima forma di dialogo e proposta di qualsiasi rimedio alla sua disperazione.
Caro dottore, io non ce la faccio più a subire questa disperazione senza poter fare veramente nulla che risolva, che sia d'aiuto. Da mesi e mesi la mia vita, da sempre condizionata dai suoi umori e manie di persecuzione, depressioni, è diventata impossibile: sono costantemente al telefono ora per placare i suoi furori, ora per organizzare la rete di assistenza, con la giovane ragazza rumena che lei un giorno ama e gli altri tre odia, per non parlare di parenti e amici affettuosissimi che nonostante tutto l'ha tenuta in vita fino ad oggi. E quando, più volte nell'anno e per lunghi periodi, mi trasferisco in Friuli, la vicinanza non soccorre: è la mia stessa presenza che le scatena chissà quali fantasmi, e sono scenate ed è meglio che scappi via.
Non da ora temo che la sua ribellione ad ogni controllo possa portare a gesti o conseguenze drammatiche per sé e per gli altri: rifiuta l'igiene domestica, non mangia o mangia cibi scaduti, esce da sola con qualsiasi tempo e temperatura, sparisce per delle ore senza dare notizie, scambia la notte con il giorno, ha allucinazioni, dimentica le chiavi, cade al mercato e soprattutto impedisce alla sua “badante” di sorvegliarle la somministrazione dei farmaci, che regolarmente scambia o dimentica.
E le crisi raddoppiano e si susseguono spesso senza soluzione di continuità.
Per non parlare della questione economica: fino ad ora- ho la firma sul suo conto- ho gestito le spese come ho potuto facendo salti mortali per nascondere ogni uscita necessaria (e rigorosamente documentata) che lei riterrebbe superflua (il denaro è una delle sue principali ossessioni) ma sinceramente preferirei- non fosse altro per evitare anche l'ombra del rischio un domani di una contestazione! - smettere di occuparmene.
Mi ha confermato stamattina la signora dei Servizi Sociali quello di cui lei mi parlò l'altra volta: che ci sarebbe la possibilità di una terza persona, un amministratore di sostegno, che potrebbe in questo senso venirmi in soccorso, trovare delle soluzioni, sgravarmi di qualche peso e responsabilità. Sarebbe utile? E' il caso secondo lei che mi attivi in questo senso? Vede altre soluzioni affinché io possa uscire da questo incubo?
Io ho sessant'anni, una malattia alquanto seria che secondo la scienza potrebbe' risentire anche fatalmente di un eccesso di stress. Ho un marito che non so quanto a lungo sopporterà questa tensione, ho una casa e amici e una vita e soprattutto avrei una serenità faticosamente conquistata negli ultimi anni nonostante mia madre.
Mi dia un consiglio dottore, la prego. E mi perdoni questo sfogo di ferragosto.
Resto in attesa di una sua gentile risposta e molto cordialmente la ringrazio e la saluto.
GG
La mamma della signora GG era stata visitata pochi mesi prima di questa mail, col solito stratagemma: per molti aspetti cognitivi anche lei era nella fase “moderata” di una malattia di Alzheimer e, in assoluto, pure lei era priva di coscienza di malattia.
Ha vissuto pericolosamente ancora per un anno, tra uno scippo, un tentativo di frode, tre cadute, infine un ricovero in ospedale per sincope dopo avere assunto farmaci ipotensivi più del dovuto, solito DELIRIUM, contenimento fisico e con sedazione farmacologica, sindrome da immobilizzazione, morte.
Quando lavoravo in ospedale non mi è mai accaduto, ma “fuori” ho sperimentato altre realtà cliniche e umane. Appartengono a queste “novità”, che hanno comunque accresciuto le mie personali conoscenze, i casi di persone con demenza assolutamente prive di coscienza di malattia.
Lo schema oramai è classico, ne ho incontrate diverse: telefona un congiunto, spesso una figlia, desidera un appuntamento senza il/la paziente. Perché? A volte la richiesta è giustificata dal desiderio di poter parlare liberamente senza ferire il familiare, ma in altri casi è secondaria al fatto che quest’ultimo\a manifesta sintomi di tipo demenziale ma non ha assoluta coscienza della portata dei propri deficit. I caregiver non sono in grado di convincerlo\a a sottoporsi agli accertamenti e sono legittimamente preoccupati. Questa anomalia può esporre paziente e familiari al rischio di conseguenze serie, come ad esempio danni derivanti dalla maldestra guida di una autovettura, dall’uso del gas in cucina, da errori – appunto - nell’assunzione di farmaci per malattie varie (si pensi al diabete mellito insulinodipendente, all’ipertensione).
L’assenza assoluta di coscienza di malattia, peraltro, impedisce che il soggetto malato possa ricevere tutele legali o amministrative (amministratore di sostegno, assegno di accompagnamento, ecc.) in quanto è improbabile che abbia voglia di presentarsi fisicamente in tribunale da un giudice oppure davanti ad una commissione per l’invalidità. Le truffe a loro carico sono un ulteriore aspetto da non sottovalutare.
Il rischio è maggiore, ho notato, se il soggetto con demenza “aveva” (quando stava bene…) una personalità forte e indipendente, se era decisionista e abituato al comando: in questi casi risulterà sicuramente problematico far accettare, sono alcuni esempi vissuti, l’aiuto stabile di una badante in casa, il supporto di qualcuno se va a passeggiare, la sospensione della guida, la stessa visita dal medico, un esame, una terapia e comunque un adeguato e opportuno controllo della situazione clinica che la carenza di coscienza di malattia ha reso ancora più complessa!
A un comportamento del genere altamente spossante conseguono un aumento dello stress e possibili danni economici e materiali per i familiari.
In questi due casi descritti anche attraverso la realtà dolente delle mail di familiari distrutti nel fisico e nel morale, la variabile impazzita riesce a condizionare pesantemente lo scenario.
Senza tirare in ballo anatomia e schemi disfunzionali del nostro cervello, e parole complicate da ricordare (anosognosia), l’assenza di coscienza di malattia nel corso di una demenza rappresenta realmente un aspetto non trascurabile, una componente in fondo non affrontabile con psicofarmaci e, nello stesso tempo, una barriera che impedisce o comunque limita l’attuazione delle preziose strategie non farmacologiche.
D’altra parte, nella complessità della componente cognitiva della nostra mente, esistono, accanto alla memoria e a tanto altro bendidio, anche le capacità di critica e di giudizio (questo è bene e questo è male, ma vi è contenuta anche una percezione – o meno - delle proprie difficoltà), dal cui malfunzionamento emergono spesso anomalie comportamentali, come la facile aggressività ed altro ancora.
Il povero Robin Williams (qui) aveva una piena coscienza di malattia ed una depressione in parte “organica” (da interessamento di aree specifiche cerebrali) e in parte reattiva al “come mi son ridotto”, tanto forte da arrivare alla decisione estrema di autosoppressione.
Le due persone di cui ho raccontato, invece, hanno puntato energicamente e con caparbia i piedi al suolo per tutta la durata della loro malattia, non hanno mai avuto un momento di cedimento delle personali errate convinzioni, di ammissione di aver bisogno di aiuto.
Per fortuna, tra i poli estremi, la piena coscienza e la carente coscienza di malattia, esiste la moltitudine delle persone con coscienza di malattia fluttuante, una condizione alquanto variegata – lo si può immaginare – in grado di permettere in qualche modo di affrontare queste malattie in maniera meno faticosa e dolorosa.